Telluserra
Giuseppina Rando. Era un angelo
21 Agosto 2014
 

Con andatura incerta, quasi zoppicante, Don Giovannino seguiva l’asinello a piedi. Come tutti i giorni ritornava a quell’ora dal suo podere che s’affaccia sul mare dalle terrazze degradanti del monte Fossa. Era sceso dalla groppa del vecchio asinello perché gli sembrava stanco e s’affannava da un po’ su quella stradina polverosa tutta curve e svolte, ora a destra ora a sinistra, attorno alla collina dove s’addossavano le casupole degli isolani, inconsueti come la stessa Salina, tra le Eolie, la più somigliante ad una donna avvolta da un impenetrabile alone di mistero, proprio come la moglie Faustina, folta e inesplorabile in quel carattere spigoloso, che tanto lo addolorava.

La vita sulle coste impervie e nelle valli profonde scorreva monotona e a don Giovannino, ogni tanto, sarebbe piaciuta una novità, un diversivo, ma la frantumazione dei suoi minuscoli centri abitati e le poche centinaia di persone che vi abitano conferivano a quella terra come una vocazione all’individualismo, mentre lui, Don Giovannino era per natura socievole e avrebbe voluto avere attorno persone più disponibili alla conversazione. I contadini, invece, si limitavano a salutarlo togliendosi la coppola e facendo un inchino e se anche don Giovannino, il più ricco possidente di Santa Marina, tentava qualche approccio, qualche chiacchiera… era presto lasciato a se stesso e alle proprie fantasticherie.

Sì, lo consideravano tutti un po’ bizzarro, perché stava ore e ore a guardare fisso in un punto e, dicevano, parlava con le piante o con le ombre, specialmente da quando il suo unico figlio era morto per una malattia misteriosa e sconosciuta dai medici di allora.

Quella sera ancora non aveva incontrato nessuno, forse i contadini erano già tornati tutti dalla campagna perché la stradina era deserta e gli appariva di color cenere, come la sua vita. I rami degli alberi a maggio erano più sporgenti e ciottoli grigi e neri ammucchiati ed abbandonati in alcuni punti davano, nella loro immobilità e in quel silenzio, al cuore dell’anziano uomo che vi si soffermava con lo sguardo, un senso di oppressione e di pena infinita. Pareva che anche il silenzio si fosse fatto polvere e non si sentiva neanche il rumore degli zoccoli dell’asinello. L’afa rendeva l’aria pesante e la polvere si depositava non solo sul vestito di fustagno nero, ma anche sui suoi pensieri che divenivano più deprimenti se alla sua mente si presentava Faustina che, al suo rientro, come al solito, avrebbe borbottato:

– Ma perché indossate questo abito nero per andare in campagna? Il sarto di Lipari ve ne ha confezionato tre, e restano là nell’armadio; uno di colore beige, uno grigio chiaro e uno verde oliva. No, nossignori, questo nero dovete indossare! Testa di zucca! E guardate, guardate, tutto rovinato dalla polvere! Si può scrivere sopra con il dito...

Don Giovannino non la degnava di uno sguardo né di una risposta e, toltosi il vestito, indossava una vestaglia blu scuro e ordinava alla serva un bagno caldo. Lasciava cantare la moglie che sapeva benissimo del suo giuramento, fatto dieci anni prima, alla morte del loro Bastiano: per tutta la vita si sarebbe vestito di nero. E quei vestiti che stavano nell’armadio, al sarto di Lipari li aveva ordinati lei insieme a quelli che aveva commissionato per i suoi nipoti.

– Ma in campagna chi vi vede? Gli alberi vi vedono e gli uccelli o le farfalle… In paese dove ci stanno i cristiani voi non ci andate mai!!...

– Io me lo vedo il lutto! Per me lo porto e per mio figlio che mi sento vicino, che vedo in ogni pianta, nel mare, nel vento. Ma voi perché brontolate tanto? Le serve lo spazzolano, non voi!

– Si, le serve! Ma... caro mio marito, un vestito all’anno costa!

– Ah, capisco volete fare economia e perché poi? e per chi? Non ho parenti e alla mia morte tutto ciò che posseggo sarà ereditato da voi. Chi godrà dei miei beni? I vostri nipoti.

Solo allora Faustina taceva e si andava a sedere accanto al lume a petrolio, a sferruzzare o a ricamare la bianca tela con fili di cotone colorato e la mente con i fili neri dell’odio. Uno di quegli odi acuti, velenosi, implacabili che spesso allignano anche tra congiunti. Agli occhi del marito Faustina appariva diversa dalle altre donne e non capiva se fosse un po’ pazza per natura o per il matrimonio sbagliato, avvenuto nel 1918, quando lei aveva sedici anni e lui era appena reduce della prima guerra mondiale.

Ciò che li legava, oltre l’odio di lei e la mitezza di lui, era la solitudine nella quale erano entrambi piombati dopo la morte del figlio.

Ecco perché Don Giovannino trascorreva tutta la giornata in campagna tra l’azzurro del cielo e quello del mare, dove poteva vivere un’esistenza quasi magica. In alcuni punti dell’isola, come a Serro dei Cionfi o nella zona impervia della Portella la realtà assumeva una dimensione rarefatta, di un lirismo sottile che l’animo sensibile di don Giovannino sapeva captare. Solo tra gli alberi o tra i vigneti delle terrazze degradanti fino al mare, nel fruscio lungo e lieve dei pini, dei castagni, degli arbusti, nel borbottio cupo e lento del mare s’era abituato a sentire la vanità delle cose, degli avvenimenti; aveva acquistato familiarità con tutte le diverse forme che la natura assumeva sì da vedere in esse lo spirito del figlio ed avvertire un intimo, appagante contatto. Davanti ai suoi occhi i rami degli alberi assumevano ora figure di animali, ora di persone e, in simbiosi astratta e pure reale, don Giovannino viveva come in un incantesimo.

 

Dall’incantesimo alla realtà della stradina polverosa lo riportarono quella sera i rintocchi lenti della chiesetta del Santuario della Madonna del Terzito. Don Giovannino pensava di essere nelle vicinanze di casa, quando all’improvviso da un albero precipitò un uomo incappucciato che con uno strattone lo buttò a terra, mentre da un cespuglio sbucarono altri due, armati di fucile e anch’essi incappucciati. Uno afferrò l’asino per la cavezza, gli altri due si affrettarono a legargli, il più basso i polsi e il più alto a passargli davanti agli occhi un fazzoletto piegato a fascia e annodarlo dietro la nuca. Il pover’uomo, tramortito, non aveva fiato per gridare, né per dire qualcosa. Gli sembrava di vivere un brutto sogno. Si sentì trascinato per lungo tratto, forse verso un altura. Quando riprese fiato disse: – Vi prego, lasciatemi. Cosa volete da me? Che cosa ho fatto?

– Fai silenzio o sparo – disse una voce rauca.

– Se mi dovete uccidere, vi prego, fatelo subito – replicò con voce flebile il malcapitato.

– Cammina! – e lo trascinarono ora di qua ora di là.

– Vi prego ascoltatemi, questa benda mi serra!

I tre non rispondevano, pensavano solo a spingerlo con calci e pugni ogni volta che il sequestrato cercava di fermarsi o di buttarsi a terra. Inciampava sempre più frequentemente con tanto terrore dentro, mentre pensava che laggiù nessuno avrebbe saputo della violenza cui in quel momento era sottoposto e ognuno chiuso nella propria casupola, al lume di petrolio, si preparava il pasto della sera. Trascinavano anche l’asino, ma ad un certo punto, dopo aver scavalcato alcuni sassi: – Spingi, spingi lascia la cavezza! Vai, forza!  – e poi un tonfo.

Un’altra voce: – Era un intoppo! In fondo al burrone morirà se non lo troveranno prima.

Il cuore di don Giovannino si strinse. Povera bestia! Che fine ha fatto! Ma perché?

La sua mente confusa non trovava una risposta e quelle voci gli sembravano d’averle sentite da qualche parte, ma non sapeva individuare né il volto né il luogo. Intanto camminava da alcune ore e si sentiva i piedi di piombo, li trascinava con estrema fatica.

– Ma vi prego ditemi che cosa volete da me oppure uccidetemi!

– Zitto vai avanti, stiamo arrivando e poi parleremo.

Ma la stanchezza e lo stordimento erano tali che don Giovannino non percepì quest’ultime parole e cadde tra un roveto.

Al risveglio non aveva più la benda e si trovò disteso su un pagliericcio in un antro profondo e cupo, tagliato in fondo, certo l’ingresso, da una lama incandescente di luce che si rifletteva sulle pareti di rocce della grotta che avevano piccole feritoie, da dove filtrava altra luce con un effetto di colori fosforescenti. Questo gioco di luci sollevò l’animo di don Giovannino che, però, aveva ancora mani e piedi legati; sperava che qualcuno si facesse vivo, quei tipi erano certamente contadini della zona perché lui quelle voci le aveva già sentite. – Ma dove sono?  – si chiese.

Dal silenzio intorno comprese di essere in una delle grotte più sperdute o del monte Rivi o del monte dei Porri. Tese l’orecchio e gli parve di sentire confabulare fuori della grotta: sì, erano i suoi torturatori, ancora non avevano deciso la sua sorte. In cuor suo avrebbe voluto morire: certo morire e al più presto. Niente e nessuno più lo interessava: anche se lo avessero liberato non lo allettava l’idea di tornare dalla moglie, né riprendere la vita di sempre. Eppure ebbe un brivido di terrore, appena avvertì che qualcuno, carponi, si avvicinava verso di lui. La testa di quell’enorme verme strisciante era nascosta da un cappuccio con due fori all’altezza degli occhi. No, non aveva armi, solo un pezzo di carta giallognola, strappata da un pacco di pasta Pusateri in una mano e nell’altra un pezzetto di carbone. All’improvviso uscirono da una cavità accanto gli altri due e se li trovò accanto in ginocchio.

– Su, don Giovannino, risparmiate la vostra vita e scrivete  – disse quello carponi davanti a lui.

– Ma che volete che scriva, miei cari amici? E poi con che cosa debbo scrivere?

– Ecco un pezzo di carbone  – rispose quello di destra.

– Devo firmare la mia condanna a morte?  – ebbe la forza di chiedere.

E l’altro di sinistra: – Don Giovannino non scherziamo, noi vi rispettiamo e vogliamo la vostra salvezza. Dovete scrivere a vostra moglie di pagare per la vostra liberazione.

Adesso quelle voci si sono ben definite e il prigioniero in ognuna di esse vedeva un volto conosciuto e senza accorgersene disse: – Proprio tu, Mezzapezza, mi fai questo?

– E tu Facciabruciata, hai dimenticato il fiasco di malvasia che ti ho regalato a Pasqua? E l’altro non è il figlio di Zappitta che lavora nei miei vigneti?

I tre trascinati dal fiume dell’ingordigia e del denaro non avevano tenuto in conto che il ricco don Giovannino li avrebbe potuto riconoscere dalla voce. Lo ritenevano uno stralunato, sempre fuori dalla realtà e smemorato al punto che pensavano non si potesse ricordare i loro nomi. Appena si sentirono chiamare con il soprannome con cui erano da tutti conosciuti, furono assaliti dall’ira e strappandosi il cappuccio si avventarono sul povero uomo tremante come per strangolarlo. – Ma che fate, figlioli, ditemi quanto denaro volete!

– Diecimila lire! – sghignazzò Facciabruciata.

– Diecimila lire? E dove sono?

– Voi l’avete, don Giovannino, anche più.

– Sì, ma non in contanti, così da un giorno all’altro. Ci sono i terreni, ma per avere il denaro debbo vendere.

– Ma vostra moglie e i vostri nipoti se li possono prestare.

– Vi sbagliate, amici miei, se volete il denaro io ve lo darò, ma prima dovete mandarmi a casa per poter vendere. Mia moglie o i miei nipoti non sono i padroni, essi non possono vendere, non possono far nulla. Se poi mi volete ammazzare, fate pure!

I tre non risposero, uscirono dalla grotta come cani bastonati.

Don Giovannino si morse le labbra e si diede dello stupido; comprese d’aver fatto un errore imperdonabile: quello di averli chiamati per nome. Aveva veramente firmato la sua condanna a morte.

 

Faustina, una donna bassa e grassetta, dalla faccia quadrata e insulsa, in gioventù doveva essere stata bruna, ma nel tempo era diventata bianca tanto da sembrare un fantasma. Non si scomponeva neanche alle scosse del terremoto e rimase impassibile al fatto che il marito quella sera non rientrò. Solo l’indomani verso mezzogiorno mandò a chiamare il nipote più grande per informarlo di questa novità. Non sembrava preoccupata, diceva: – Si sarà fermato nella casa di Borgonuovo per dei lavori.

Il nipote, invece, si dette subito da fare e incominciò le ricerche, ma nella casa di Borgonuovo, nessuno l’aveva visto da più di un mese e il mezzadro di contrada Malasà affermò che giovedì di là si era allontanato verso le cinque del pomeriggio, come tutti i giorni.

Le ricerche continuarono per parecchi giorni, finché in fondo al burrone di Mangraviti non fu trovato l’asino, morto, di Don Giovannino.

– E mio marito che fine ha fatto?  – si lamentava piagnucolando Faustina. La sua faccia era diventata ancora più bianca e sempre più inespressiva.

Il brigadiere di Santa Marina dovette prendere atto della scomparsa di Giovanni La Fauci e per continuare le ricerche sui monti impervi dell’isola chiese aiuto alla stazione dei carabinieri di Lipari.

Passò quasi un mese, ma di Don Giovannino nessuna traccia. Scomparso nel nulla.

– Gli alberi di pini e di castagni l'hanno inghiottito – mormorava qualcuno.

– No,  – diceva Pippuzzo, l’uomo di fiducia della casa di Malasà, – è l’orchidea delle Eolie e tutte le piante che coltivava nell’orto che l’hanno trasformato in aria, in vento...

– Don Giovannino – ripeteva Lunedda, la figlia di Pippuzzo  – è sparito nel cielo dentro una collana di fiori di mandorlo.

Così, mentre la gente di Salina lo immaginava già “beato” tra l’azzurro cobalto del mare e la coltre verdeggiante delle valli e delle colline, Don Giovannino giaceva, sempre legato nel fondo della inesplorata grotta. Due volte al giorno si presentavano i suoi carcerieri con qualche tozzo di pane che si toglievano dalla loro bocca e con una cuccuma d’acqua; quando scendeva l’oscurità, sotto la minaccia di un fucile lo spingevano fuori perché facesse i suoi bisogni all’aperto, sotto le stelle.

Ormai i tre balordi parlavano poco, solo l’indispensabile, erano convinti dello sbaglio commesso e non sapevano come uscire dal pasticcio nel quale si erano cacciati. Se lo liberavano, come in un primo momento avevano deciso, temevano che il La Fauci li avrebbe denunciati. Ad ucciderlo nessuno dei tre ne aveva il coraggio.

– Dio non ci perdonerà mai  – diceva Faccia bruciata – è un santo, l’ho sentito io parlare con gli angeli.

Aspettavano, nella loro ingenuità, che il Padre Eterno mandasse uno dei suoi messi a riprenderselo. A turno facevano la guardia, notte e giorno: gli avevano portato una vecchia coperta per ripararsi dal freddo della notte e nei giorni festivi gli facevano compagnia. Lui pareva che si fosse dimenticato di avere una bella casa, dei servi, una moglie e quando se li vedeva seduti attorno tutti e tre incominciava a parlare, a parlare con lo sguardo nel vuoto, come se vedesse scenari meravigliosi.

Molti dei suoi discorsi, quei tre sempliciotti non li capivano; invece seguivano con interesse le storie di fiori, di animali che si trasformano in pietre, di stelle che diventavano fiori, e anche delle sue avventure di soldato nei combattimenti lungo il Piave. Don Giovannino, vedendo i suoi carcerieri estasiati si sentiva come un uccello, sospeso nel vuoto, viceversa quando stava solo nella caverna con i tristi pensieri, si sentiva una pietra tra le pietre.

Ormai laggiù a Santa Marina tutti lo consideravano morto o meglio scomparso tra una collana di mandorli in una nuvola azzurra. Neanche a lui veramente importava ritornare alla vita di prima, né aveva rimpianto per tutte quelle cose che nella grotta fosforescente gli mancavano. Si sentiva parte integrante del sonno della grotta: il fluire lento dei giorni e delle notti, il susseguirsi della pioggia e del vento avevano incastonato il suo corpo e la sua mente a quelle rocce, a quei massi e, anche se prigioniero, era libero in quell’antro cupo che mescolava con indifferenza arcana le cose vive con le morte. Nel silenzio di quell’altura le giornate scorrevano donandogli un senso di libertà nuova e un senso di assoluto che lo facevano addormentare dolcemente: la notte sognava che la sua terribile malattia, la vita sua era sparita e non sarebbe tornata mai più.

Una domenica mattina di qualche mese dopo, i tre, entrando nella grotta ciclopica, furono investiti da un intenso, indefinibile profumo; avanzarono lentamente verso la bianca luce del fondo: il corpo esamine di don Giovannino era ricoperto da un manto di petali bianchi. Si inginocchiarono e piansero a lungo accanto alla salma profumata. Stettero così per tutto il giorno e la notte, l’indomani scavarono accanto una fossa e là lo seppellirono.

– Era un angelo! – ripeterono i tre, per tutta la loro vita, se qualcuno a Salina ricordava, per caso, la scomparsa misteriosa di don Giovannino.

 

Giuseppina Rando

 

 

Da Nel segno, Pungitopo, Marina di Patti (Me), 2010 – Premio letterario “Città di Offida - Joyce Lussu” 2011 (Sesta edizione)


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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - R.O.C. N. 7205 I. 5510 - ISSN 1124-1276