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In libreria/ Marisa Cecchetti. “Il giardino dei poeti quantici” di Roberto Malini
05 Febbraio 2014
 

«Max Planck, il padre della teoria dei quanti, a metà del Novecento dichiarava: – …la materia in sé non esiste. Ogni materia nasce e consiste solo mediante una forza, quella che porta le particelle atomiche a vibrare e che le tiene insieme come il più minuscolo sistema solare». Così scrive Vito Mancuso nel suo ultimo libro, Il principio passione (Garzanti 2013). E in nota riporta la seconda parte della affermazione di Planck: «Dal momento, però, che in tutto il mondo fisico non esiste né una forza intelligente né una forza eterna… noi dobbiamo assumere dietro questa forza uno spirito cosciente intelligente. Questo spirito è il fondamento di tutte le cose materiali».

Se ora non è il caso di riflettere sull’evidente superamento della contrapposizione creazionismo-evoluzionismo insito in queste affermazioni, chiaro emerge che tutto, materia vivente e non, è una manifestazione della stessa energia. Ed ogni minima aggregazione contiene in sé il tutto e appartiene al tutto.

L’ultima silloge di Roberto Malini, Il giardino dei poeti quantici, con un salto che sorprende il lettore fin dal titolo, allontana l’occhio dal mondo dei perseguitati, dei sofferenti, degli emarginati, umanità che popola le precedenti raccolte, per iniziare un percorso spirituale che trova le radici nelle suddette affermazioni. Malini si allontana anche nelle scelte linguistiche: al linguaggio lirico fortemente narrativo della raccolta Dichiarazione (Il Foglio 2013): Pace, dichiararono le Nazioni/ e poi aprirono il fuoco. La pace,/ dissero, si fa con gli eserciti,/ i carri armati, i cacciabombardieri/ e le navi da guerra, subentra un verso nominale dove parole si avvicinano, spesso senza legami verbali, si accavallano, si ripetono, cariche di materia, colore e suono: Momento bianco tempo-dipendenza./ Calmi tamburi. Calmi tamburi. Gocce./ Rotea nella tana forma carne./ Forma fiamma si è leggermente aperta./ Boschi frementi./ Lenti lampi macchie./ Città di luci. Luci tamburi. Macchie città (“Oceano”).

Bagliori, lampi, fuoco, fulmini, stelle, costellazioni, cieli infiniti, scale che salgono al cielo, onde, venti astrali, silenzi aurorali, montagne: Canto il desiderio vortice dell’universo, lui scrive (“Canto”). È una volontà di immergersi nel tutto, materia dentro la materia, energia che si muove in modo ondulatorio, per identificarsi col tutto, in unum versus. Si percepisce una sensazione di smarrimento, una paura sottile: oltre il cielo sarà il tuo nome/ e volerai nelle profondità del sangue/ fino alla fine del pensiero (“Pietra preziosa”). Ma qui si va oltre, perché il naufragar lascia il posto alla meditazione con formule del rito buddhista: Oṃ Maṇi Padme Hũṃ/ oltre il cielo ogni cosa ha origine ripetute su due pagine per ben undici volte (“Pietra preziosa”). Ho scoperto che è il mantra del Buddha della compassione, protettore di chi è in imminente pericolo. Oppure si ripete lo stesso modulo cercando varie combinazioni interne: Passo fiamma fiamma/ fiamma passo fiamma fiamma/ passo passo fiamma/ passo passo fiamma/ passo fiamma passo fiamma, così per quattordici volte, fino a quando si arriva a quattro versi uguali: passo passo passo fiamma, ai quali seguono i quattordici versi iniziali, capovolti, a cominciare dall’ultimo.

Se riflettiamo sul fatto che Malini fa riferimento a Lee Smolin, citato nell’esergo, un fisico teorico statunitense che «ha dato un notevole contributo alla teoria quantistica della gravitazione, con particolare riferimento alla gravitazione quantistica a loop», sulle soluzioni stilistiche adottate, sul registro alto che predomina, dobbiamo riconoscere i nostri limiti personali di decodificazione dei contenuti.

Infatti non è facile seguire Malini in questo suo viaggio lirico verso il principio della materia Oltre il cielo/ nel tempo riflesso/ dove ogni cosa/ ha origine (“Pietra preziosa”), in questo misticismo che cerca silenzio, ma non perché oggi non ci sia bisogno di misticismo, anzi, ma perché lui dà ampio spazio ad una indagine concettuale ed intellettuale, elitaria, materia preziosa ma spesso irraggiungibile. A meno che non ci si lasci trascinare dalle emozioni evocate dalle parole, e su questo non ci sono dubbi, dalle immagini che esse proiettano (Invisibile corpo/ danza fiori rossi), o non si ripetano le formule come un mantra, per la nostra pace.

È difficile oggi trovare i parametri secondo i quali stabilire che cosa sia poesia. Quali contenuti, quale linguaggio, quale metrica. Poesia come ricerca interiore, poesia come lettura della realtà fuori di noi, poesia sperimentale, poesia rimata e non? Poesia che cerca l’artificio, la musica? Senza dubbio anche il linguaggio della poesia cambia insieme alla “liquidità” della nostra società, si trasforma come specchio dei tempi, ma a me torna in mente la rivoluzione letteraria di Marinetti, a distanza di più di un secolo, quando leggo questi versi di Malini: Budino di riso/ nell’aurea tazza/ instabili sorridenti/ cinopitechi/ oltre la compassione. Perché 94? (“Senza sforzo”). Comunque rimango colpita da queste poche parole: Le mani nella neve purpurea/ Era Natale (“Era Natale”). E rimango a chiedermi se quella di Malini non sia stata una fuga, attraverso contenuti e forma, da un mondo insostenibile e disumanizzato che chiede compassione.

 

Marisa Cecchetti



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