In tutta libertà
Matteo Moca. “Shoah”, Lanzmann e la memoria
26 Gennaio 2014
 

All’individuo il grande delitto appare, in larga misura, come una semplice mancanza verso la convenzione, non solo perché le norme che esso viola hanno di per sé qualcosa di convenzionale, di irrigidito, di non imperativo per il soggetto vivente, ma perché la loro oggettivazione come tale, anche quando, alla loro base, c’è qualcosa di sostanziale, le sottrae alla sensibilità morale, al raggio di azione della coscienza.

T. W. Adorno

 

Il 27 gennaio del 1945, i russi entrarono nel campo di sterminio di Auschwitz e lo liberarono definitivamente. Sì, definitivamente perché i tedeschi lo avevano già abbandonato, portando con loro parte degli ebrei internati per un'ultima carneficina. Da quel giorno nulla fu più lo stesso. Si è iniziato a scoprire cose che si fatica tuttora a immaginare vere e non abbiamo ancora la conoscenza assoluta della portata di questo fatto; tuttora escono nuove verità sull'argomento. 40 anni dopo, nel 1985 uscì il film Shoah (chiamarlo documentario è forse un delitto, come ha sempre spiegato anche il regista), opera di Claude Lanzmann. Il regista ha iniziato a lavorare a questo progetto nel 1973 e solo dopo 12 anni è riuscito a consegnare questo documento all'umanità. Nel 1985 anche la storia della Shoah ha subito trasformazioni inimmaginabili grazie a questo film che si erge come documento fondamentale, pietra miliare, per chiunque voglia capire davvero cosa è successo. Simone de Beauvoir scrisse all'uscita del film che, nonostante tutte le testimonianze sui campi di sterminio, prima di questo film nessuno aveva ancora avvertito cosa veramente era successo perché quella esperienza era rimasta, tutto sommato, distante e solo con Shoah era possibile vederla da vicino e ricrearsela nella propria testa.

Tornando all'apertura, dicevamo di come, da quell'aprile del 1945 tutto cambiò. Si trattò di un cambiamento profondo, radicato in un animo umano che non riuscì a darsi una qualsiasi spiegazione. Non è necessario qui snocciolare il numero delle cifre impietose, ma basta, forse, dire come l'intelligenza della razza umana sia stata messa da parte, esclusa dalla vita stessa: solo così è possibile immaginare di capire, solo lontanamente, questo fatto. L'uomo si scontra, usando la dicitura della Arendt, con la “banalità del male”, vedendola nitida nelle gesta di un gerarca come Eichmann, uno dei protagonisti che perpetuarono questa simile carneficina: la grande questione, sollevata dalla Arendt, risiede nel fatto che Eichmann non era una persona anormale. La Arendt insiste molto su questo fatto. Sarebbe stato forse meno temibile un mostro inumano, perché le azioni avrebbero rappresentato la sua essenza. Invece Eichmann si dimostrò sempre, durante il processo, una persona normale, senza nessun tipo di cedimento. Così come Franz Sucholem, ufficiale delle SS a Treblinka, intervistato da Lanzmann nel film. Il regista chiede all'ufficiale qual era il metodo con cui venivano uccisi 18.000 ebrei al giorno; Sucholem, con voce calma, senza tradire un minimo tratto di emotività spiega – come potrebbe rispondere un qualsiasi operaio ad una domanda sul suo lavoro – che 18.000 è una cifra troppo grande, in un giorno ne venivano uccisi tra i 12.000 e i 15.000.

Sarebbe lunghissimo, e probabilmente fuori luogo, tentare di approfondire ulteriormente questo discorso, che porterebbe con sé fiumi di parole e scontri ancora non placati. Basterà solo avere come punto di riferimento, il fatto che tutto questo è accaduto negli anni '40 del '900, più vicino a noi rispetto a quanto tanti vogliono ancora farci credere. E, per essere accaduto, ci dev'essere stato un coinvolgimento pesante e spaventoso nella gente, ma anche qui alziamo le braccia e ci fermiamo per non addentrarci in dispute storiche tuttora attuali. Torniamo invece al film di Lanzmann e a tutto quello che questo film ha portato con sé, non prima però di aver delineato l'importante figura del regista.

Nato a Parigi nel 1925, Lanzmann si erge come protagonista della resistenza già nel 1943. Dopo la guerra ricopre la carica di lettore all'Università di Berlino, dove conoscerà Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, di cui diventerà grande amico. Da quel momento comincia a scrivere su Les temps modernes di cui oggi è direttore. L'ingresso nel cinema avviene con Pourquoi Israel nel 1970 e, dal 1973, inizia a lavorare a Shoah. Questo 2014 vedrà l'uscita del suo ultimo lavoro, L'ultimo degli ingiusti, dedicato alla figura di Benjamin Murmelstein.

Shoah è, senza ombra di dubbio, la più grande opera cinematografica sull'argomento ma è anche una meravigliosa pellicola, un monolite di oltre 9 ore che mostra ciò che era stato fino a quel momento in parte invisibile. Eppure Lanzmann nella sua ricerca non utilizza quei grandi filmati di repertorio che si vedono di solito nei documentari, né si mette in testa di porre agli intervistati domande sull'etica o la moralità; sembra anzi interessato alle minuzie, alle cose più piccole ed è forse questo, paradossalmente, a consegnarci l'affresco più preciso: è nei particolari che risiede l'essenza delle cose.

Lanzmann ricrea questa livida realtà ricostruendola dal suo interno, visitando superstiti, contadini e ufficiali coinvolti nel massacro, entrando davvero nel cuore dell'inferno e dando delle voci e dei volti a quell'inferno. I volti degli intervistati basterebbero già per una sorta di “scenografia immaginaria”: il volto impassibile di Sucholem, i visi di quei pochi sopravvissuti che sembrano essere riusciti a riconquistare una sorta di serenità dalla natura forse non pura, e i visi di chi, quell'inferno, continua a riviverlo ancora. Le interviste risultano talvolta disturbanti per i loro contenuti e per la forza con cui a tratti sono portate avanti. Così verrebbe quasi da tapparsi le orecchie quando il regista fa recitare a un SS la marcia che cantava con i suoi compagni mentre i cadaveri degli ebrei, appena estratti dalle camere a gas, bruciavano nei crematori, oppure quando fa raccontare ad un parrucchiere ebreo come doveva radere i capelli ai corpi delle donne appena uccise.

Uno dei punti di forza maggiori di quest'opera è il fatto che Lanzmann vada ad intervistare moltissimi ebrei che avevano (e hanno anche nel momento dell'intervista) una situazione particolare in quanto erano appartenuti ai Sonderkommandos, gruppi speciali di ebrei deportati che avevano il compito di collaborare con le SS nel processo di sterminio degli altri ebrei, raccogliendo i corpi nelle camere a gas ed essendo i responsabili della cremazione degli stessi.

Questi vengono considerati da Lanzmann i veri superstiti, coloro che hanno realmente visto come funzionava il campo, coloro che “sono tornati dall'aldilà della soglia del crematorio”. In un'intervista Lanzamann dice che, paradossalmente e provocatoriamente, nessuno è mai stato ad Auschwitz perché chi c'è stato ed è morto subito non c'è in realtà mai stato, non ha conosciuto il campo. Ed anche i sopravvissuti hanno conosciuto vie alternative, un percorso fatto di tappe diverse da quelle che dovevano essere del campo nella sua progettazione tedesca. Ecco perché la grande attenzione alle squadre speciali, perché solo in loro risiede la conoscenza assoluta del campo di concentramento.

Con questa tecnica, a tratti quasi irritante per la sua testardaggine e insistenza, Lanzmann riesce a strappare dalla bocca dei sopravvissuti ciò che più desidera, aprendoci gli occhi sul buco nero della disgrazia, sulla “radicalità della morte” utilizzando le parole di Mereghetti. Un documento imprescindibile per chiunque voglia vedere da dentro il male più assoluto.

 

Matteo Moca


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