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Patrizia Garofalo. “Il dio dell’impossibile” 
Lettura di Marisa Cecchetti
03 Gennaio 2014
 

La parola poetica di Patrizia Garofalo, nella silloge Il dio dell’impossibile, nel momento stesso in cui si manifesta sulla pagina bianca appare ossimorica, per il bisogno e la ricerca stessa del silenzio che attraversa tutta la raccolta. Del resto il silenzio, dice la poetessa, “è l’urlo dei poeti”. Così abbiamo i “silenziosi custodi di amori che non passano”, e “incapaci al silenzio”, e “il silenzio dentro il quale custodisco/ le parole” che sa di sole, c’è “il silenzio del sogno”, la notte silenziosa, l’avvertire alberi resinosi nel silenzio, l’essere stordita dal silenzio...

È proprio nel silenzio e nella solitudine che possono prendere forma le immagini poetiche, acquistare la leggerezza del sogno, la bellezza di un ricordo, ma anche il dolore e la ferita: “il silenzio/ per chi lo ascolta è assordante”.

Il registro linguistico passa da aperture su cieli, stelle, mare, alberi e prati, dune, neve e chiari di luna, alla ricerca improvvisa di un realismo che mette a nudo le sofferenze più profonde di un’anima che cerca invano di camuffarlo, il dolore: “mi lavo dalla putredine che sento appena ti avvicini/ obeso/ sudato/ avido/ famelico/ insaziabile”.

La natura non è tutta luce, bensì offre nebbie, fantasmi di piante, girasoli dalla breve vita. E contiene essa stessa violenza: “strage di rose tutto il giorno/ petali ispessiti/ da sabbia e sangue”, e l’acqua può essere sporca e intorno esserci solo “rigurgiti di vita”.

A livello reale o simbolico, qualsiasi sia la natura di quel dolore esistenziale, esso prende forma attraverso la parola poetica, l’unica capace di contenerlo e rappresentarlo, in una sfida continua al dio dell’impossibile.

La parola diventa cura, anche se non è sufficiente a definire la prigionia esistenziale, anche se non tutto può fare per alleggerire “la cintura di sassi” a cui ci si sente legati e con cui si cammina. Quella parola che diventa curativa nel momento in cui può esprimere anche l’odio, il grido: “arrivano parole/ attaccate ai sentimenti/ schiumano anche odio”, assapora la propria libertà, come una farfalla che prende il volo, e si apre distesa a ferire il foglio e a spruzzarlo di sangue: “libera/ senza scorie/ donazione di sincerità/ ferirà il foglio/ e/ lo spruzzerà di sangue”.

C’è bisogno di tenerezza, quella tenerezza è rimasta legata a momenti da conservare nel ricordo o da sognare ancora, per questo si cerca: “tremano le mie mani/ ad una carezza”, e si offre: “mentre ti stringo al seno/ e/ ravvio i tuoi capelli con amore”.

Anche la solitudine ha una voce, quella del vuoto che romba intorno e non fa trovare ormeggi, eppure non c’è resa, il corpo svuotato non si arrende, “non vuole scendere alla prossima”. Perché solitudine è freddo e miseria dell’esistere: “se fossimo accanto/ saremmo più coperti/ meno ciechi/ più ricchi”.

Salvezza può essere forse impastare le mani nella terra, calarsi giù dal sogno, trovare forza nella concretezza: “Assenza di sogni/ sento l’acciottolato/ carezzare i passi/ come prato tenero…/ penetrante mi invade il desiderio di terra”.

Rimane trasversale una aspirazione grande, sovrumana, il desiderio di annullamento nella luce, per diventare creatura della terra e poi rinascere col sole, quasi una ricerca di altra immortalità: “guardo riflessa nell’acqua/ la mia immagine accecata dal primo sole/ una barca passa lenta/ senza difese mi lascio cancellare/ sarò riscritta”.

 

 

Patrizia Garofalo, Il Dio dell’Impossibile

Introduzione di William Navarrete

Postfazione di Paolo Ruffilli

Edizioni Il Foglio, 2009, pp. 131, € 12,00


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