L'universo a spicchi
In chiusura 2013 Montegranaro a Cantù 
Con parentesi per l'indimenticabile Augusto Marfella
31 Dicembre 2013
 

Una squadra che gioca al di sopra delle proprie possibilità. Con orgoglio, cuore e, anche, razionalità. La comunità di Montegranaro, la medioevale Veregra, neanche 13.500 abitanti, è molto orgogliosa della propria squadra in serie A: un'équipe che sul parquet si sbatte e suda, operaia, dignitosamente operaia, cinque giocatori + quelli che escono dalla panchina che non mollano mai. Il tutto sotto la sapiente regia di Coach Carlo Recalcati, ancora adesso a 69 anni suonati un califfo della panchina. A parte il fatto che il Carletto di anni ne dimostra almeno dieci di meno...

Montegranaro a Cantù ha perso, ma ha fatto una gran figura contro i locali che pure hanno giocato un'ottima partita. Se Montegranaro non è demograficamente una cittadina-colosso, altrettanto si può dire di Cantù, che di abitanti ne vanta ben 39.799, ma cestisticamente, com'è risaputo, ha stimmate da gigantessa. Ne è scaturito un match vivace sin dalle prime battute, che non ha tradito le aspettative dei tifosi non vacanzieri recatisi con la consueta fede e passione al Pianella.

Invero anche quando la Pallacanestro Cantù pareva poter prendere il largo – 26-15 con la tripla di un assatanato Gentile – i marchigiani non hanno mai dato l'impressione di cedere. Con una zona 2-3 ripetuta e fastidiosa, con qualche momento di zone press a tutto campo e tanta, tanta pazienza, la Recalcati's Band è infine riuscita a rientrare compiendo addirittura il sorpasso sul 59-60. Nuovo strappo dei padroni di casa fino al 71-63 e ancora, “incredibilmente”, Montegranaro riagguanta i rivali e ri-sorpassa (75-76) con un gioco da 3 punti di Josh Mayo, piccolo e tostissimo play. Un parziale di 14-2 pro Cantù seppellirà tuttavia le speranze degli ospiti. Cantù mette in cantiere la nona vittoria stagionale agguantando il primo posto in classifica, seppur in coabitazione con Brindisi, che ha regolato Siena, orfana di Daniel Hackett, nel posticipo televisivo, con gli stessi toscani, con Roma e con Sassari.

Per quel che concerne le prestazioni individuali da sottolineare nelle file dei brianzoli l'energica e dinamica prova del “maori” Marcel Jones (14 punti in 20', con 5-5 da 2), i 10 assist di Leunen, un'alta forte con una visione di gioco superiore, la devastante forza offensiva di Pietro Aradori (21 punti e 28 di valutazione), i 20 punti di Stefano Gentile, ormai una sicurezza per Coach Sacripanti e un'interessante prospettiva in chiave azzurra. Stefano non è certo uno che soffre la sindrome del figlio d'arte – e non era facile riuscire a emanciparsi dal carisma della figura paterna, tanto grande è stato il Nandokan di Caserta '91 e Milano '96 – anche se a tratti le sue movenze ricordano il celebre genitore.

Per Montegranaro note di merito per Daniele Cinciarini, 17 punti e non poca personalità, anche se pesano un po' i 5 liberi sbagliati, Josh Mayo, 21 punti e qualche lampo di classe, oltre alle accelerazioni, Luca Campani, molto reattivo al rimbalzo d'attacco (artefice di due magnifici tap-in di fila), e Jamie Skeen, solido quanto serve nel gioco spalle a canestro, in post basso.

Spicca in questo quattordicesimo turno il + 42 di valutazione di O.D. Anosike, centro di Pesaro, frutto anche dei 23 punti e 12 rimbalzi. Il newyorkese di origine nigeriana laureato in Economia e Scienze Politiche al Siena College è una delle poche ragioni per cui i tifosi della Vuelle possono ancora sorridere in una situazione di gioco e di classifica alquanto deficitaria.

Squillante, a dir poco, la vittoria di Milano su Avellino. Un 94-58 che suona come un grido di guerra al campionato. E gli italiani in Scarpette Rosse marciano benissimo: Alessandro Gentile ne ha fatti 17 + 4 rimbalzi + 3 recuperi + 2 assist e 18 di valutazione; Nicolò Melli, 16 punti arricchiti da 9 rimbalzi, 3 stoppate date, 2 recuperate e 1 assist; Daniel Hackett, subito al servizio della causa, con 4 punti, 3 rimbalzi, 3 recuperi e, soprattutto, 6 assist. Confortanti news anche per l'allenatore della Nazionale.

Si chiude il 2013. Lo ricorderemo per il settimo scudetto consecutivo dell'onnivora Siena e per i nostri tre players nella NBA (Bargnani, Balinelli e Datome).

Ma è doveroso a questo punto aprire una parentesi... Il basket si nutre, soprattutto, della passione che coinvolge e felicemente divora e trascina coloro che nelle periferie, nelle campagne, nei piccoli paesi, nelle situazioni più disparate e disperate giocano o insegnano a giocare.

Augusto Marfella era un ragazzo di Mugnano di Napoli, nato “per sbaglio” a Milano, tornato infante al paese d'origine e ri-emigrato nello sterminato hinterland della metropoli meneghina da giovane. Giocatore di livello e rilievo nelle giovanili campane – pare che avesse pure suscitato l'interesse del Marcelletti casertano –, talento scintillante e fondamentali preziosi, smesso di giocare e riapprodato a Milano aveva cominciato ad allenare. È stata, la sua, una vita spesa come allenatore, fra Rozzano, Milano, Cesano Boscone e altrove. Un istruttore che con l'insegnamento sapeva trasmettere valori ai suoi ragazzi. Non importa se avesse perduto più partite di quante ne avesse vinte, non importa questo calcolo fasullo e anche un po' farlocco, né importa se il suo nome non rimarrà negli albi d'oro. Non era un carrierista, non ha mai guadagnato cifre iperboliche, non era per questo che allenava; era “soltanto” uno che sapeva insegnare pallacanestro, educando senza ottusi e biechi autoritarismi e facendo amare il gioco ai ragazzi che seguiva con cura e rispetto. E qualcuno sarà pure stato da lui sottratto alla strada. Era un generoso Augusto, ciò che di meglio lo sport possa esprimere: anche quando stai nell'anonimato, soprattutto in quest'era dove l'immagine pare tutto. Lui era un eroe della vita quotidiana, quella lontana dai riflettori (e da stupide chiacchiere), capace di operare anche negli ambienti più ostici. E aveva sempre un sorriso di gioia. E non gridava durante partite o allenamenti come un generale ridondante di mostrine e prosopopea. I suoi giocatori, anche quelli meno dotati, erano, per lui, i più forti. Perché in essi riconosceva in primis i bisogni umani, il desiderio di essere. Valere di per sé ed essere insieme.

Ora che lui non c'è più stroncato a soli 45 anni da una lunga e dolorosa malattia, pur affrontata con stoico e indomito coraggio, credo che il suo nome debba essere scolpito a lettere d'oro nell'albo d'oro della nostra memoria. La pallacanestro è bella perché c'è gente come lui, quintessenza di amore genuino per il gioco e per i ragazzi che vi si cimentano. La vita ha un senso perché uno come Augusto vi è trascorso con il suo meraviglioso bagaglio di sentimenti, altruismo e generosità.

Ciao, Augusto, tu eri un campione, un vero campione sul parquet e in panchina, nella vita. Indimenticabile. Per sempre Gugu...

 

Alberto Figliolia


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