Manuale Tellus
Maria Lanciotti. Il Manifesto di Ventotene 
Un pezzo di storia fra le pagine di un libro usato
Il carcere di Santo Stefano
Il carcere di Santo Stefano 
18 Dicembre 2013
 

Giornata grigia e noia in agguato. E allora prendo il treno e vado a Roma. A Roma io ci sono nata, ma me ne sono allontanata come una figlia degenere. E “Mamma Roma” ogni tanto mi chiama per un abbraccio tenero e sensuale. Roma per me è legata a Pasolini. La guardo e la vedo con gli occhi di Pasolini: città “stupenda e misera”. La Roma borgatara di “Ragazzi di vita” e di “Accattone”, delle baracche di Cecafumo, di quel ciak girato a Casal Bertone, con la Magnani che cerca di trovare il passo di tango assieme a Ettore, fra scoppi di rabbia e di allegria. Umorale, la Nannarella, come questo cielo turbato di una stagione malata.

No, non a noi: tu manchi/ a loro, che pure vivono a livelli/ d’esistenza di sole, in pienezza/ e tra baracche e sterri,/ prati zeppi di canne e d’immondezza,/ sentono in questa disorientata brezza,/ con altro cuore, il tuo non esserci (…)

Qui non siamo in mezzo alle baracche, fra i palazzoni tutti uguali piantati sullo sfondo degli Acquedotti; non siamo tra i giovanottelli malandrini, i manovali calcinosi e le prostitute dal cuore tenero.

Qui non si sentono né stornelli né bestemmie né risate, solo il rumore di una città che respira affannata, nell’aria densa di veleni.

Il caffè al bar della stazione Termini sa di bruciato e di fretta, la tazzina mi arriva volando sul bancone, un sorso e via, non lascio la mancia.

Prendo l’86 che mi porta a via Po per una commissione, sbrigo rapidamente la faccenda e poi decido di tornare a piedi alla stazione Termini.

In via delle Terme di Diocleziano mi fermo alle bancarelle dei libri usati e cerco fra tanta inutile carta stampata e collezioni di film porno il gioiello da portarmi a casa. Una mia vecchia, cara abitudine, quella di rovistare fra l’usato per trovare il libro prezioso che non si trova in nessuna libreria.

Le bancarelle sembrano senza padrone. Un cartello dice: “Suonare la campanella per chiamare” e tiro il cordone. Arriva dall’altra parte della strada un giovane rasta in canotta che subito afferra i libri in alto che stavo guardando e dolcemente me li porge.

E mi trovo fra le mani “Nuovo fiore”, raccolta di scritti di Angelo Manaresi sulla guerra d’Abissinia, edito nel ’37, e “Le montagne e gli uomini” di Ilin, finito di stampare nel 1949 nell’Archetipografia di Milano per conto della Cooperativa Libro Popolare.

Mi sposto verso il Largo di Villa Peretti, le aiuole spelate gridano aiuto, soffocate dai mille veleni che corrono per le vene della città.

L’obelisco del Monumento ai Caduti tende inutilmente al cielo, legato com’è al peso di tanta storia. I leoni silenziosamente ruggiscono e tra le fauci ossidate stringono torsi di mele, lattine schiacciate, cicche e assorbenti usati.

Pace – Erba Gratis” è l’invocazione dell’ignoto imbrattatore, che al monumento affida la sua supplica.

E qui ci sono i nomi dei Caduti. 216 eroi senza medaglia. Pro Patria.

I colombi si stanno intossicando rimpinzandosi di rifiuti, il tanfo di orina prende alla gola, i city buses Tour Tricolore e Roma Cristiana fanno la spola carichi di turisti che vogliono vedere la Roma che conta, quella del Quirinale e del Vaticano, tutti con i cappelli di paglia che truppe di giovani africani vendono ad ogni fermata.

Siedo sui gradoni del Monumento, fra due uomini d’incerta nazionalità che tracannano birra e un corpo aggomitolato nel sonno che ogni tanto sussulta.

Apro il libretto di Ilin – Ilia Iacobovic Marsciak, nato in Russia nel 1895 e ancora vivente all’uscita del libro – lo sfoglio con la cautela che si usa per i libri pregiati e vissuti e comincio a leggere l’introduzione: “L’altro giorno ho trovato fra i miei vecchi libri un povero volume sgualcito, con la copertina di cartone tutta tarlata. Era una Geografia delle cinque parti del mondo. Non c’eravamo rivisti da almeno venticinque anni. L’aprii e mi misi a guardare le immagini familiari alla mia infanzia: un isolotto di corallo, una grotta a stalattiti, un ballo sul tronco di un albero gigante, il baobab, una vedova bruciata a Bernares, una lattaia italiana in groppa a un asino, una famiglia di ricchi contadini del governatorato di Kursk”. Vado avanti con la lettura, con la brama di un’assetata che vorrebbe prosciugare con una sorsata l’intera fonte.

E trovo il segreto che si nasconde fra le pagine del libro: fra un rigo e l’altro un tratto di matita leggero traccia una scrittura minutissima e fitta, quasi invisibile.

Capisco che si tratta di un ritrovamento eccezionale, e col cuore a mille m’immergo in un segmento del passato che si rivela, andando avanti a sillabare con fatica parola per parola, pagina dopo pagina, un passo della storia fra i più drammatici.

Le regole qui sono dure, e i più in vista fra noi sono guardati a vista come bestie feroci. Ci consentono solo spazi minimi e controllati, non è permesso scrivere ai familiari, solo una cartolina a settimana o anche una lettera che non deve dire niente altrimenti viene cestinata. Ci viene imposto di fare una vita “normale” in condizioni impossibili. Qui tira sempre vento, il vento si porta via ogni granello di terra e non si può seminare sugli scogli. Qui non c’è acqua dolce, e le cisterne sono in pessime condizioni: si aspetta la pioggia per bere. E nella siccità e sporcizia prosperano i più schifosi insetti, e nel vento senza tregua che spazza le vie del paese risuona l’urlo di mille dannati. Ma ciò che più rende insopportabile la vita sull’isola è il sopruso, il non rispetto della legge, l’arbitrio nell’interpretazione delle regole.

Eppure noi ce la faremo. Noi, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni e il sottoscritto, Ernesto Rossi, stiamo lavorando a un documento che passerà alla storia. È il nostro progetto per una Europa libera e unita, lo intitoleremo “Il Manifesto di Ventotene”.

Quando sarà pronto troveremo un modo per farlo uscire dall’isola, le nostre donne sanno come fare.

Presto la guerra finirà, e le nostre idee potranno circolare liberamente. Ma per ora dobbiamo far conto su messaggeri corrotti che si possono comprare con parte del nostro sussidio: sei lire al giorno, e una scodella di minestra costa cinque lire. Ma si può vivere anche con una sola patata lessa, quando lo spirito è alto.

Ada, mia fedele amante cui null’altro posso offrire che lotta e passione civile, il documento che andiamo stilando dovrà essere divulgato a Roma e a Milano, intanto occorre raccogliere adesioni. Tu sei qui, nel vento violento e profumato di quest’isola-prigione, in questa mia sete implacabile di Libertà e Giustizia, nel sogno di un Movimento Federalista Europeo che porti alla pace fra le Nazioni, ad una buona gestione della Terra, all’eguaglianza fra i popoli. E sei là, dov’è il tuo posto, pronta a fare la tua parte, costi quel che costi, per servire il tuo Paese e preparare il Futuro di ognuno.

Fidando che questa mia ti giungerà, e che tu accoglierai ogni mia parola, ti abbraccio con tutte le mie forze. Tuo Ernesto.

Giunse nelle mani di Ada lo scritto di Rossi? Eseguì Ada le indicazioni del suo uomo? Raccolse adesioni per il progetto del MFE?

Ada fu arrestata e condannata al confino di Melfi e trasferita nell’estate del ’43 a Maratea, e fu Ursula Hirschmann, moglie di Colorni, a far pervenire clandestinamente il Manifesto nel Continente.

A Ventotene, l’isola dell’esilio, c’è una lapide che ricorda le migliaia di perseguitati politici che nel ventennio fascista furono qui confinati, e anziché lasciarsi abbattere dalle condizioni impossibili di vita, qui si prepararono alla lotta “per un’Italia rinnovata nella Libertà”.

Chiudo il libro e mi avvio alla stazione ferroviaria, e sento che la fiducia si fa strada fra dubbi e sconforto, che “la crisi della civiltà moderna”, per quanto spaventosa e grave, non può essere che un passaggio obbligato per tornare a guardare avanti, ad un sogno che non muore, di Libertà e Uguaglianza.

Signo’, attenta a dove metti i piedi” mi grida un facchino, e solo per un soffio evito di calpestare una bandierina tricolore, forse lasciata cadere da qualche turista, ricoperta dagli escrementi di un cane.

 

Maria Lanciotti

 

 

Nota all'immagine (seconda in allegato). La tomba di Spinelli è vuota perché, nel rispetto della sua volontà, le sue ceneri sono state sparse in mare (quando ciò era ancora vietato). Questo almeno affermano molti abitanti dell'isola.


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