Arte e dintorni
Maria Paola Forlani: Da Donatello a Lippi. Officina Pratese
23 Settembre 2013
 

La straordinaria mostra “Da Donatello a Lippi. Officina pratese” aperta nel rinnovato Museo di Palazzo Pretorio, fino al 13 gennaio 2014, a cura di Andrea Marchi e di Cristina Gnoni Mavarelli (Catalogo Skira), mette in luce, come mai era stato fatto prima, il ruolo cruciale che Prato ha avuto nella storia del Rinascimento.

Una cosa è certa: la storia d’arte narrata da questa magnifica mostra non avrebbe avuto luogo senza una piccola striscia di stoffa verdina, 87 centimetri di lana caprina intessuta con pochi fili d’oro. È la Santa Cintola, o Sacro Cingolo, reliquia mariana somma: avrebbe cinto la veste della Vergine e sarebbe stata da lei consegnata all’apostolo Tommaso al momento dell’Assunzione al Cielo, come segno della sua particolare benevolenza. Tommaso, prima di partire per le Indie, affidò la reliquia ad un sacerdote e, passaggio dopo passaggio, essa giunse in possesso di Michele Dagomari da Prato, mercante attivo a Gerusalemme nel 1141. Tornando in patria, costui portò con sé la reliquia e per custodirla decise di dormirci sopra ogni notte. Solo nel 1173, in punto di morte, rivelò l’importanza del suo tesoro e lasciò la Cintola nelle mani del magistrato civile e del preposto. L’anno dopo la reliquia venne solennemente trasferita in Duomo e qui riposta all’interno dell’altare maggiore.

Attorno alla reliquia del Sacro Cingolo – la cintola dell’Assunta – la città di Prato aveva costruito la propria immagine. Nel Trecento per celebrarla erano stati chiamati pittori come Bernardo Daddi e Agnolo Gaddi. Nel 1428 gli operai dell’allora Pieve affidarono la realizzazione di un pulpito sulla facciata, per l’ostensione della reliquia, a Donatello e Michelozzo. L’impresa si trascinò nel tempo, ma rappresenta uno dei frutti più alti della collaborazione fra i due grandi scultori fiorentini, che a Prato misero alla prova l’invenzione della danza scatenata dei putti, emula dell’antico, riproposta quindi nella monumentale cantoria donatelliana per il Duomo di Firenze.

A Prato si conserva un’altra opera di Donatello, testimonianza altissima del suo genio emergente, poco dopo il 1410, un rilievo in terracotta con la Madonna col Bambino fra due angeli, stagliata contro un’esedra solenne. Al di là della soluzione iconografica del sedile all’antica o del comune tono malinconico ghibertiano, a tenere insieme queste tre figure è la medesima sostanza stilistica: il ritmo che dà forma ai panneggi, pervasi da un continuo frangersi e incresparsi delle pieghe, come fossero articolate da una mano mobilissima e tremante. Entrambi questi motivi – pittoricismo e teatralità – suggestionarono a fondo l’arte di Fra Filippo Lippi, il più eccentrico e il più donatelliano fra i pittori fiorentini del rinascimento.

La grande impresa in parallelo col pulpito, nel quarto decennio, è la decorazione della cappella dell’Assunta nel transetto destro della Pieve. Qui Paolo Uccello, reduce da un soggiorno a Venezia dove si era recato nel 1425, lasciò un ciclo bizzarro ed affascinante, con Storie della Vergine e di Santo Stefano, che permette di ricostruire a ritroso la sua fase giovanile. In mostra, per la prima volta, si possono vedere a confronto un po’ tutti i dipinti variamente collegati agli affreschi di Prato e quindi alla giovinezza del maestro. In queste opere la fantasia eccitata e la nostalgia per gli ori tardogotici convivono con la crescente infatuazione prospettica che segnò la sua evoluzione seguente. Ne è straordinario esempio l’Adorazione del Bambino con i santi Gerolamo, Maria Maddalena e Eustachio (Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle), in cui certi aspetti più goticamente visionari (il paesaggio lunare, la schiera degli angeli) si contendono con un estremo sperimentalismo prospettico, ben evidente nella resa della palma che si staglia contro il cielo notturno o nel mirabile scorcio dei due animali piegati. Innovatrice è l’idea di far presenziare i santi alla scena, proiettando su di essi la devozione di chi guarda: un’idea che Filippo Lippi riprese in diverse opere. Il ciclo della cappella dell’Assunta rimase incompiuta, per ragioni a noi ignote, e il completamento dopo il 1437 venne affidato ad un pittore minore, Andrea di Giusto, che gravitava nell’orbita dell’Angelico e che nel 1435 aveva dipinto il polittico per gli olivetani di san Bartolomeo della Sacca. La pala d’altare con l’Assunta,invece venne dipinta da un altro maestro angelichiano, Zanobi Strozzi: finita a Dublino, in occasione della mostra è tornata a Prato e ricongiunta con la sua predella. L’attività pratese del Lippi è preceduta da quella di un suo allievo, il Maestro della Natività di Castello, forse identificabile con Piero di Lorenzo di Pratese, che poco prima del 1450 dipinse la sua unica pala d’altare nota per San Giusto a Faltugnano, in mostra ricomposta con la sua predella, divisa tra Londra e Philadelphia. Questo delicato e sfuggente pittore si specializzò in dipinti di devozione in cui amava variare in maniera quasi capricciosa le pose del Bambino in braccio alla Madre e stemperare il plasticismo lippesco in una luce bionda e soffusa.

Per la chiesa delle monache agostiniane di Santa Margherita, dove conobbe Lucrezia Buti (che divenne sua compagna di vita e la sua modella prediletta), Fra Filippo Lippi dipinse la pala con l’Assunta e santi, immersa in una luce primaverile. Il tono come fiorito di quest’opera è dovuto anche al contributo della bottega, in cui stava emergendo la figura di un altro monaco pittore, il vallombrosano Fra Diamante, fedelissimo allievo degli anni pratesi, che lo seguì a Spoleto nel 1467 e prese cura del figlio Filippino, dopo la morte precoce di Fra Filippo nel 1469. Prima di passare nella bottega fiorentina di Sandro Botticelli, il giovanissimo Filippino collaborò magistralmente alla predella della Natività del Louvre, sempre per le monache di Santa Margherita. Per l’oratorio di san Lorenzo Fra Diamante dipinse una pala venuta da Budapest, in cui diede prova di una lucidità quasi iperrealista. Nella giovanile Pietà di Cherbourg Filippino riprese le figure dagli ampi panneggi di Fra Diamante, ma le immerse in un’atmosfera avvolgente e crepuscolare, caricandole di una dolcezza struggente, facendosi così interprete originale della vena più intima dell’arte del padre, come mostra il confronto con la Pietà del Poldi Pezzoli e col San Girolamo di Altenburg, rinserrati da aspre quinte rocciose.

 

Maria Paola Forlani


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