Diario di bordo
Finanziaria: il credo degli “uomini liberi” di Lincoln 
Forse un segno (e un segnale) bisogna darlo
03 Ottobre 2006
 
Non sapremmo dire se il presidente del Consiglio Romano Prodi sia davvero convinto di quello che dice: «La Finanziaria varata dal governo ha avuto come prima preoccupazione l'attenzione ai diritti dei deboli». Prodi sottolinea che questa è una manovra «che porta allo sviluppo della giustizia sociale, che aiuta i più deboli e non si vergogna di farlo», e respinge con forza le accuse di aver infierito sul ceto medio: «Dopo anni di difficoltà sarà il ceto medio a guadagnare», ha assicurato, spiegando come «ci saranno meno imposte per chi guadagna fino a 40 mila euro l'anno. Il 90 per dei contribuenti, quindi, avrà un calo delle imposte».
Non sapremmo neppure dire per quali ragioni il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa si sia detto molto soddisfatto: «Il parto è venuto bene anche se finora abbiamo sentito solo gli strilli che provenivano dalla sala parto. Sono come un padre. Lieto che il neonato porterà il suo nome». Dicono che “ogne scarrafone è bello a mamma soia”; però anche i sentimenti materni un limite dovrebbero averlo.
Prodi respinge le accuse di aver violato gli impegni assunti: «Stiamo mantenendo gli impegni del programma elettorale». A noi, in verità era sembrato di capire che le tasse non sarebbero aumentate, e anzi, sarebbero diminuite. Ora ci si dice che «la stangata non può essere evitata».
Ha fatto bene, ieri, Daniele Capezzone, a ricordare il “Credo degli uomini liberi” di Abraham Lincoln. È un documento del 1854, ma il suo contenuto è oggi più che mai valido. Marco Pannella anni fa, lo “recuperò” e ne ricavò un’inserzione a pagamento su Il Foglio. Forse oggi quel “credo degli uomini liberi” dovrebbe essere recapitato a chi ci governa, a chi ci amministra e a chi legifera (o ratifica) in Parlamento. Dice, quel documento: 
 
«Non si può arrivare alla prosperità,
scoraggiando l’impresa.
Non si può rafforzare il debole,
indebolendo il forte.
Non si può aiutare chi è piccolo,
abbattendo chi è grande.
Non si può aiutare il povero,
distruggendo il ricco.
Non si possono aumentare le paghe,
rovinando i datori di lavoro.
Non si può progredire serenamente
spendendo più del guadagno.
Non si può promuovere la fratellanza umana
predicando l’odio di classe.
Non si può instaurare la sicurezza sociale
adoperando denaro imprestato.
Non si può formare carattere e coraggio
togliendo iniziativa e sicurezza.
Non si può aiutare continuamente
la gente facendo in sua vece quello che potrebbe
e dovrebbe fare da sola».
 
Assieme a quel credo, a presidente del Consiglio, ministri, vice-ministri e parlamentari, andrebbero recapitati estratti dell’ultimo, prezioso libro di Francesco Giavazzi e Alberto Alesina, Good bye Europa.
Alesina e Giavazzi dicono con brutalità molte cose giuste, sarà per questo che si preferisce ignorare quello che dicono? Per esempio: «Per ricominciare a crescere occorrono regole diverse, non più denaro pubblico. Ma le regole si cambiano solo se si ha il coraggio di abbandonare il mito della concertazione: non c’è nulla da concertare con chi gode di privilegi a danno della maggioranza dei cittadini» (pag. 9).
Ancora: «La lezione più importante che gli Stati Uniti possono dare all’Europa è la convinzione che gli individui rispondono agli incentivi e che nella maggior parte dei casi i mercati funzionano, o quantomeno funzionano meglio di ogni altro meccanismo» (pag. 14). Perché non si può avere una crescita rapida, se il numero di ore lavorative continua a diminuire, a meno che la produttività non aumenti a un tasso vertiginoso. Perché ciò accada «è necessario investire in ricerca e sviluppo, poter contare su università competitive, mercati davvero concorrenziali che promuovano la rapida adozione delle nuove tecnologie» (pag. 23). Accade invece che l’Europa (e l’Italia più di tutti) sia indietro in tutti questi campi: «Invece di puntare sui suoi giovani più ricchi di talento, fa pochissimo per dissuaderli dall’emigrare negli Stati Uniti, attratti dalle università e dalle imprese tecnologiche d’avanguardia di quel Paese. Un terzo della facoltà di economia di Harvard è costituito da europei in fuga dalle loro travagliate università. Invece di cercare di attirare i giovani più brillanti dall’India, dalla Cina e dall’Europa centrale e orientale, l’Unione europea limita l’immigrazione. Intendiamoci, gli immigrati arrivano comunque, ma non i talenti che invece vanno negli Stati Uniti a creare imprese innovative» (pag. 23). L’ex ministro degli Esteri della Romania Mircea Geona ci ha avvertito. «Se l’Unione europea aspetterà altri sette o dieci anni prima di aprire i propri confini, i lavoratori che arriveranno dal mio Paese saranno i meno qualificati, contadini e individui con un capitale umano mediocre: medici, architetti e ingegneri saranno già tutti emigrati negli Stati Uniti». Osservano Alesina e Giavazzi: «Questo è esattamente ciò che è accaduto con i russi: i più qualificati si sono già trasferiti negli Stati Uniti. L’Europa non ha saputo attrarre che pochi oligarchi stabilitisi in Costa Azzurra e un pugno di allegri musicisti di strada con i loro strumenti variopinti» (pag. 59).
Alla fine della fiera, perché “goodbye Europa”? «Gli europei possono scegliere di lavorare sempre meno e andare in pensione presto. Possono scegliere di scoraggiare chi vuole lavorare, aumentando le tasse per sostenere un costoso welfare state. Possono adottare politiche che disincentivano l’innovazione e sono d’ostacolo all’aumento della produttività. Ma diventeranno sempre più poveri rispetto alle società che lavorano di più. Se tutti ne sono consapevoli… godiamoci pure le vacanze!» (pag. 77).
 
«Nel Dpef c'era l'impegno ad agire in modo strutturale sul versante della spesa pubblica (pensioni, sanità, pubblico impiego e finanza locale): e invece, capovolgendo l'impostazione approvata dal Parlamento, il Governo ha puntato sulle tasse», dice Capezzone, che propone: «È un errore da correggere, a mio avviso. Sta anche all'opposizione scegliere se limitarsi ad attaccare il Governo, o se invece operare per ottenere alcuni obiettivi nell'interesse del paese. Sono e resto convinto che, senza pasticci, sia possibile, sulle questioni economiche, ottenere segmenti di intesa limpida su obiettivi chiari. In particolare, il Governo deve evitare di dare l'impressione di avere nel mirino piccola impresa e ceto medio. So che non è così: ma occorre anche evitare di dare questa impressione».
Ma se quanto viene auspicato non accadrà? Per essere più chiari: se non vi saranno modifiche, e “l’errore” non sarà corretto? I parlamentari della Rosa nel Pugno, e i radicali in particolare, si stanno comportando in modo esemplare. Descritti, dipinti e indicati come “guastatori” inaffidabili e irresponsabili, in tutti questi mesi sono stati di una lealtà e di una prudenza esemplari. Se si scorrono i giornali di questi mesi, ci si rende facilmente conto che altri – che pure sono stati in prima fila nella denuncia del “pericolo radicale” – hanno fatto di tutto e di più: ricatti politici, minacce di votare contro il Governo, esternazioni e dichiarazioni senza pensare agli effetti e alle conseguenze che potevano produrre. Come radicali abbiamo detto che saremmo stati “gli ultimi giapponesi” di Prodi; e da “ultimi giapponesi” finora ci si è, meritoriamente, comportati. Ma forse, un segno (e un segnale) di distinzione bisogna darlo, e diventa necessario “marcare” una posizione e dei valori.
 
Gualtiero Vecellio
(da Notizie radicali, 2 ottobre 2006)

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