In tutta libertà
Valter Vecellio. Immagini di un passato ignorato, e un presente rimosso
12 Agosto 2013
   

Locarno Prima scena: Piazzale Loreto, Milano. Una notte di primavera del 1945 vengono “esibiti” i corpi di Benito Mussolini, Claretta Petacci e di altri gerarchi di quello che era il regime fascista. È il “risarcimento” per la sorte toccata in quello stesso luogo, a quindici antifascisti; è il modo per restituire anni di morte, dolore, persecuzioni e sofferenze. Ma è anche un modo per esorcizzare anni e anni di complicità e pavidità di tanti che improvvisamente si scoprono “anti”; il modo con cui un paese e un popolo che pensa forse di chiudere in questo modo i conti con quello che si fu e perché, un modo per nettarsi una coscienza che ben altri lavaggi e pulizie avrebbe richiesto.

Da questa immagine parte un film che ci riguarda da vicino, Pays barbare di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Un film che parla del nostro “ieri”, e come molto spesso accade, parlare di ieri finisce inevitabilmente anche col dirci qualcosa dell'“oggi”...

Pays barbare parte proprio da quella giornata, da quel 29 aprile e da quel mare di popolo accorso ad assistere allo spettacolo dello scempio del corpo del duce, e degli altri, presi a calci e sputi, appesi come quarti di vitello. Al punto tale che Pietro Nenni, un tempo compagno del compagno Benito e non solo originario delle stesse terre, non riuscirà a trattenere un pietoso e sconsolato: Pouvrett!, “Poveretto!”, certamente pensando ai comuni esordi, uno repubblicano, l'altro socialista massimalista, animati da identica fede, e poi due strade così radicalmente diverse.

Sono minuti di agghiacciante limpidezza, e da lì un ripiegarsi, un progressivo salto agli anni precedenti, e si dipana il racconto del ventennio mussoliniano, ma filtrato nella prospettiva coloniale; ed è così che ci troviamo inchiodati a riflettere sul passato con l'occhio puntato sul presente.

Quando si parla di documentari “epici”, automatico è il richiamo al grande fotografo e cineasta Luca Fortunato Comerio, l'operatore cantore della Grande Guerra, ma non solo. Opere come L'occupazione italiana dell'Egeo. Un raid di 12 giorni intorno all'isola, o La gloriosa battaglia delle due palme. Bengasi 12 marzo sono opere schiettamente propagandistiche e dichiaratamente fasulle, per quel che riguarda i contenuti, ma stilisticamente ineccepibili ed eccellenti per quel che riguarda la tecnica; Pays barbare non è a quel livello, si pone in un'altra ottica. È privo della potenza visiva di Comerio, e non ha neppure la bruciante violenza dei film d'archivio di guerra. Piuttosto sono frammenti di “diario” visivo, con tutte le ingenuità che si possono concedere a chi realizza un filmino per uso privato; ma si tratta egualmente – anzi, proprio per questo – di documenti importanti, perché “catturano” immagini, pose, situazioni di paesi “barbari” che si volevano “educare”, civilizzare. Così ecco uomini e mezzi ritratti in pose celebrative e “vittoriose”, donne africane denudate perché son donne, ma al tempo stesso sono oggetto di possesso senza volontà, e militari barbuti che simbolicamente insaponano loro la testa... Bisogna far attenzione alle didascalie: ricorrono termini come “barbaro”, “primitivo”, “razziatore”, “bigamia”. Tra i vari spezzoni che compongono il film una quantità di sequenze relative alla conquista dell'Etiopia, facendo uso di ogni tipo di mezzi a disposizione, giustificati con la didascalia: “Per questo paese primitivo e barbaro l'ora della civiltà è ormai scoccata!”.

A commento delle scene, la voce di Gianikian, un “racconto” spezzato dalle ballate di Giovanna Marini, a scandire tempi e temi: pensatori celebri e anonime testimonianze dell'epoca, cosi' da comporre un tessuto che accompagna la visione fino all'appello vibrante sul nero pronunciato da Angela Ricci-Lucchi.

«Ci siamo chinati», dicono Gianikian e Ricci-Lucchi, «su materiali riguardanti l'Etiopia coloniale italiana scovati in un archivio cinematografico privato. Abbiamo frugato tra i fotogrammi del colonialismo, studiandoli con una lente d'ingrandimento e trascrivendo le didascalie. I materiali dovevano essere visti tra le pareti domestiche, in silenzio. In questi brani cinematografici si possono notare, guardandoli a mano, senza un proiettore, i segni di chi aveva posseduto i film, le parti sulle quali è più volte ritornato. Una doppia lettura, la nostra, quella delle immagini e il modo in cui erano state consumate».

Le immagini di “ieri” si confondono ora con quelle di “oggi”, quelle mostrate da tutti i telegiornali: quei poveretti che si imbarcano su legni che stanno a galla con lo sputo, pagando una fortuna, e vengono a cercare chissà che cosa, in Italia e in Europa. Quei corpi chiusi in sacchi neri, e allineati nella spiaggia di Catania, affogati a pochi metri dalla riva, dalla salvezza. Non sapremo mai i nomi e cosa li ha condotti lì. Sono universali le parole del monologo di Shylock ne Il Mercante di Venezia di William Shakespeare: «...Ma un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, misure, sensi, affetti, passioni, non mangia lo stesso cibo, non viene ferito con le stesse armi, non è soggetto agli stessi disastri, non guarisce allo stesso modo, non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano? Se ci ferite non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci avvelenate, noi non moriamo?...»

È bene che questi filmati siano emersi dagli archivi, siano stati recuperati. Meglio ancora sarebbe se venissero proiettati nelle scuole: mostrano una realtà spiacevole e irritante, che fa parte comunque della nostra storia, di quello che siamo stati capaci di essere e di fare. Ignorarlo, non farne memoria e non acquisirne coscienza, significa solo consentire che quello che fu possa tornare ad essere.

 

Valter Vecellio

(da Notizie Radicali, 12 agosto 2013)


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