Habáname
Wendy Guerra. Tornare a Cuba
18 Giugno 2013
 

Ciao, sono all’aeroporto, sono arrivata ma mi stanno per pesare e forse aprire le valigie. Mi potete aspettare con calma per favore? Qui va per le lunghe e devo spegnere il cellulare.

È l’attacco inequivocabile dei rientri a Cuba. Sembrava che tutto fosse cambiato, ad alcune persone nemmeno le pesano, invece no, questo mese, entrando all’Avana, è successo a tre dei miei colleghi.

Anche se arrivi entusiasta, con la voglia di creare, pazzo per la gioia di ritrovare Cuba, vieni subito disarmato nel ‘raccontami vita, morte e miracoli’ dell’aeroporto. È la dogana, il luogo in cui gli impiegati dimenticano di essere cubani come te, con le stesse mancanze, con il bisogno di importare i beni di prima necessità che a Cuba non si trovano. Queste persone eseguono degli ordini, ma con un atteggiamento distante, vuoto; sembrano stranieri intenti a domandarci perché portiamo quel che portiamo nel paese in cui siamo cresciuti insieme carichi di necessità oggettive.

Che cosa direbbe Rousseau il Doganiere che, essendo lui stesso un artista straordinario, ebbe un posto come ispettore delle merci di frontiera a Parigi (da cui il suo soprannome douanier), e nella sua valigia fece entrare in quegli anni tanta pittura da dare una mano a completare la tavolozza a tutta la sua generazione, quella che ne poteva comprare ben poca da impiegare nei quadri che sono oggi gioielli universali.

Che cosa ho portato? Un enorme catalogo generale del Museo d’Orsay, un altro sull’impressionismo astratto, quello con la retrospettiva dell’opera di Inés Tolentino che lei mi ha regalato. La poesia completa di José Triana (con dedica dell’autore de La noche de los asesinos), un grosso dizionario francese-spagnolo. Ho portato creme, profumi e spezie, incensi, una lampada a olio per scacciare le zanzare quest’estate. Ho portato medicine per lo stomaco, per l’influenza, le allergie, i dolori, la nausea; molti medicinali per ripartire e sopportare l’estate lontano da Parigi, varietà di tè, olio d’oliva, una bottiglia di vino rosso, taccuini per gli appunti, i miei dolci preferiti e colorati de La Durée (casa fondata nel 1862); matite, penne, scarpe e vestiti, costumi da bagno, una cartuccia di inchiostro per la mia vecchia stampante, biancheria intima, indumenti pesanti, un piccolo paiolo, una caffettiera nuova, guarnizioni per il mio frigorifero, libri di diversi autori della mia generazione, quelli che qui non trovo e che si prestano all’infinito. Ho portato un cestino per il cucito, una borsa dell’acqua calda, l’apparecchio per misurare la pressione e alcuni quaderni a righe. Due disegni che ho comprato a un giovanissimo pittore di strada che disegnava ricurvo a 13 Rue du Four. Due dischi di magnifiche versioni delle Sonate di Scarlatti. Smacchiatori, lucido da scarpe neutro e alcune goccette per disinfettare l’acqua. Fortuna che non ho portato l’originale di William Navarrete, lui ha insistito e aveva ragione, ora l’avrebbero letto domandandosi perché un collega porta l’originale dell’altro. Il mio asciugacapelli, il mio shampoo. Questi sono gli oggetti che raccontano le vicissitudini della mia quotidianità, la stessa necessità collettiva di avere e offrire tutto ciò di cui c’è bisogno agli amici, oggetti che viaggiano ancorati al fondo della valigia per prolungare il confortante tempo della creatività su quest’isola che amo e difendo come poche cose nella mia vita, quest’isola che tratteggio a bordo dell’aereo, idilliaco pezzo di terra che di colpo mi viene strappato dalla confisca della frontiera. La colpa è di tutti quando non c’è niente e tu ti lasci privare di ciò che hai portato, è un problema di tutti ma, quando aprono la tua valigia, i doganieri si comportano come fossero degli svedesi sbigottiti.

«Che cosa portano gli artisti? Ma che si credono questi artisti? Chi pensano di essere per portarsi tutte queste cose? Perché non si cercano uno specialista che li capisca, che sappiano perché portano funi, parole stampate, indumenti pesanti, colori e compresse per combattere la nevrosi che crea ogni cosa, questa crisi che ti attende al tuo arrivo, qualcuno che ci capisca qualcosa di questi strumenti e di questi aggeggi per creare che nemmeno loro conoscono.»

Guardo le valige, mi fermo, di certo alcune di queste cose ci sono anche qui o a un certo punto si potranno procurare, ma la mia ossessione di non restare senza qualcosa di indispensabile mi fa portare tutto. Ho pagato un supplemento per il peso e qui lo dovrò ripagare.

«Non hai portato elettrodomestici o un DVD, un disco rigido, un cellulare da vendere?»

Non ho portato altro che quello che mi permette di rimanere qui e ora, a creare, a cercare il prossimo motivo per non andarmene da un luogo in cui faccio tutto il possibile per sentirmi bene.

Questo è il paese ideale per lavorare, qui il tempo ha altre caratteristiche, un altro peso, il clima e la luce ti stimolano a concepire idee incredibili. È importante che le cose si rimettano al loro posto.

Nella valigia di Cuba c’è tutta la mia vita. Chiudete tutto e lasciatemi passare che qui dentro viaggia la mia anima.

 

Wendy Guerra

(Habáname, 15 giugno 2013)

Traduzione di Silvia Bertoli


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