In tutta libertà
Gianfranco Cercone. “To be or not to be – Vogliamo vivere” di Ernest Lubitsch: un “vecchio” film?
13 Giugno 2013
 
   Jean-Luc Godard ha osservato una volta che, parlando di film “classici”, si usa l’espressione: un vecchio film; mentre, parlando di un quadro di Tiziano o di un romanzo di Dostojevskij, a nessuno verrebbe forse mai in mente di dire: un vecchio quadro o un vecchio romanzo. Ciò perché il film – più di qualunque altro tipo di opera d’arte, forse – ha il destino dei prodotti industriali, destinati a essere rimpiazzati da nuovi prodotti. (Sembra che però ormai anche il libro si sia incamminato su questa china).
   Comunque, i “vecchi” film sono riproposti ormai di rado anche in televisione, quasi mai sui grandi schermi dei cinema, almeno in Italia. È dunque un evento raro e felice, quello per cui una casa di distribuzione, la Teodora, ha rimesso in circolazione nei cinema la copia restaurata di una celebre commedia americana del 1942: To be or not to be (titolo italiano: Vogliamo vivere), diretta da quel maestro del cinema, e in particolare della commedia, che fu l’ebreo tedesco, espatriato in America, Ernest Lubitsch.
   Rivedendo il suo film in una delle sale dove abitualmente si proiettano film nuovi, in una copia, che, essendo restaurata, è priva dei segni dell’usura del tempo, perdendosi nell’intrigo, che per essere divertente non è per questo meno avvincente, si ha la sensazione di potersi immedesimare negli spettatori dell’epoca. Il film fu proiettato in piena Seconda guerra mondiale. L’esito del conflitto era evidentemente ancora incerto, e questa angosciosa incertezza è come riassunta nel titolo: “To be or not to be”.
   Nella commedia è profusa la bravura degli attori insieme a un dialogo brillante e a un incastro impeccabile di equivoci e di colpi di scena: un sontuoso banchetto artistico, che ha lo scopo di divertire, ma apparecchiato con un affanno che non si riesce, e forse non si vuole, camuffare.
   La storia si svolge nel 1939, al tempo dell’invasione nazista della Polonia e narra di una compagnia di attori di Varsavia, chiamati a mobilitare tutte le risorse del proprio ingegno e del proprio mestiere, per neutralizzare una spia nazista che rischia seriamente di debellare la resistenza polacca. Il corso della Storia, per i personaggi come per l’autore del film, è ancora sconosciuto, e dunque niente e nessuno può garantire loro se, in quella contesa storica, prevarranno alla fine i tedeschi o i polacchi. Certo, si ride di Hitler, dell’idiozia criminale dei suoi generali e della devozione mistica dei sottoposti: ma per esorcizzare lo spavento che suscitano.
   Tante le scene del film realizzate con maestria. Ma ce n’è forse una più incisiva di tutte.
   Nel più grande teatro di Varsavia, dove Hitler in persona assiste da un palco alla rappresentazione di un dramma, gli attori, per poter fuggire, organizzano un falso attentato contro di lui. Il falso attentatore, che per la riuscita del piano deve essere scoperto, è un attore secondario che ha sempre sognato di interpretare il ruolo di Shylock, il protagonista ebreo del Mercante di Venezia di Shakespeare. Ebbene, acciuffato dai soldati nazisti, richiesto delle sue motivazioni, può coronare il proprio sogno artistico recitando la più famosa battuta di Shylock quella per cui, come a nome di tutti gli ebrei, chiede: “Un ebreo non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano? Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo?”.
   Il contesto è in parte burlesco. Ma proprio per questo la battuta di Shakespeare spicca con più gravità. È un appello alla fraternità tra gli uomini, contro ogni oltraggio alla dignità degli individui (degli ebrei, come di ogni altro oppresso). Con la forza di un grido, anche senza averne il tono, giunge dal teatro del passato e si rivolge, attraverso lo schermo di un cinema, agli spettatori del 1942, a quelli di oggi e a quelli del futuro: perché è un messaggio che resterà eternamente attuale.
   Ma un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, misure, sensi, affetti, passioni, non mangia lo stesso cibo, non viene ferito con le stesse armi, non è soggetto agli stessi disastri, non guarisce allo stesso modo, non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano? Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci avvelenate noi non moriamo?
 
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 11 giugno 2013)

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