L'ultimo dei milanesi
Enzo Jannacci, il milanese milanista 
di Mauro Raimondi
02 Aprile 2013
 
   È stato “tutto, anzi parecchio”, Enzo Jannacci. Lo sappiamo. E visto che è inutile ripeterlo, in queste poche righe non vogliamo ripercorrere la sua carriera di cantante o la sua attività di medico: all’uopo, ci sono i quotidiani che – giustamente! – negli ultimi giorni hanno riempito le loro pagine con la biografia e i capolavori di uno dei maggiori uomini di spettacolo che Milano abbia mai partorito.
   No, quello di cui vogliamo parlare è dello Jannacci milanese, di colui che è stato e sempre sarà il simbolo di una città intera. Anzi, di un certo tipo di Milano, quella umile e un po’ imbranata ma anche sensibile, ironica e orgogliosa, come il barbone con le scarpe da tennis che quando capisce di non essere gradito impone allo spocchioso guidatore di farlo scendere. La Milano proletaria di Rogoredo, dove Jannacci era cresciuto, ma che poteva e potrebbe benissimo essere anche quella di Niguarda o della Bovisa. La città degli anni ’60, che il boom lo viveva chiusa in fabbrica o sulle impalcature (e d’estate all’Idroscalo), mentre altri, esattamente come ora, si arricchivano sul suo sudore. Quella dei milanesi non-bauscia, che nonostante le apparenze erano e rimangono la maggioranza.
   Diciamolo chiaramente, al di là dell’ironia e della poesia con cui sono spesso condite, del divertimento o il “magone” con cui le ascolti, le canzoni di Jannacci sono assolutamente “politiche” nel decidere di affrontare alcuni temi o di descrivere con sincera empatia certi personaggi. Vedono infatti come protagonisti chi trascorre ore intere sul tram (o ad aspettarlo) e poi la domenica scappa allo stadio (sbagliandolo) o in balera, dove per un basin mi su no ma quella sera avria daa la vita intera. Ai molti “vengo anch’io no tu no”, a quelli che sono soli, alle Veroniche e alle Vincenzine, ai Giovanni telegrafista, ai Soldato Nencini, a tutti quelli che “hanno cominciato a lavorare da piccoli, non hanno ancora finito adesso. E non sanno che cazzo stanno facendo”: chi, almeno una volta nella vita, non si è sentito così? E siamo poi così sicuri che in città non ne esistano più, di persone simili?
   Anche per questa ragione, naturalmente, Jannacci ha cantato molto in quel dialetto milanese in mezzo al quale lui era nato e cresciuto, con cui si identificava. E la sua grandezza è stata anche quella di rimanere sempre e coerentemente schierato con questa metà del cielo meneghino, anche quando si è guadagnato la celebrità o è diventato uno stimato professore. Fedele fino alla fine, proponendo sui nuovi dischi, pur nel vergognoso revisionismo storico degli ultimi decenni, canzoni sui partigiani come “Cesare” o “Sei minuti all’alba”. Prendendosela negli anni con gli spacciatori di droga e, nella memorabile “Sun sciupaa”, con la “Milano da bere” e i suoi “fighetti” che si mettevano le Timberland e si pulivano la coscienza dalla propria ricchezza consigliando al barbone di turno di “non bersi” i quattro soldi che gli davano. Smascherando l’ipocrisia di tutti quelli che “se me lo dicevi prima” davanti alla disperazione di chi non ha un lavoro.
   In questo suo essere “popolare”, Jannacci è stato anche, profondamente, milanista. Almeno fino a quando tenere per il Milan ha significato qualcosa di socialmente identificabile. Perché essere tifoso rossonero, quando lui lo è diventato negli anni ’50, voleva dire trovarsi dalla parte di quei poveretti che non vincevano un campionato dal lontanissimo 1907. Dei “cacciavit”, come erano stati battezzati i milanisti per i loro umili lavori ma anche per l’incapacità a fare qualcosa di buono nella vita e nel calcio.
   Non è un caso che anche due dei più cari amici di Jannacci di quei tempi (oltre a tutti i comici che affollavano il mitico Derby), Beppe Viola e Renato Pozzetto, avessero scelto il Milan: allora era la seconda squadra di Milano, quella per cui tifavano gli operai della Breda e della Pirelli oppure – per l’appunto – gli scapestrati come loro, molto differenti dagli impiegati e dagli “sciuri” neroazzurri della Milano bene. Anche perché il Milan, da sempre, era simbolo di un gioco magari non sempre vincente ma spettacolare, alla Gre-No-Li, contrapposto al catenaccio dell’Inter di Foni; del bonario e ironico Nereo Rocco, antitetico all’algido e categorico Helenio Herrera.
   Pur generalizzando, per tutti gli anni ’60 e ‘70 il derby è stato il simbolo della divisione sociale presente in città, anche perché parteggiare per una o l’altra squadra lo si ereditava di padre in figlio. “Zero a zero anche ieri ‘sto Milan qui, ‘sto Rivera che ormai non mi segna più, che tristezza, il padrone non c’ha neanche ‘sti problemi qui”, canta Vincenzina. E in effetti fino ai primi anni ’80, cioè a quando sono esistite le fabbriche, essere milanisti (o interisti) voleva dire appartenere a una precisa classe sociale. Non solo, significava pure possedere delle caratteristiche psicologiche ben precise, come dimostrò l’appassionata, generosa presenza a San Siro dei tifosi del Milan durante il campionato di serie B del 1982-83, addirittura superiore a quella dei “cugini” – sempre pronti a fischiare la loro Inter – nella massima serie.
   Quella è stata l’ultima testimonianza della atavica diversità tra le tifoserie delle due squadre meneghine. Da quel momento, progressivamente, tutto si è uniformato, e quel football che Jannacci e molti di noi hanno amato ha smarrito buona parte della sua poesia, soffocata da un calcio sempre più fisico ma soprattutto da interessi economici e politici.
   Così, adesso, più che il milanismo quello che resta di Jannacci è la sua milanesità, ben rappresentata inoltre dal carattere aperto dell’artista, dalla sua bonomia. Come ha ben compreso l’Inter, che prima della sfida con la Juventus ha commosso San Siro inondandolo delle note di “El purtava i scarp del tennis”. Un gesto bello e dovuto, per un milanese che ha saputo raccontare con originalità e poesia una città che, pur tra molti cambiamenti, ha mantenuto gli stessi problemi di emarginazione e povertà di qualche decennio fa. Ma che, adesso, non ha più nessuno che li sappia cantare.

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