In tutta libertà
Gianfranco Cercone. “The sessions – Gli incontri” di Brian Lewin: un racconto crudele
05 Marzo 2013
 
   Fu un illustre e formidabile critico cinematografico francese, André Bazin, a coniare l’espressione: “il cinema della crudeltà” (riprendendo il titolo di Artaud: “Il teatro della crudeltà”). La crudeltà al cinema può esprimersi non soltanto mostrando scene di violenza o altri orrori.
   Può essere crudele, o apparentemente crudele, uno sguardo che fissi implacabilmente, con l’obiettività di un puro testimone, certe verità dolorose dalle quali si preferisce di solito distogliere lo sguardo. Anche in questo senso è allora forse crudele il film The sessions – Gli incontri di Brian Lewin. Non soltanto affronta il tema della malattia e delle disabilità che essa può provocare; ma anche, e soprattutto, quello della vita sessuale di un disabile.
   La figura del protagonista è ispirata a un giornalista americano davvero esistito: malato di poliomelite, paralizzato per gran parte del corpo, costretto a vivere tante ore della giornata dentro un respiratore artificiale. E’ sua la voce che racconta e commenta tutto il film, a volte a colloquio con un sacerdote “illuminato”. Una voce carezzevole, umile, incline a un umorismo gentile; nella quale affiora una vena di masochismo, perché i desideri sessuali dell’uomo sono tutti fissati sulle donne che si prendono cura di lui, ma che anche lo redarguiscono con severità.
   All’età di 38 anni, per perdere la verginità, ricorre a una specialista. Non si tratta di una comune prostituta, ma nemmeno soltanto di una sessuologa: ha lavorato in un ospedale proprio con il compito di far fare l’amore ai disabili. I suoi connotati fondamentali sono tipicamente americani: è competente, pragmatica, piena di ottimismo e di buona volontà, tanto da non scoraggiarsi di fronte a un compito impervio: il suo paziente è torturato nel corpo come nella psiche e ai dolori lancinanti che gli provoca il minimo gesto falso, si unisce un rifiuto della penetrazione di origine nevrotica.
   Il film è la cronaca di tale terapia; che va a buon fine, perché dopo una graduale rivitalizzazione del suo corpo, il paziente riesce ad avere un rapporto sessuale completo. E tuttavia la crudeltà si dirama nel film per altre vie.
   Non soltanto questo successo terapeutico avviene a prezzo, appunto, di terribili dolori fisici e vincendo una testarda resistenza psicologica. (È una sofferenza che, lo spettatore è indotto a pensare, valeva la pena di essere attraversata). Ma il paziente si innamora della sua terapista. Vorrebbe illudersi di aver vissuto una normale storia d’amore. Vorrebbe dare piacere a chi gli ha fatto provare piacere. E, in parte, ciò avviene. Ma la regola della terapia prevede che dopo un limitato numero di incontri paziente e terapista non dovranno rivedersi mai più.
   Così il gusto della felicità appena intravista, si spegne subito nel dolore della separazione. E’ anche vero che l’uomo è stato messo in grado di vivere un’altra relazione, che durerà in effetti per il limitato numero di anni che la malattia gli consentirà di vivere ancora. Ma questa apertura “positiva”, contrasta con un tema universale suggerito dal film: siamo tutti soggetti a una natura a volte “matrigna”, crudele, che ci costringe a provare desideri quando lei stessa non ci mette in condizioni di soddisfarli pienamente.
   Ho detto che le immagini del film sono come viste da uno strenuo testimone. Ma in questa apparente obiettività è trattenuto un turbamento profondo, che non può non raggiungere e scuotere lo spettatore.
 
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 5 marzo 2013)

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