L'ultimo dei milanesi
17/01/1630: In onore di Fabio Varese, poeta maledetto (in) milanese 
di Mauro Raimondi
17 Gennaio 2013
 

Morì il 17 gennaio 1630, di febbre causata dalla peste.

E così oggi, nel giorno dell’anniversario, siamo qui a ricordarlo: Fabio Varese, il primo “poeta maledetto” della letteratura milanese.

Nato presumibilmente nella città che gli aveva dato il cognome (lui stesso scrisse in un sonetto mi pover Zinibrus nassù in Vares, “io povero cervello-bruciato nato a Varese”) tra il 1570 e il 1575, forse da una famiglia benestante, una volta trasferitosi a Milano visse nella zona di Santo Stefano. Cantore nella cappella di San Gottardo, (con una sorella, Giulia, monaca a San Maurizio), appena ventenne pubblicò delle Canzonette a tre in italiano che potrebbero testimoniare la sua relazione con l’ambiente colto del tempo. Con cui, però, sicuramente si scontrò, vista la successiva scelta controcorrente di utilizzare il milanese, che può essere letta proprio come un’insofferenza contro il classicismo imperante.

La sua opera consta di una trentina di sonetti, dallo stile impeccabile, che contengono tutte le caratteristiche migliori della futura produzione dialettale, il che fa di Varese un vero capostipite: toni originali (a volte, pure volgari) e a volte commoventi, ritratti memorabili di persone e squarci cittadini, una forte vis satirica contro il potere e i nemici. Di conseguenza, oltre ad attirare l’attenzione del Tanzi, il suo stile e le sue atmosfere risultarono fondamentali per due immortali del pantheon poetico meneghino: Carlo Maria Maggi e Carlo Porta.

Del resto, come scrisse Varese in un sonetto autobiografico, in città non c’era nessuno che sapeva utilizzare la lingua milanese altrettanto bene (così da far sembrare il toscano poca cosa). Peccato, però, che da cotanta sapienza il nostro, almeno secondo le sue parole, non riuscì a ottenere molto, almeno dal punto di vista economico: “Non guadagno un canchero di quattrino, sebbene sappia leggere in volgare e scrivere in latino, cantare, sonare e fare altri cento mestieri”.

Di conseguenza, anche la casa di Varese doveva essere un vero disastro, come scrisse in uno dei suoi sonetti più celebri, “No m’domandé de grazia donde stò”, in cui il poeta ci ha mostrato una splendida istantanea della Milano popolare del tempo raccontando del rumore che doveva patire a causa della vicinanza agli scannatoi dove mucche e vitelli transitavano con grande baccano fin dalle prime ore del mattino, delle grida dei barcaioli e delle donne che lavavano i panni (anzi gli stracci) nel vicino laghetto, oltre all’andirivieni dei carri e dal rumore dei falegnami (resegott) impegnati a lavorare, probabilmente, per la vicina fabbrica del Duomo.

Ma pure l’interno del caseggiato non era molto meglio. L’appartamento si trovava all’ultimo piano (sott i copp), e per raggiungerlo si dovevano fare cento gradini, dribblando la cacca che i bambini dei vicini lasciavano dappertutto. Le due camere, poi, erano esposte alla tramontana, quindi a nord, perciò freddissime. E se si voleva guardare fuori dalla finestra, il più delle volte si vedevano vuotare i pitali (che una volta si gettavano direttamente sulla strada). Insomma: maledett sia ‘l patron, la cà co’ l tegg

In verità, il tema del lamento era tipico della poetica giocosa del tempo, e quindi non si può appurare se Varese fosse povero: al contrario, il fatto stesso che sapesse leggere e scrivere dimostrerebbe una sua agiatezza. Così come non sapremo mai se finì davvero in galera e sotto tortura, come si legge in altro suo sonetto (“Al è on quai trenta dì che so’ in preson”), per colpa di un certo medico (o Medici) che l’aveva accusato di parteggiare per i francesi.

Forse il vero problema, per Varese, era che non sopportava i “colleghi” del tempo, come dimostra un’invettiva che dedicò agli arrivisti (coion che van in vulta sgongi per Milan), “facce di cazzo che non sono capaci neanche di pulirmi le scarpe”. Un tono che non sarà certo sfuggito a Carlo Porta, altro maestro del genere, e che Varese dedicò anche a una meretrice che lo aveva abbandonato: l’inizio -«Va ‘ mò porca su i forch»- e la fine -«la forca che t’impicca, bolgirona»- sono dei veri capolavori del genere, così come la risposta che Varese mette in bocca della donna, che termina on un illuminante becch fottù.

Il sesso, le prostitute (“Sopra le puttane”) sono altri temi amati dal Varese, “maledetto” anche per questo. Ma ciò non impedì a Francesco Cherubini, quando raccolse gli autori per la sua storica antologia milanese, di inserirlo. Anche perché, nel Settecento, Varese si era già meritato gli elogi del Quadrio e dell’Argelati, che l’aveva messo nella sua Bibliotheca scriptorum mediolanensium.

Se qualcuno avesse voglia di leggere Fabio Varese, si consiglia di andarlo a cercare nei testi di Franco Brevini (La poesia in dialetto), Guido Bèzzola (Florilegio di poesie milanesi dal Seicento a oggi, Viennepierre, 1986), e soprattutto Claudio Beretta, nel suo impagabile Letteratura dialettale milanese (Hoepli, 2003).

Il divertimento è assicurato. Così come il piacere di imbattersi in un milanese arcaico quasi incomprensibile, ma schioppettante. Saludi

 

Mauro Raimondi


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