Ritratti
Alberto Figliolia. “Il Paṛn” di Gabriele Moroni 
Nereo Rocco nelle testimonianze di calciatori amici e avversari: il ritratto di un leggendario allenatore
04 Novembre 2012
 

Povero Diavolo, che pena mi fa... cantava Riccardo Cocciante qualche decade fa, parole che si attaglierebbero al Milan attuale (nonostante alcuni ultimi confortanti segnali di ripresa).

Se gravi motivi di insoddisfazione permangono e attanagliano oggi i tifosi rossoneri, gli stessi potrebbero risollevarsi il morale leggendo il bel libro di Gabriele Moroni dedicato a Nereo Rocco (cognome d'origine Roch -o Rock-, in quanto il nonno era un viennese trasferitosi a Trieste e sotto il regno degli Asburgo era nato il nostro) nel centenario della sua nascita: Il Paròn.

Il Paròn, triestino nell'anima, è stato il più grande allenatore del Milan, conducendolo a... due scudetti (1962 e 1968); due Coppe dei Campioni (1963 e 1969), la prima di un'italiana nel 1963 in quel di Wembley, battendo il Benfica di Eusebio 2-1 con una doppietta di José Altafini dopo essere stato in svantaggio, e la seconda regolando 4-1 l'Ajax Amsterdam, in cui già giocava Johann Cruijff (tre i gol di Pierino La Peste Prati e una memorabile regia del Golden Boy Gianni Rivera); due Coppe delle Coppe (1968 e 1973); una Intercontinentale contro l'Estudiantes (1969), con una seconda infernale partita in Argentina (l'andata a San Siro era finita 3-0), intimidatoria e violenta da parte dell'ambiente e di alcuni calciatori sud-americani; tre edizioni della Coppa Italia (1972, 1973 e 1977).

Il Paròn era stato un discreto calciatore negli anni Trenta (Triestina, esordio in serie A il 6 ottobre 1929 per, sino al 1936-37, 232 presenze e 66 reti, quindi Napoli e Padova). Aveva anche giocato una partita in Nazionale – 25 marzo 1934, Italia-Grecia 4-0 ed era stato in predicato d'esser anche fra i convocati ai vittoriosi Mondiali disputati nel nostro Paese. Tuttavia la sua fama e la sua gloria sono state soprattutto consacrate dall'attività di allenatore: un secondo posto con la Triestina nel 1947-48 alle spalle del Grande Torino e un terzo con il Padova nella stagione 1957-58: due miracoli, frutto di una superiore saggezza tecnico-tattica, abilità a gestire giocatori e caratteri e vagonate di umanità, sentimento e raziocinio.

Infiniti sono gli aneddoti che riguardano quest'uomo burbero e d'apparenza scorbutica ma, invero, d'animo gentile, sensibile, pittoresco e intelligente. Come quella volta che in un dialogo se ne venne fuori con il celeberrimo, dopo l'augurio fattogli Vinca il migliore, Ciò, speremo de no! Del resto, è da capire, fra Padova e Juventus la favorita o la migliore era la Juve, anche se poi la stessa ci poteva ben rimettere la ghirba contro gli scatenati provinciali. O anche quando alla stazione di Parigi a chi gli veniva incontro proferendo... Nereo Rocco, mon ami! Egli rispose ironicamente... Mona a mì? Mona te sarà tì! Impagabile.

Nelle pagine del bel libro di Gabriele Moroni, inviato speciale de Il Giorno e autore di svariati volumi d'inchiesta tout court o di approfondimento sportivo (fra i quali ultimi uno dedicato a Fausto Coppi), la figura del Paròn rivive e scorre nelle testimonianze di calciatori, amici e avversari.

Da Cesare Maldini – «Mi trattava come un figlio e io vedevo in lui un secondo padre. Rocco mi ha conosciuto che ancora indossavo il bermuda e mi ha portato con sé sul tetto del mondo» – al maratoneta Giovanni Lodetti; da Angelo Anguilla Anquilletti – «Mi chiamava Pichi. In milanese “Mi al pichi” significa “Lo picchio io”. Quando mi affidava un attaccante o un'ala forte, ero solito rispondere: “Signor Rocco, ci penso io: male che vada al pichi”. Da lì deriva l'appellativo. Dicevo così, ma, alla fine, non ho mai picchiato nessuno, anzi in più occasioni le ho prese» – a Fabio Il Longo Cudicini, il portiere di quel Milan d'oro, arrivato nella fase di presunta fine carriera e pervenuto invece all'empireo – «Rocco e il suo staff mi misero sotto pressione. Non avevo un fisico che potesse reggere ritmi così alti. Non pesavo neanche 80 chili per 1,90 di altezza, ero molto esile, un grissino. Il paròn mi costringeva a fatiche enormi» (ma i risultati vennero...) –; da Karl-heinz Schnellinger, soprannominato Volkswagen, l'autore dell'1-1 in Italia-Germania 4-3 dell'Azteca '70 (senza di lui l'epopea del calcio sarebbe più povera) – «Rocco non era solo un tecnico ma anche uno psicologo profondo. Studiava, capiva, intuiva i modi di essere dei calciatori e le loro esigenze. […] scherzava, lo faceva costantemente e in maniera contagiosa. Cercava di creare quel fluido, quel meccanismo ben oliato all'interno del suo gruppo. Uno dei momenti preferiti dal paròn erano i pranzi. Rocco prediligeva le grandi tavolate con tutti i suoi ragazzi» – a Gianni Rivera, il suo indiscusso pupillo.

«Rocco era un furbacchione, intelligente, buono» racconta Gianni De Felice, storica firma del giornalismo sportivo. «Era nato suddito austriaco sotto Cecco Beppe e lo ricordava spesso parlando di parole date e impegni presi. Da militare, per non fare le marce s'inventò suonatore di clarino per entrare nella banda. Gli altri lo sgamarono e si misero d'accordo per smettere tutti di suonare all'improvviso. Così si vide Rocco che nel silenzio più assoluto soffiava nello strumento che non emetteva nessun suono».

E ancora nel volume parlano e ricordano Pierino Prati, Romeo Benetti, possente mediano, muscoli d'acciaio e animo buono, un tiro squassante, o il caro nemico Sandro Mazzola... «Ci incrociavamo in giro per Milano. La sede del settore giovanile dell'Inter era in via Olmetto, vicino all'Assassino (ristorante prediletto dal Paròn, nda), e io spesso, anche se ero già in prima squadra, andavo in zona per incontrare i miei vecchi dirigenti. Ogni volta che mi vedeva, Rocco si fermava a parlare. Era simpaticissimo e mi faceva impazzire con le sue battute. Era lampante la differenza tra lui ed Herrera. A tratti, veniva quasi d'istinto stare dalla sua parte. Aveva un ascendente particolare su tutti quelli che lo incontravano».

Gabriele Moroni non dimentica di raccontare in un capitolo la grande amicizia e stima che aveva legato Nereo Rocco e Gianni Brera. Così distanti in apparenza, in realtà entrambi erano figli del popolo. Li accomunava, inoltre, l'amore per il pallone e per i piaceri enogastronimici e della buona tavola.

Un libro, in definitiva, godibile e completo, immancabile nella bilioteca di ogni milanista che si rispetti, senza che guasti la sua presenza anche negli scaffali di ogni appassionato di calcio e di storia dello sport.

Capitolo tredicesimo, il giornalista-scrittore e antico tifoso Moroni scrive una lettera a Nereo: «I miei inizi nel lavoro più bello, faticoso, insostituibile del mondo: il giornalista. Lui era comparso in un ospedale, portava una carrozzina a un bambino che meritava un po' di felicità. Ruvidamente generoso, come tutti coloro che lo sono di cuore e non per posa, non gradì che il suo gesto fosse conosciuto. Attesi con il viso paonazzo e il cuore che batteva a mille che il suo ringhio si tramutasse in sorriso, che una mano enorme mi si abbattesse sulla spalla, che un “ciao, mona” concludesse quel fuggevole, indimenticabile incontro».

Per quanto riguarda chi verga queste righe, rimpiango, da seguace neroazzurro, la verve, la bonomia e il sapere calcistico del Paròn, la sua umanità, la sua ironia, forse irrimediabilmente perdute nel football, così carico di acido, astio e veleni, della contemporaneità.

Auguri per i tuoi cent'anni, Paròn!

 

Alberto Figliolia

(per 'l Gazetin, novembre 2011)


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