Lo scaffale di Tellus
Gianfranco Cordì. Charles Darwin, lo spietato
28 Settembre 2012
 

Niccolò Copernico pubblicò, a Norimberga, il suo trattato De rivoluzionibus orbium coelestium il 24 maggio del 1543. Per una di quelle strane coincidenze di cui è costellata la vita degli uomini: quello fu anche il giorno della sua morte. Esattamente 316 anni dopo della data di pubblicazione dell’opera dell’astronomo polacco, il naturalista inglese Charles Robert Darwin (il 25 novembre del 1859 a Londra) diede alle stampe la sua «sola lunga argomentazione» cui diede il titolo L’origine della specie (a cura di Giuliano Pancaldi, BUR, 2009). Il titolo completo della piccola opera in questione, giova ricordarlo, è «Sull’origine delle specie per mezzo della selezione naturale o la preservazione delle razze favorite nella lotta per la vita». Tre secoli e qualche manciata di anni in più separano dunque le due grandi rivoluzioni che, nell’età moderna, hanno caratterizzato più di tutte le altre la storia della cultura del Pianeta e, in qual che misura, l’esistenza stessa delle speculazioni degli uomini. Tre secoli per passare dal punto di vista fisso al Cielo al punto di vista ben piantato sulla Terra. Se Copernico avvisava tutti quanti che il posto in cui ognuno abita e risiede non è che uno dei tanti posti orbitanti intorno al Sole e sparsi nel totale del cosmo, Darwin metteva in evidenza che la vita stessa - sul pianeta denominato Terra - è soggetta a un micidiale «processo cieco, privo di capacità di previsione, non teleologico, in definitiva meccanico» (Daniel Clement Dennett, L’idea pericolosa di Darwin. L’evoluzione e i significati della vita, traduzione di Simonetta Frediani, Bollati Boringhieri, 1995), senza uno scopo e senza una mente, senza un progetto e senza una vera e propria responsabilità. In definitiva: il nostro Pianeta non è che uno fra i tanti dell’universo e la stessa vita delle «specie» che lo popolano non è che il risultato di un meccanismo che avviene comunque nel tempo. Se la rivoluzione copernicana può essere considerata quella dello spazio, la grande ondata di ribellione verso la tradizione e il sapere codificato e trasmesso (senza poter apportare una sola modifica rispetto al dettato dei testi ritenuti dotati di somma autorità), realizzata da Darwin, riguarda - appunto - la sfera storica della temporalità, del divenire, del continuo trascorrere delle cose. 300 anni ci sono, dunque, voluti per rivoluzionare tempo e spazio. 300 anni alla fine dei quali la Terra da statica, fissa, perenne, al centro del creato, bloccata in uno spazio di assoluta importanza, diventa qualcosa di diverso. E le «specie» (che popolano tutto quanto il mondo) diventano anch’esse qualcosa di diverso. Non sono, infatti, più fisse, immutabili ed eterne come voleva la tradizione, create una volta per tutte dalla mano di Dio: ma scivolano verso la precarietà, la consistenza soltanto dettata dalle circostanze, il periodo, l’epoca e l’età della loro stessa formazione. Insomma: Copernico ha dato un duro colpo allo spazio, Darwin al tempo.

La totalità della realtà, da quel 1859 in poi, non poteva più essere eguale; per lo meno al livello di storia delle idee. Le coordinate attraverso le quali interpretare gli avvenimenti e le caratteristiche rilevanti del mondo non erano più le stesse. Lo spazio che, adesso, si aveva a disposizione era uno spazio più ristretto. Il tempo - sempre rimanendo nell’ambito dei movimenti culturali e intellettuali che si sarebbero da lì in poi occupati di queste cose - era un tempo serotino, progressivo, che procedeva a «passi molto corti e lenti», «graduale». Non siamo più, perciò nello sconfinato e nell’immenso regno delle certezze teologiche o metafisiche, siamo piuttosto adesso (dal 1859 in poi: con le due nuove acquisizioni sullo spazio copernicano e il tempo darwiniano) nel regno del possibile e del concretamente realizzabile su questa Terra. Il punto di partenza dell’opera di Darwin non è una delucidazione sull’«origine», appunto, della «specie» (nel senso di primigenia fioritura) e neppure sul «significato essenziale» contenuto nella nozione di «specie» (significato che avrebbe potuto, alla fin fine, portare l’autore verso la prefigurazione di un qualche «progetto» recondito della Natura). No. Darwin parte invece - in qualche misura - dando per assodato un qualche (elastico) concetto di «specie». Come tutti sappiamo la «specie» è un tipo biologico molto ben definito da alcune spiccate caratteristiche ereditarie. Ovviamente esso è sempre subordinato ad un altro tipo ancora più esteso che è il «genere». Ed esistono anche le «varietà». A più riprese Darwin insiste sul fatto che «una varietà ben marcata possa essere considerata giustamente come una specie incipiente». Quando una «varietà» ha raggiunto dei tratti che la contraddistinguono e la segnano in maniera definita siamo già in presenza dell’aurorale sboccio di una nuova «specie». Darwin inoltre continua: «perciò io considero le differenze individuali, che sono di scarso interesse per il sistematico, importantissime per noi, in quanto sono il primo passo verso quelle piccole varietà che vengono a malapena ritenute degne di essere registrate nelle opere di storia naturale». Siamo arrivati al punto in cui deve esistere una qualche «differenza». Chiamiamo quest’ultima col nome di «variazione», diversità, cambiamento, eterogeneità. Giova sempre ricordare che il nostro considera «il termine specie come riferito arbitrariamente e per comodità a un insieme di individui molto simili l’uno all’altro, e che esso non differisce sostanzialmente dal termine varietà, dato a forme meno differenziate e più fluttuanti». Ma fino a questo momento sembrerebbe che ci si sia fermati a una considerazione orizzontale della Natura. Siamo dalle parti della tassonomia, della classificazione, ma ancora non è successo niente di rilevante. Darwin, invece, fin da subito getta le sue «specie», «varietà» e «variazioni» nel palcoscenico della vita. Che succede, dunque adesso?

La «sola lunga argomentazione» è stesa, come afferma Giuliano Pancaldi nel corso della sua «Prefazione»: «per convincere e per sedurre sia gli esperti, sia l’eterogenea popolazione di naturalisti, persone colte, filosofi, allevatori, agricoltori e giardinieri con cui l’autore aveva interagito nei vent’anni precedenti». Dunque non siamo in presenza di uno specifico trattato di biologia ma piuttosto – continua ancora Pancaldi – di «una sorta di dialogo a più voci in cui l’autore, sostenuto dal “coro” dei naturalisti di varie specialità invocati a ogni pagina, costringe nell’angolo l’avversario». E non cadranno, lungo questo attacco sferrato con violenza inaudita, soltanto i sostenitori della eternità delle «specie» ma anche gli evoluzionisti come Lamarck che avevano «immaginato di cogliere una “marcia” progressiva della natura» (ancora Pancaldi). Sul palcoscenico della vita per prima cosa ci sono i «fatti». Il «fatto» più rilevante, dal punto di vista di Darwin, è che le risorse che si trovano ad avere di fronte le «specie» sono in numero limitato. Sono, comunque, una certa percentuale finita e non sono disponibili indefinitamente. Cibo, spazio, qualsiasi cosa sia necessaria per la sopravvivenza e la riproduzione: sono tutte cose disponibili in misura circoscritta. Ed inoltre - idea che Darwin prende dal demografo inglese Thomas Robert Malthus - esiste una «elevata potenzialità che gli organismi hanno di crescere in progressione geometrica». Lo stato normale delle cose, per qualsiasi forma di organismi che si riproducano, è tale per cui in ogni singola generazione si producono più discendenti di quanti a loro volta si riprodurranno alla generazione successiva. Ci accorgiamo insomma che siamo in presenza di una situazione esplosiva: risorse limitate e continua crescita degli organismi. È inevitabile la lotta. Si genera così, continua Darwin, tra le «specie» una terrificante «lotta per la vita». Darwin a questo punto innesta: un «fatto» incontrovertibile e una «spiegazione» implacabile, impietosa e inclemente di questo «fatto».

La prima tesi di Darwin è storica. «Sono fermamente convinto che le specie non sono immutabili, ma che le specie che appartengono a quelli che chiamiamo gli stessi generi discendono in linea diretta da qualche altra specie, per lo più estinta, nello stesso modo in cui le varietà riconosciute di una certa specie discendono da quella specie». Ovvero: «tutte le specie dello stesso genere sono discese dallo stesso progenitore comune, così come da un unico progenitore discendono i due sessi di una qualsiasi specie». In tale «progenitore», afferma ancora Darwin: era stata «infusa originariamente la vita». Da quel momento in poi le «specie» si sono «evolute». Non sono mai state le stesse per lunghi periodi di tempo. Non hanno posseduto mai gli stessi caratteri e le stesse prerogative all’interno degli spazi in cui hanno risieduto. Come è avvenuta questa mutazione? Darwin presenta la sua ipotesi di «selezione naturale» con queste parole: «se in condizioni mutevoli di vita gli esseri viventi presentano differenze individuali in quasi ogni parte della loro struttura, e ciò non è discutibile; se a cagione del loro aumento numerico in progressione geometrica si determina una severa lotta per la vita in qualche età, stagione o anno, e ciò certamente non può essere discusso; allora, considerando la infinita complessità delle relazioni di tutti gli esseri viventi fra di loro e con le loro condizioni di vita, la quale fa sì che un’infinita diversità di struttura, costituzioni e abitudini, sia per essi vantaggiosa, sarebbe un fatto quanto mai straordinario che non avessero mai avuto luogo variazioni utili al benessere di ciascun individuo, allo stesso modo con cui hanno avuto luogo tante variazioni utili all’uomo. Ma se mai si verificano variazioni utili a un qualsiasi essere a un qualsiasi essere vivente, sicuramente gli individui così caratterizzati avranno le migliori probabilità di conservarsi nella lotta per la vita; e per il saldo principio dell’eredità, essi tenderanno a produrre discendenti analogamente caratterizzati. Questo principio della conservazione, o sopravvivenza del più adatto, l’ho denominato selezione naturale». In soldoni: a causa della lotta per la vita (che si svolge fra un individuo e l’altro della stessa «specie», fra individui di «specie» diverse e sempre contro le condizioni fisiche di vita) alcune «specie» si trovano equipaggiate con una qualche «variazione» che risulta utile al loro benessere e alla loro prosperità. Il numero delle «variazioni», delle quali ogni «specie» si trova provvista, non è esaurito soltanto da queste che sono «vantaggiose»: ce ne possono essere anche altre indifferenti, ed altre ancora persino svantaggiose. È qui che interviene la «selezione naturale» agevolando e «conservando» le variazioni «vantaggiose» per quella «specie» ed eliminando le altre. In questo modo, tale patrimonio di beneficio verrà trasmesso anche ai discendenti di quella «specie» che si avvarranno, appunto della «discendenza con modifica». Il risultato finale sarà perciò che la «specie» che ha sviluppato e fatto ereditare il proprio patrimonio di beneficio si affermerà nella dura lotta per la vita e, alla fine, sarà proprio quella che, attraverso la «selezione naturale», avrà fatto germogliare «L’origine della specie» di cui parla il titolo del fondamentale volume di Darwin. Le «specie» si evolvono, costituiscono un fatto storico e d’altro canto nascono a causa di un meccanismo, di un processo, di un congegno che tende a mettere in evidenza il loro carattere adattativo: la Natura fa si che popolino il pianeta le «specie» che meglio l’hanno saputo interpretare. E che meglio hanno saputo agire di conseguenza. Naturalmente tra ogni «specie» e ogni «varietà» esisteranno «innumerevoli anelli intermedi». Darwin dice a questo proposito: «ho anche cercato di dimostrare che le varietà intermedie, essendo meno numerose delle forme che le collegano, saranno generalmente sopraffatte e sterminate nel corso di ulteriori modificazioni e miglioramenti». La natura vuole, pur sempre che, sopravviva il più adatto (la frase non è di Darwin ma di Herbert Spencer).

Dicevamo dunque: lo spazio Copernico ed il tempo Darwin. Tutto questo processo, infatti, avviene in un tempo lentissimo. Nell’Abbozzo del 1842 dell’Origine della specie (contenuto in: Charles Darwin, L’origine della specie. Abbozzo del 1842. Lettere 1844-1858, Comunicazione del 1858, traduzione di Isabella C. Blum, a cura di Telmo Pievani, Einaudi, 2009), Darwin stesso dichiara: «dobbiamo considerare ogni meccanismo e istinto complicato, come la somma di una lunga storia, di utili elementi, proprio come un’opera d’arte». Ecco che il tempo necessario ad ogni «specie» per originarsi, diventa una «lunga storia», qualcosa di colossale, un viaggio nei sentieri più oscuri della Natura. Completano il volume alcune altre ipotesi relative a quali «varietà», presumibilmente, potrà essere applicata la «selezione naturale». E, del pari: alcune indicazioni sulle correlazioni tra i cambiamenti delle condizioni di vita e l’apparizione di «variazioni» nelle «specie» (compresa l’ereditarietà). Charles Darwin è andato dunque fino in fondo, con questo piccolo volume. Ha spiegato chi si estingue e chi ce la fa a riprodursi ed a continuare a vivere. Ed ha spiegato «perché». La sua «sola lunga argomentazione» (supportata da prove sperimentali) ha dimostrato di saper arrivare chiara anche alle nostre orecchie. Tempo e spazio sono cambiati, sono cambiate le condizioni della vita: il mondo non può che comportarsi in maniera relativa.

 

Gianfranco Cordì


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