Telluserra
Andrea Gratton. I baffi di Nonno Oliviero
27 Agosto 2012
 

Era molto diversa da questa, quell’ultima estate del secondo millennio, lo ricordo perfettamente. Nonostante sia passata poco più di una decina d’anni, sembra quasi di parlare di due mondi discordanti. Due pianeti che, tra loro, hanno davvero poco a che spartire. Me ne accorgo passando davanti allo scheletro della vecchia Ferriera di ********, quando vado al lavoro. Con le sue impalcature arrugginite. I tetti dei capannoni erosi dalla polvere e dal tempo. L’aria di silenzioso abbandono che comunica ogni millimetro della sua superficie. Proprio per questo non voglio parlare di ciò che è ora, ma di ciò che è stato. E, per farlo, devo partire da chi ero ai tempi: un ragazzo di vent’anni che non aveva altro di fronte a sé se non una torrida estate. Una torrida estate di rabbia e sete, a sgocciolare sul futuro che si avvicinava fino a diventare presente. Un presente che non chiamerei in nessun modo, perché in mille modi è già stato chiamato. Perché in mille modi è già stato definito. Tutte definizioni concordi; diverse, ma concordi. Concordi come l’evidenza che quell’ultima estate del secondo millennio vissuta alla Ferriera era molto diversa da questa. Non migliore, o peggiore. Semplicemente diversa. Fu in quell’estate che conobbi Nonno Oliviero. Quella che voglio raccontare, con ogni probabilità, è la sua storia. Ovvero la storia della nostra amicizia.

 

– Vedi questa polvere? – chiedeva Nonno Oliviero passando la mano callosa sul banco da lavoro e indicando una specie di limatura di ferro nera e granulosa.

– La vedi? – continuava finché non annuivo convinto.

– Ecco, questo è quello che respiro da vent’anni. Quello che tutti questi ragazzi respirano, chi più chi meno, a seconda del loro grado di anzianità.

– Questo è quello che respirerai anche tu, – diceva Nonno Oliviero lasciando cadere a terra la polvere nera. Le mani come coperte da una seconda pelle. – Ma non preoccuparti. Si tratta solo di pochi mesi, giusto? Non farai in tempo a “digerirla”. Al massimo qualche starnuto. Il grosso tocca a me. A me e a quei ragazzi laggiù, che abbiamo i polmoni tarati male e questa schifezza l’attiriamo come mosche al miele. Che la respiriamo giorno dopo giorno, e la vediamo cadere lenta e inesorabile. E che, perché no, quasi ci abbiamo fatto l’abitudine, che se mancasse ci mancherebbe una parte di noi. Il sapore del ferro in gola, che sale col respiro e stride sulle narici. Il sapore del lavoro. Il gusto della Ferriera. Il senso di una vita dedicata a tutto questo.

 

Quando l’ho conosciuto Nonno Oliviero aveva cinquantatre anni e due grandi baffi neri alla Stalin, ma si professava apolitico. Non aveva moglie, o compagna, o famiglia o figli. Non aveva cugini, né tantomeno nipoti. Il soprannome “Nonno” gli derivava dal grado di anzianità nella vecchia Ferriera di ********, un piccolo paesino alle porte di Padova, dove l’industrializzazione si era attivata ben presto e non voleva saperne di lasciare la presa. Nonno Oliviero era entrato nella Ferriera che aveva appena quattordici anni e, arrivato a cinquantatre, non aveva nessuna intenzione di abbandonare il posto di lavoro. Non contava gli anni che mancavano alla pensione, né si preoccupava di marchette o contributi: da decenni entrava in fabbrica ogni mattina alle sette e mezza, timbrava il cartellino, si fumava una sigaretta nel tragitto dagli spogliatoi ai grandi capannoni e si metteva subito a lavorare. Turni estenuanti di nove - dieci ore, con una pausa pranzo che gli bastava appena per ingurgitare un piatto di spaghetti al ragù, bere un quartino di vino rosso e fumare un paio di sigarette. Poi di nuovo al lavoro, immerso fino agli occhi nella limatura di ferro nera che cadeva come neve dagli altiforni. Solo il sabato si concedeva il lusso di lavorare metà giornata, che passava pulendo i macchinari e le postazioni di lavoro dei colleghi con una meticolosità che soltanto la passione e l’affetto per il posto di lavoro potevano giustificare.

 

Ero entrato nella Ferriera di ******** nell’estate del Duemila, con il preciso intento di lavorarci un paio di mesi così da mettere da parte un po’ di soldi per pagare le tasse universitarie. In quegli anni il lavoro estivo non mancava mai, e una breve ricognizione nelle varie zone industriali della provincia di Padova permetteva di raccogliere numerose proposte di lavoro. Si trattava, poi, di scegliere a seconda della distanza da casa, dell’orario, dell’ambiente e del tipo di lavoro. I soldi (gli schei) non erano mai un problema. Così come non lo era il contratto che, nella maggior parte dei casi, o non veniva sottoscritto o non veniva rispettato, con il tacito accordo di entrambe le parti in causa. Avevo scelto la Ferriera perché era la fabbrica più vicina a casa, nonché l’unica che cercasse operai per i soli mesi di Luglio e Agosto. Quando cioè le condizioni lavorative diventavano massacrante a causa dell’afa torrida, e i soli operai che restavano all’interno dei capannoni erano i veterani che mai e poi mai avrebbero avuto il coraggio di abbandonare il loro posto di lavoro nel momento del bisogno. Non sindacalizzato, senza famiglia a carico, disposto a saltare le ferie pur di passare le estati alla Ferriera bruciando e inalando limatura di ferro, Nonno Oliviero era il perfetto archetipo di questo tipo di operai.

Fu lui ad accogliermi al mio primo giorno in Ferriera. E fu proprio in quell’occasione che passò la mano callosa sul banco di lavoro, mostrandomi il palmo nero e indicandomi la limatura granulosa. Sorridendo, quasi, di quella magia mortale. Inorgoglito dalla resistenza del suo corpo che, giorno dopo giorno, sopportava quella tortura a colpi di sigarette e quartini di vino. Nonno Olivero, infatti, non lavorava per cupidigia o avidità, lavorava piuttosto per un qualcosa a metà strada tra la passione e l’abitudine. Tra la dedizione e la deferenza a quella fabbrica che, dalla povertà del dopoguerra, lo aveva proiettato in una tranquillità borghese che, nel suo caso, significava una piccola casetta, un’automobile sempre lucida e funzionale, dei vestiti sobri e puliti.

Non aveva altre ambizioni, Nonno Oliviero, né altri desideri. Ciò che cercava gli veniva direttamente dalla Ferriera, come da una madre un po’ possessiva che si occupava di lui in tutto e per tutto. Ciò che Nonno Olivero poteva fare per sdebitarsi era lavorare il più possibile, con impegno e abnegazione. E non dire mai “no”: Non dire “no” agli straordinari. Non dire “no” alle ferie in Novembre. Non dire “no” alle giornate di lavoro con trentotto di febbre. Non dire “no” agli interventi di pulizia o manutenzione dei macchinari di cui non era responsabile. E poi non chiedere, non chiedere mai nulla. Non chiedere permessi per il compleanno della sorella. Non chiedere il giorno libero per il funerale della madre (quella vera, non la Ferriera). Non chiedere un aumento, qualche scheo in più. Non chiedere mascherine, scarpe da lavoro, guanti, tute protettive. Nella mentalità di Nonno Olivier l’unica cosa che ci si poteva azzardare a chiedere, scherzando ovviamente, era un distributore di sigarette all’interno della Ferriera o un vino diverso da quello che veniva distribuito in mensa. Ma sempre con il sorriso sulle labbra. Sottovoce quasi, che a dire “no” e a chiedere qualcosa, Nonno Oliviero non era proprio abituato.

 

– Odio la domenica, – diceva Nonno Oliviero seduto al tavolo della mensa della Ferriera mentre arrotolava gli spaghetti al ragù. Gli spaghetti navigavano nell’olio e, per non macchiarsi, Nonno Oliviero si metteva al collo un grande tovagliolo di stoffa che portava direttamente da casa.

– La domenica è un giorno inutile, – aggiungeva. – Non c’è mai nulla da fare. Niente da pulire, o aggiustare, o sistemare.

– No, – sentenziava Nonno Oliviero, – odio davvero la domenica. È un giorno inutile. Che non passa mai.

– Preferirei starmene qui, qui in Ferriera. Da solo. – Concludeva portandosi gli spaghetti alla bocca, l’olio del ragù a bagnare i suoi grandi baffi neri alla Stalin. – In Ferriera anche di domenica. A preparare il banco di lavoro per il lunedì, oppure a controllare la cappa degli altiforni. Con tutte le macchine spente. Io da solo, un panino da mangiare alla mezza, un quartino di vino e un pacchetto di sigarette. Sarebbe bellissimo! Camminare nel silenzio dei capannoni, controllando che tutto sia a posto. Che ogni cosa sia in ordine. Io, la Ferriera, e quella schifezza nera. Che almeno, di domenica, se ne starebbe stesa al suolo, in letargo. Senza piovere dal cielo come neve. Senza cadere a terra come coriandoli.

 

Nelle ultime settimane di lavoro l’aria era diventata irrespirabile. L’afa di Agosto aveva avvolto la bassa padovana e la Ferriera di ******** ci si era trovata in mezzo, come schiacciata da una morsa. I turni di dieci ore erano diventati massacranti. Il calore secco degli altiforni si diffondeva per i capannoni aggregandosi all’umidità circostante in una specie di ibrido indecifrabile e malsano. La limatura di ferro continuava a cadere come fosse pioggerellina, depositandosi sulle tute da lavoro lerce e inzuppate di sudore e su quei pochi spiragli di pelle che restavano scoperti. Sul viso, sulle mani, sulle braccia degli operai costretti ad arrotolare le maniche in cerca di un vano sollievo da quelle temperature invivibili. Io boccheggiavo con la mascherina calata in viso, trasportando attrezzi e materiale ferroso da un lato all’altro della Ferriera. Le forze sembravano mancare giorno dopo giorno, in corrispondenza con l’avvicinarsi della fine del mio periodo di lavoro. La tuta era larga e ingombrante: ci ballavo dentro come un palombaro o come un clown del circo, vedendo limitati i miei movimenti. Il calore abbassava la pressione corporea al minimo, costringendo me e numerosi colleghi a continue pause per recuperare il fiato. Pause nelle quali ci passavamo da reparto a reparto thermos e bricchi di caffè, come sul Galibier Coppi e Bartali la famosa borraccia.

Nonno Oliviero, invece, sembrava non risentire del caldo opprimente. Fisso nella sua postazione di lavoro osservava noi operai stagionali faticare come dei muli, quasi stupendosi della nostra mancanza di resistenza. Non diceva nulla, Nonno Oliviero, e curvo sulla sua macchina limava e aggiustava i pezzi e preparava le spedizioni in uscita dalla Ferriera. Poi, in sala mensa, mangiava con calma i suoi spaghetti al ragù, con l’immancabile tovagliolo di stoffa, il quartino di vino rosso e le sigarette. Seduto sulla panchina sbuffava fuori il fumo e guardava il cielo limpido e afoso. Con la cappa di umidità sopra la città, evidentissima, capace di sfuggire anche ai fumi che uscivano instancabili dalla Ferriera. Il suo respiro, però, sembrava essersi fatto più affannoso. Le parole gli uscivano dalla gola più sibilate, con uno sforzo maggiore. Nulla nel suo modo di lavorare era cambiato, solo Nonno Oliviero parlava di meno e fumava di più, dicendo che, a sua memoria, non si ricordava un’estate così torrida. E lo diceva sbuffando fuori il fumo e sibilando. Lentamente. Parola dopo parola.

 

– E così mi hanno messo fuori gioco, – diceva Nonno Oliviero sotto le lenzuola bianche del suo letto, all’Ospedale di Padova, i grandi baffi alla Stalin ingrigitisi tutto d’un tratto. Non lo vedevo da diversi anni, cioè da quando, finita l’estate di lavoro alla Ferriera, lo avevo salutato con un caloroso abbraccio.

– Mi hanno lasciato in panchina, – sbuffava, – ma solo per questa stagione. Un paio di mesi per riprendermi, e poi si torna al lavoro. Più in forma che mai. E dovranno ricredersi. Dovranno ricredersi tutti!

Nonno Oliviero non diceva chi fossero quei “tutti” cui si stava rivolgendo. Né io lo capivo. Il suo braccio era attaccato, tramite un ago e un deflussore, a una sacca per flebo trasparente, di cui ignoravo il contenuto. Nonno Oliviero aveva avuto una crisi respiratoria alcuni mesi prima, durante un turno di notte. Degli ex colleghi mi avevano avvisato, invitandomi ad andarlo a trovare all’ospedale il prima possibile. Era notevolmente dimagrito, e respirava in maniera più affannosa dell’ultima volta che l’avevo visto.

– Ho solo bisogno di un po’ di riposo – continuava. – Un po’ di riposo e la fine di quest’estate maledetta.

– Ti ricordi quell’estate alla Ferriera? – aggiungeva. – Quell’estate in cui voi ragazzini sudavate come dei muli, e io vi guardavo senza capire. Che caldo faceva! E come andavano gli altiforni! E il fumo che usciva? E il cielo limpido su Padova? Con la bolla d’umidità che la potevi vedere a occhio nudo. Che estate, ragazzo mio. Che estati alla Ferriera!

 

Era molto diversa da questa, quell’ultima estate del secondo millennio, lo ricordo perfettamente. Nonno Oliviero se n’è andato giusto a metà tra queste due estati e, in fondo, non ha potuto dire di essere figlio né dell’una né dell’altra. Perché Nonno Oliviero era figlio della Ferriera, punto e basta. E della Ferriera è stato l’ultimo Nonno. Alla prima estate passata lontano dai capannoni e dagli altiforni, il suo corpo gli ha chiesto il conto di tutti i “no” che non ha saputo dire e di tutte le cose che non ha saputo chiedere. La Ferriera di ******** ha chiuso pochi mesi dopo la sua scomparsa, quasi a simboleggiare una simbiosi profonda con quell’uomo che aveva dedicato una vita intera al suo servizio. Decine e decine di dipendenti si sono ritrovati, nel migliore dei casi, senza lavoro. Alcuni tra i più vecchi sono ricoverati nel reparto di pneumologia all’Ospedale di Padova, con prognosi non sempre incoraggianti.

A volte, andando al lavoro, passo davanti al vecchio scheletro della Ferriera. I capannoni in disuso, le ciminiere arrugginite, i bidoni di latta vuoti. E poi i carrelli elevatori, le cinghie, le catene di ferro dai grossi anelli, il piazzale dello scarico. Ogni cosa è priva di vita, abbandonata a se stessa. Alla sua inutilità. Fantasma in una terra di nessuno, ignorato dagli sguardi dei più. Che non sanno e non sapranno mai del brulicare di vita che caratterizzò quei luoghi e dei personaggi che li hanno abitati. Che non sanno di Nonno Oliviero. Che non sanno della sua storia.

E che, con ogni probabilità, non sanno della nostra amicizia.

 

Andrea Gratton


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