Lo scaffale di Tellus
Gianfranco Cordì. La prospettiva di Spengler
29 Gennaio 2012
   

Oswald Spengler (Blankenburg am Harz, 29 maggio 1880 – Monaco di Baviera, 8 maggio 1936) in questo suo Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale (edizione a cura di Rita Calabrese Conte, Margherita Cottone e Furio Jesi, traduzione di Julius Evola, introduzione di Stefano Zecchi, Longanesi, Milano, 2008) traccia un percorso che si sviluppa dal generalissimo al particolare. In qualche maniera il filosofo tedesco disegna una strada che dalla metafisica conduce ineluttabilmente verso un punto fisso. Il termine di partenza di tutto quanto l’argomentare è infatti una dualità, una distinzione, una frammentazione dello spazio, che si ha davanti, in due porzioni definite. Tale caratterizzazione, essendo generale al più alto grado, coinvolge direttamente quella parte della filosofia che - andando oltre gli elementi contingenti dell'esperienza sensibile - si occupa degli aspetti ritenuti più autentici e fondamentali della realtà secondo una prospettiva che risulta alla fine essere la più ampia ed universale possibile. Il punto d’arrivo di tutto il discorso, invece, riguarda (nelle parole dello stesso Spengler) un «fenomeno circoscritto spazialmente e temporalmente». Si cammina, dunque, dall’indeterminato al preciso. Dall’infinito ad un punto particolare.

Il disegno di questo viaggio è compiuto dall’autore attraverso sei tappe. Si passa, infatti, da un dualismo iniziale ad un dualismo intermedio a tre operazioni (rispettivamente: microscopica, contenutistica e geografica) all’enunciazione di una idea finale che è poi quella che dà il titolo al libro e che costituisce una forma di «prognosi della storia». Il tramonto dell’Occidente, in fondo, è solo questo: un’idea che viene lanciata nel momento infallibile in cui, rispetto ad una determinata «fase della storia», «noi attualmente stiamo vivendo il principio» di un processo in corso il quale, poi, «abbraccerà diversi secoli». Tenendo conto che l’opera, in due volumi, fu pubblicata col titolo Der Untergang des Abendlandes nell'estate del 1918 - per quanto riguarda il primo tomo - e revisionata successivamente nel 1922 (mentre il secondo volume apparve solo nel 1923 con il sottotitolo «Prospettive della storia del mondo»), possiamo tranquillamente affermare che tale tentativo di «predire il destino di una civiltà» non ha ancora trovato una sua conferma o una sua smentita. E questo per la ragione precisa che, noi uomini occidentali del secondo millennio, siamo ancora «all’interno» di una meccanica che, come detto appunto sopra, «abbraccerà diversi secoli». Quello che ci resta, nella nostra situazione, è dunque un’opera di scavo sempre più circostanziata verso un approdo definitivo. E questo approdo è appunto la tesi che l’autore di questo libro intende sostenere con tutte le sue forze e la sua abilità filosofica.

Il pregio dell’intera operazione è perciò quello di costituire, comunque, un punto di vista sulla storia dell’Occidente ovvero sull’«unica civiltà che oggi stia realizzandosi sul nostro pianeta, la civiltà euro-occidentale e americana». Il difetto principale è una certa prolissità ed un vero e proprio sovraccarico di dati e di fatti storici (alcuni buttati lì, all’impronta, senza nessuna ulteriore precisazione). Difetto non secondario è anche la mancata spiegazione di alcuni assunti e di alcuni passaggi (anche cruciali) del libro che rimangono così al puro stadio dell’enunciazione verbale e dell’affermazione senza riscontro nella realtà. Spengler parte dunque da un dualismo. Abbiamo infatti a che fare con «il mondo come storia compreso, intuìto e formulato nella sua antitesi rispetto al mondo come natura». In sostanza, storia e natura «designeranno due modi possibili di abbracciare la totalità del cosciente, del divenire e del divenuto, della vita vivente e della vita vissuta in una imagine del mondo unitaria, spiritualizzata ben ordinata del mondo - modi che si diversificano a seconda che nella sensazione indivisibile complessiva sia il divenire o il divenuto, la direzione o l’estensione (“tempo” o “spazio”) a predominare formativamente». Ovvero, infine, nei due termini predetti «si contrappongono le due possibilità estreme data a ogni uomo per ordinare in una imagine del mondo la realtà che lo circonda». È questa la base metafisica che fornisce la radice della dualità iniziale dalla quale si dipana tutto il discorso spengleriano.

Con un ulteriore specificazione l’autore de L’uomo e la tecnica. Contributo a una filosofia della vita introduce altri due elementi. Egli infatti afferma: «una realtà è natura se in essa il divenire è subordinato al divenuto, è storia se in essa il divenuto è subordinato al divenire». Intendendo sempre che «si possono distinguere il divenire e il divenuto come la forma nella quale esistono il fatto e il risultato della vita per l’essere desto». Sapendo altresì che «a base di ogni divenuto v’è sempre un divenire e la storia rappresenta una organizzazione dell’immagine del mondo in funzione del divenire, la storia è la forma originaria del mondo e la natura, quale meccanismo cosmico elaborato, è una forma tarda di esso realizzata a pieno solo dall’uomo di civiltà mature». Spengler in altri termini non esisterà a dire che ci troviamo di fronte alla pristina opposizione tra la vita (il divenire) e la morte (il divenuto). Ma il secondo dualismo (quello intermedio) - che interviene in questa fase dell’argomentazione del filosofo tedesco - è costituito da questa dichiarazione: «il mondo come natura e il mondo come storia hanno per correlativo due diversi modi del comprendere». Tali «modi» sono i seguenti: «ogni modo di comprendere il mondo può essere chiamato, in ultima analisi, una morfologia. La morfologia del meccanico e dell’esteso, scienza che scopre e coordina le leggi naturali e le relazioni causali, si chiama sistematica. La morfologia dell’organico, della storia e della vita, di tutto ciò che contiene in sé una direzione e un destino, si chiama fisiognomica». Dopo aver compiuto questo passo l’autore ha così pieno agio di portare a termine le sue tre separazioni.

La prima è quella da noi definita microscopica. «Dall’imagine di tutto il divenire mondiale nella successione possente dei suoi orizzonti quale l’abbraccia l’occhio faustiano, di tutto il divenire del cielo stellato, della superficie terrestre, degli esseri viventi e degli uomini consideriamo, ora, soltanto quella unità morfologica minima che corrisponde alla “storia mondiale” nel senso usuale, cioè alla storia, poco stimata dall’ultimo Goethe, dell’umanità superiore che a tutt’ora abbraccia circa seimila anni: senza porci il profondo problema dell’interna analogia che può esistere fra tutti questi aspetti del divenire. Ciò che dà senso e contenuto di storia a quel mondo fuggente di forme, e che finora era rimasto celato sotto la massa confusa delle “date” e dei “fatti” tangibili, è il fenomeno delle grandi civiltà». Abbiamo dunque isolato la «storia mondiale». Eccoci pronti al successivo stadio: la separazione contenutistica. Essa viene annunciata da Spengler con queste parole: «la civiltà è il fenomeno originario di ogni storia mondiale passata, presente e futura». Dalla diade metafisica di partenza (attraverso un dualismo intermedio ed una prima separazione microscopica) siamo arrivati adesso alla messa in evidenza del fenomeno delle «civiltà». Esse, specifica Spengler: «sono degli organismi. La storia mondiale è la loro biografia complessiva». E, in quanto «organismi», tali «civiltà» attraversano «le stesse fasi dell’individuo umano. Ognuna ha la sua fanciullezza, la sua gioventù, la sua età virile e la sua senilità». In definitiva ognuna ha una propria «durata» e un proprio «dato ritmo dello sviluppo». L’ulteriore separazione è quella geografica. All’interno del composito universo delle «civiltà», Spengler afferma di voler investigare «in che forma il destino della civiltà occidentale si compirà nel futuro». Per far questo, e per pervenire a quell’idea finale (che costituisce la proposta teorica di Spengler), l’autore ci informa che: «una volta che lo scopo è raggiunto e che l’idea è esteriormente realizzata nella pienezza di tutte le sue interne possibilità, la civiltà d’un tratto s’irrigidisce, muore, il suo sangue scorre via, le sue forze sono spezzate, essa diviene civilizzazione». La civiltà occidentale ha subito dunque proprio questo destino, è stata condotta lungo questa strada, ha raggiunto tale «stadio necessario». «Stadio», tra l’altro, che la «riguarda esclusivamente» e che «si distingue da altri consimili solo per la sua estensione». Il terreno adesso è pronto per l’idea finale. Spengler dice che la «civilizzazione» è «il senso di ogni tramonto nella storia, il senso del compimento interno ed esterno, dell’esaurimento che attende ogni civiltà vivente». L’Occidente sta per tramontare perché esso è giunto al suo «inevitabile destino». Il suo culmine costituisce anche la sua fine (il suo «tramonto», la sua dissoluzione). L’idea di Spengler è che «inversione di tutti i valori: questo è il carattere più intimo di ogni civilizzazione. Si comincia col dare una diversa impronta a tutte le forme della preesistente civiltà, col capirle e con l’adoperarle in altro modo. Non si crea più, ci si limita a cambiare il senso di quel che esiste. In ciò sta l’aspetto negativo di tutte le epoche di tale tipo. Esse presuppongono come avvenuto l’atto propriamente creativo. Esse raccolgono la mera eredità di grandi realtà».

Il cammino è dunque realmente concluso. La via lungo la quale Spengler ci ha invitati a deambulare è stata ricca di avvenimenti e di incontri. Percorrendo sei figure metodologiche alla fine l’autore ha dimostrato il proprio assunto di partenza. E ci ha consegnato una «filosofia generale della storia» contrassegnata da un assolutismo relativo (la morale, la scienza, la stessa filosofia, il diritto hanno un senso assoluto all’interno delle rispettive «civiltà» di appartenenza ma non hanno alcun significato al di fuori di esse. In sostanza: i valori sono assoluti all’interno di una «civiltà», ma relativi solo a questa «civiltà») che è un vero e proprio esempio di esaltazione della fantasia ai danni della ragione. Egli stesso infatti dichiara: «se non secondo la sostanza, almeno secondo la forma, io distinguo nettamente la sensazione organica dalla sensazione meccanica del mondo, l’insieme delle forme da quello delle leggi, l’imagine o il simbolo dalla formula e dal sistema, ciò che è reale e irripetibile da ciò che è possibile e ricorrente, il fine di una immaginazione che ordina secondo un piano da quello di una esperienza utilitaristicamente analitica e, infine… il dominio del numero cronologico da quello del numero matematico». E la «storia» è, all’interno del suo pensiero, proprio tale dominio della fantasia. Cioè della libera interpretazione.

 

Gianfranco Cordì


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