Oblò Mitteleuropa
Una sorta di autoritratto. Il Virgilio di Hermann Broch 
di Gabriella Rovagnati
05 Gennaio 2012
 

Era avvolto in un nebbione che ne rendeva sfuggente il profilo sobrio ed elegante ieri Palazzo Tè, e lo si distingueva a mala pena da via Risorgimento dentro il parco, ora brullo e maliconico che lo circonda. A portarmi a Mantova è stata la mostra che in questo periodo (e ancora fino all’8 gennaio) il palazzo ospita ed è dedicata al poeta latino cui la città diede i natali: “Virgilio. Volti e immagini del poeta”. Il pezzo certo di maggior attrattiva dell’esposizione è il mosaico pavimentale, conservato nel Museo del Bardo di Tunisi e per la prima volta visibile in Italia, che risale all’inizio del III sec. D.C. e presenta il poeta in cattedra, affiancato a destra da Calliope, la musa della poesia epica, e a sinistra da Melpomane, la musa della poesia tragica. La mostra di Mantova si concentra ovviamente sugli aspetti iconografici di Virgilio (riprodotto su monete e quadri - per esempio in compagnia di Dante che gli fa da guida nella Divina Commedia) e da Virgilio (dove a fare la parte del leone è l’episodio di Didone nell’Eneide), visto vuoi come fonte di saggezza, come poeta bucolico, come profeta messianico. La mostra ricorda anche, con alcuni quadri ad olio, come fosse tappa indispensabile nei viaggi degli stranieri in Italia fin dal Settecento, una visita a quella che era ritenuta la tomba del poeta a Piedigrotta, alla quale si accedeva come a un sacrario, avvolta com’era in un’aura di leggenda.

Proprio di fronte ai quadri della presunta tomba del poeta, mi è tornata alla mente l’interpretazione che degli ultimi giorni di Virgilio ci offre lo scrittore viennese Hermann Broch (1886-1951) in quello che è considerato il suo romanzo migliore: La morte di Virgilio [Der Tod des Vergil], pubblicato nel 1945 durante l’esilio americano. Suddiviso in quattro momenti che sono poi i quattro elementi della filosofia presocratica, il romanzo si apre con l’arrivo di Virgilio a Brindisi (acqua) di ritorno da un viaggio in Grecia. È il 20 settembre del 19 a. C.; il poeta è agonizzante e viene subito portato in barella al palazzo reale (terra), dove, in preda al delirio (fuoco), si lascia andare a una lunga serie di riflessioni più o meno lucide sul senso del suo operato e sulla velleità di cambiare con la scrittura il corso del mondo. Ha la creatività artistica davvero una sua legittimazione morale? O è pura presunzione? Convinto che la sua attività di poeta sia stato un fallimento, Virgilio, la mattina seguente (il 21 settembre, secondo e ultimo giorno del romanzo) affida a due amici i propri manoscritti, pregandoli di bruciare il suo capolavoro, l’Eneide. A convincerlo a salvare il poema per la posterità è Augusto, che in un lungo colloquio con il poeta, lo rassicura di non strumentalizzare l’opera a fini politici per una sorta di automagnificazione. Nella contrapposizione fra Virgilio, uomo dell’otium e Augusto, rappresentante invece del negotium, Broch dà voce ai propri dubbi sul ruolo dell’intellettuale, mettendo in dubbio la sua “utilità” nell’influenzare il corso del mondo. Chi scrive, è forse capace di analisi corrette e acute, ma resta in fondo impotente, perché non agisce concretamente, ma sempre e solo su un piano ideale. Chi scrive è spinto dal desiderio di pervenire a un grado superiore di consapevolezza, ma l’unica vera conoscenza che gli è data davvero è la conoscenza della morte. Nel dialogo fra il poeta e l’imperatore diventano labili i confini fra essere e non essere, fra ragionevolezza e demonismo (del singolo e della storia), fra oggettività e insondabilità del reale. A indurre Virgilio a rinunciare al suo proposito di distruggere l’Eneide non sono la dialettica e l’abilità persuasiva del sovrano, quanto il debito d’amicizia che egli sente nei suoi confronti. La scelta finale di Virgilio agonizzante, che si fa presenza sempre più evanescente (aria) è quindi suggerita dall’amore, indiscutibile veicolo di conoscenza.

Broch stesso, commentando il proprio testo, dichiara di aver tracciato nel romanzo una sorta di autoritratto, e di aver proiettato nel poeta latino tutti i propri dubbi e le proprie frustrazioni, ma anche di non aver voluto cedere, nonostante il proprio diffuso pessimismo, a tentazioni nichilistiche; come Virgilio nella quarta Bucolica aveva pronosticato una sorta di venuta del Messia, così anche Broch s’era imposto di non predicare l’apocalisse, ma di dar spazio a una speranza di rinascita dopo la fine del dodicennio nero del nazionalsocialismo. Anche questa specie di identificazione un volto di Virgilio.


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