Diario di bordo
Marco Lombardi. L'immigrazione e i nostri sensi di colpa
14 Dicembre 2011
 

Abito a Firenze, città dove lavoro a pochissima distanza dal luogo della sparatoria in cui sono stati uccisi due giovani senegalesi e un altro è rimasto gravemente ferito. Passo tutti i giorni dal mercato di Piazza Dalmazia, luogo dell'agguato, e quei venditori ambulanti, noti come vu cumprà e genericamente identificati col dispregiativo “marocchini” da molti fiorentini (specie i più anziani), li incontro spesso. Non nascondo che, di fronte alle loro richieste, rese non di rado fastidiosamente insistenti dal loro inderogabile bisogno di sopravvivenza, volgo talvolta lo sguardo altrove, tirando dritto. Altre volte acquisto ora un pacchetto di fazzolettini ora un paio di accendini, cerco comunque di sorridere loro, ma non mi è sempre facile farlo, specie quando le cose non girano per il verso giusto.

Proprio la mattina dell'omicidio, avvicinato da uno di questi ragazzi, gli ho offerto il prezzo di un caffè ed augurato buona fortuna. Chi l'avrebbe detto che solo un paio di ore più tardi, un pazzo estremista di destra avrebbe sparato a bruciapelo tre colpi di pistola, così davanti a tutti, nell'ora di massima affluenza della piazza. Non è questione di fortuna, né di sfortuna, ma un risvolto, terribilmente tragico, di un percorso di integrazione che in Italia non sta funzionando.

Firenze, a mio avviso, non è una città razzista. Forte è il tessuto associativo e le istituzioni, la Regione, la Provincia, che ha ospitato il primo Consiglio per Stranieri elettivo, ed il Comune, con un consigliere comunale senegalese in carica nel corso del precedente mandato, hanno fatto e fanno il possibile, stante risorse sempre più scarse ed una normativa nazionale che definire bizantina è poco, iniqua addirittura generoso. Sì, perché le nostre realtà locali, le nostre città, in Toscana come altrove, risentono di un modello di integrazione dello straniero definibile in un solo modo: cattivo. Cattivo perché considera l'immigrato esclusivamente come una risorsa, non come una persona, da trattare dunque a seconda del beneficio che se ne vuole trarre, che sia la convenienza per l'impresa, il sostegno alla famiglia, ma anche il pietismo di tutti noi. Su quest'ultimo punto ci metto anche le responsabilità del terzo settore e della politica così detta “tollerante”, che spesso confondono appunto il concetto di tolleranza con quello di alibi per le proprie coscienze o, utilizzando un termine incline alla nostra cultura cattolica, il proprio senso di colpa.

Forse sono solo un povero indifferente, ma non considero gli immigrati né vittime, né carnefici e per questo mi trovo sotto il fuoco incrociato dei tolleranti senza se e senza ma dal un lato, di chi condanna senza appello dall'altro. Opposti stereotipi, nei quali si annidano reciproci estremismi (ovviamente assai più dannosi se xenofobi, come l'episodio in questione dimostra), ma che distraggono la riflessione da un punto a mio avviso focale e cioè che lo straniero, come qualunque altro individuo, è capace di buone e cattive azioni e che, se sottoposto ad uno stress sociale forte e, appunto, cattivo, reagisce come faremmo tutti noi, anche con astuzie e prepotenze se del caso. Se non capiamo questo concetto, temo, ogni sforzo volto alla pura giustizia sociale sarà vano.

 

Marco Lombardi


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