Lo scaffale di Tellus
Gianfranco Cordì. In direzione della sintonia. Habermas oltre l’astratto
19 Settembre 2011
 

Dalla stasi all’operazione. Dai fini ai mezzi. Dalle cause alle conseguenze. In una parola questo libro di Jürgen Habermas (Il pensiero post-metafisico, a cura di Marina Calloni, Laterza, Roma-Bari, 2006) compone e costituisce un preciso punto di passaggio tra due sistemi di riflessione caratterizzati da componenti diverse. «La razionalità (Rationalität) si riduce ad esser formale, non appena la ragionevolezza (Vernunfkigkei) dei contenuti si volatilizza nella validità dei risultati». Il transito è, così, subito delineato: dal mondo dominato da uno spirito «universale… immutabile… necessario» ad un cosmo gestito da regole transitorie che si dispongono in base alla efficienza dei risultati richiesti ed ottenuti. Dall’universo della ragione metafisicamente fondante (del periodo che va dalle origini della filosofia Occidentale alla «prima generazione degli allievi di Hegel») al pluriverso scomposto del «pensiero post-metafisico» che vede un trionfo ed un affermarsi della «procedura», della «validità», del «quotidiano», del «contingente» e della «finitezza».

In quest’opera (che risale al 1988 ed il cui titolo originale è Nachmetaphysiches Denken. Philosophische Aufsätze, Suhrkamp Verlag presso Frankfurt am Main), l’autore giunge a tale affermazione attraverso un movimento che viene realizzato in quattro tempi storici. All’inizio di tutto c’è la Metafisica. «Pur tenendo conto dei contrasti tra Platone ed Aristotele, nel suo complesso il pensiero metafisico, seguendo Parmenide, prende le mosse dalla questione dell’essere dell’essente – ed è per questo ontologico». Ed ancora: «trascurando la linea aristotelica, con una rozza approssimazione, chiamo “metafisico” quel pensiero, risalente a Platone, che è una forma di idealismo filosofico e che, attraverso Plotino e il neoplatonismo, Agostino e Tommaso d’Aquino, Nicolò Cusano e Pico della Mirandola, Cartesio, Spinoza e Leibniz, giunge fino a Kant, Fichte, Schelling e Hegel». Il primo tempo storico, dunque, è esemplato da quel tipo di speculazione per cui «l’Uno è Tutto», per cui «un Primo che, come Infinito, si pone di fronte al mondo del Finito, oppure sta alla sua base» e per cui esiste una «priorità metafisica dell’unità sulla pluralità». Ci troviamo, insomma, in un contesto nel quale «l’unità della ragione vale ancora sempre come repressione, non come fonte della molteplicità delle voci». Il primo tassello di questo quadruplice passaggio/paesaggio è, allora, quello di un intelletto uniformante, totalizzante e omogeneizzante. Una forma di logicità che spiega esattamente tutte i propri elementi ed il telos della stessa struttura che le soggiace e che essa sta indagando. Nonché ogni aspetto della materia e dello spirito.

Col secondo tempo storico ci troviamo invece di fronte a una situazione in cui «il pensiero totalizzante, orientato verso l’Uno e l’Intero, viene posto in questione dal nuovo tipo di razionalità procedurale, che si impone attraverso il metodo scientifico-sperimentale, proprio delle scienze naturali, a partire dal XVII secolo, e attraverso il formalismo tanto nella teoria morale e giuridica, quanto nelle istituzioni dello Stato costituzionale a partire dal XVIII secolo». Nasce adesso un nuovo tipo di giudizio: esso predilige l’uso rispetto alla potenza, il frammento invece che il globale, la strumentalità piuttosto che il movente. Dice Habermas che questa «protesta», in realtà, si è diretta «contro la predominanza dell’Uno in nome della pluralità repressa» e che essa è venuta al mondo «nel segno di una critica all’idealismo di stampo hegeliano». Ciò si è verificato perché «a metà del XIX secolo… il pensiero sistematico, orientato verso il mondo nel suo complesso, si vide per la prima volta sfidato, anzi precipitato in una crisi di identità, ad opera della razionalità procedurale di una scienza sperimentale che si era venuta a qualificare attraverso propri metodi di ricerca».

Strettamente correlati a questo, sono il terzo e il quarto tempo. Essi sono: la proposta, da parte di Habermas, della teoria dell’agire comunicativo quale nuova strada della filosofia di fronte alla impasse descritta e la constatazione dell’esistenza di una «scintilla di un rinnovamento della metafisica» che viene elevando dalle ceneri del passato. L’agire comunicativo è quello indirizzato all’intesa. Proprio ai fini di detto accordo o unione armonica, questa proposta di pensiero, tende a far germogliare il consenso. Si tratta, in definitiva, dell’apertura di uno spazio in cui «non vale più come razionalmente valido l’ordine delle cose che si incontra nel mondo o che è stato progettato dal soggetto, o che si è sviluppato dal processo di formazione dello spirito, bensì vale quella forma di risoluzione dei problemi che ha una certa riuscita, mediante una giusta procedura nei confronti della realtà».

Marina Calloni, nell’«Introduzione all’edizione italiana» del volume in questione, afferma che Habermas sta proponendo «un concetto scettico e fallibilistico di ragione, di una ragione cioè che è incarnata nella comunicazione linguistica rivolta all’intesa». Nell’agire comunicativo, quindi, le azioni dei diversi attori vengono coordinate tra loro attraverso, appunto, l’unione. «L’intesa linguistica funziona in modo che coloro che partecipano all’interazione si accordino sulla pretesa validità delle loro azioni linguistiche, oppure tengano dovutamente conto dei dissensi constatati». La razionalità del discorso, ora, si presenta in tutta quella serie di condizioni necessarie ai fini di un accordo da conseguire. Il linguaggio vale, quindi, come fonte di integrazione sociale. «Anche la ragione comunicativa pone quasi tutto in modo contingente, persino le condizioni d’origine del suo stesso medium linguistico. Ma per tutto ciò che all’interno di forme di vita, linguisticamente strutturate, avanza pretese di validità, le strutture della possibile intesa linguistica costituiscono un fatto ineludibile (ein Nicht-Hinfergehbares)». La proposta teorica di Habermas contempla, dunque, all’interno di una mutata situazione filosofica (quella dell’avvento di una ragione pratica e funzionale nello stesso momento), la scelta di una credenza nella quale «viene a formarsi… una differenza prospettica fra esterno ed interno, che sostituisce la differenza fra essenza ed apparenza». Ci troviamo, in sostanza, in un mondo che ha mutato i propri connotati. La teoria non possiede più alcun primato sulla prassi. La coscienza ha lasciato il proprio posto centrale, come oggetto d’indagine, all’unione armonica (si è passati cioè dalla filosofia della coscienza a quella del linguaggio). La relazione tra Uno e molteplice (concepiti entrambi astrattamente come rapporto tra identità e differenza) non è più concepita come una relazione insieme logica e ontologica. Lo stesso Uno non è più fondamento e origine del Tutto. In mezzo a questo scenario si erge, adesso, una ragione che privilegia l’attività alla natura delle cose. Dalla stasi all’operazione, si diceva. E questa nuova speculazione, ricercherà, da adesso in avanti, orizzonti di senso sempre più rivolti alla strumentalità; al fare piuttosto che all’essere. L’insieme delle elaborazioni destinate alla risoluzione di un problema complesso avrà, da ora, la meglio sulla sostanza di quello stesso problema. E alla fine verrà sempre perseguita la comprensione piuttosto che la motivazione. Nella chiara consapevolezza, non solo dell’avvicendarsi dei quattro tempi descritti, ma anche del significato dell’avventura di un pensiero che ha visto nell’argomentazione lo svolgersi di procedure che possono, esse sole, convalidare la stessa conoscenza umana. O almeno, quella che resta!

 

Gianfranco Cordì


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