Lo scaffale di Tellus
Per Elémire Zolla, sincretista in lotta contro ogni assolutismo
21 Luglio 2006
 
Conservo gelosamente in una cartella del mio archivio le cartoline che di tanto in tanto mi mandava Elémire Zolla (1926 – 2002), vergate con una calligrafia minuta e arabescata, con la E e la Z sinuose e ampie.
Non bisogna essere necessariamente grafologi per riscontrare in quella firma la raffinatezza e la singolare levatura di un uomo avulso dalla banalità, dalla cortigianeria partitica e clericale.
Zolla era diverso dalla paccottiglia che predomina, deturpandola, nella nostra cultura.
Amante di mistici, visionari, sciamani, assertore del sincretismo, di una spiritualità radicalmente interiorizzata, iniziatica, riluttante ad ogni forma di controllo istituzionale, è stato avversato e guardato con sospetto dai chierici di ogni risma.
Ebbi modo di conoscerlo ad Assisi nel 1989 nel corso di un incontro organizzato da una piccola ma vivace libreria esoterica che, ahimè, da tempo ha chiuso i battenti. Era insieme alla sua compagna, Grazia Marchianò, e a Ioan Petru Couliano, lo studioso rumeno dello gnosticismo, erede di Mircea Eliade (gli era succeduto alla cattedra di Storia delle religioni a Chicago), che di lì a poco sarebbe stato misteriosamente assassinato, si dice ad opera di una setta, nei bagni dell’università di Yale.
Zolla, se ricordo bene, indossava un vestito molto chiaro. Sul suo viso aperto spiccavano spessi baffi bianchi. Gli occhi scuri, lucidi, lo sguardo penetrante. Aveva modi affabili, come se fosse appartenuto ad un altro tempo. Seduto in ultima fila, seguiva pazientemente l’alternarsi dei relatori, prestando ad ognuno la dovuta attenzione, e, quando arrivò il suo turno, parlò con eloquenza affascinante dimostrando con estrema naturalezza, senza alcuna forzatura né ostentazione, una conoscenza vastissima.
Nel giro di pochi attimi l’uditorio fu tutto suo, calamitato dalle sue parole, e lui s’involò in un viaggio straordinario in cui, all’interno di una concezione antidualistica, s’incontravano Pitagora e Nagarjuna, Eckhart e l’advaita Vedanta, Marsilio Ficino e l’ebraismo chassidico, l’arte alchemico-spagirica e lo yoga di Patanjali.
Per coloro che come me hanno sempre perseguito un’alternativa all’impianto aristotelico-tomistico, all’ottuso cartesianesimo, all’idealismo storicistico, al tronfio e roboante marxismo, in una parola all’angusto razionalismo, senza sprofondare, però, nell’altrettanto limitante e asfissiante fideismo di matrice cattolica, Zolla è stato (e rimane) un faro.
Chi altri, se non lui, avrebbe mai potuto scrivere libri preziosi e indimenticabili come Aure, Archetipi (Marsilio), Il dio dell’ebbrezza (Einaudi), I mistici dell’Occidente, Uscite dal mondo (Adelphi)?
Ecco perché mi sono immerso nella lettura del bellissimo, partecipato, omaggio che, a quattro anni dalla sua scomparsa, gli ha dedicato Grazia Marchianò.
S’intitola Elèmire Zolla, Il conoscitore di segreti e contiene Una biografia intellettuale scritta, appunto, da Grazia Marchianò (pp. 634, Rizzoli, € 26). Confesso di avere centellinato nelle ore notturne, le più adatte alla riflessione, pagina dopo pagina, questo intenso volume che, suddiviso in due sezioni, raccoglie saggi sparsi e di difficile reperibilità. L’ho letto lentamente, metabolizzando parole, intuizioni, immagini. Avrei voluto non terminasse mai, tanto mi ha coinvolto.
Nato a Torino nel luglio del 1926, anno della Tigre nel calendario zodiacale cinese, in una famiglia dove si respiravano musica e pittura e si parlavano correntemente, oltre all’italiano, inglese e francese, Zolla viene chiamato Elémire in omaggio al romanziere francese Elémir Bourges (1852-1925).
Il padre è un artista italiano, anche se nato in Inghilterra, la madre, invece, è originaria del Kent. Nove anni dopo la famiglia si trasferisce, per un breve periodo, a Londra e il piccolo Elémire va a Maidstone nella casa in campagna dei nonni materni.
Tornato successivamente a Torino, si dedica allo studio delle lingue e, terminata la scuola dell’obbligo, frequenta l’ateneo sabaudo. S’iscrive alla Facoltà di Legge (in particolare è attratto da medicina legale e psichiatria forense) ma segue anche altri corsi, soprattutto a carattere filosofico. Nel 1947, a ventun anni, pubblica, per le Edizioni Spaziani, il suo primo libro, Saggi di etica e di estetica. Colpito da tubercolosi (descriverà i lunghi, stremanti, reiterati soggiorni ospedalieri nel romanzo Minuetto all’inferno (Einaudi), vincitore nel 1956 del Premio Strega), si laurea nell’anno accademico 1952-1953. I suoi studi, la sua inclinazione, lo portano inevitabilmente ad avvertire la ristrettezza dell’occidente cristiano ed a subire l’attrazione per le filosofie orientali e la visione buddhista.
“Ho passato la vita ad esplorare le credenze radicate nelle più svariate culture e civiltà, ed è stato inevitabile”, confesserà più tardi, “che le concezioni che ho sentito più affini e convincenti siano state quelle, come le indiane, che aprono la mente a interrogarsi sulle proprie dinamiche e suscitano la coscienza a rispecchiarsi in se stessa”
Lasciata Torino nel 1957, si reca a Roma, dove resterà per trentaquattro anni. Il matrimonio con la poetessa Maria Luisa Spaziani, conosciuta a Torino, s’incrina.
Incontrerà, infatti, la scrittrice Cristina Campo, al secolo Vittoria Guerrini, cui si legherà instaurando un profondo rapporto (si legga, in merito, Cristina De Stefano, Belinda e il mostro, vita segreta di Cristina Campo, edito da Adelphi quattro anni fa).
I due hanno in comune la passione per orizzonti culturali inesplorati, per autori scomodi e ancora poco conosciuti in Italia e per i gatti : “Quando il professore usciva dal suo seminterrato li chiamava e loro lo seguivano”, ricorda il proprietario di una pensione vicina allo studio di Zolla, nella zona di Sant’Anselmo.
Insieme alla Campo utilizzerà lo pseudonimo di Bernardo Trevisano per diversi articoli scritti nel triennio 1965-’67 per Il Giornale d’Italia.
Chiamato nel 1966 da Mario Praz all’università di Roma, consegue la docenza insegnando prima a Catania, poi a Genova (Letteratura angloamericana e Filologia germanica) e nuovamente, nel 1974, a Roma.
Scrive per diverse riviste, tra cui Tempo Presente di Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte e Il Mondo di Mario Pannunzio, collabora al Corriere della Sera, cura numerose traduzioni, continua la prolifica attività saggistica con L’eclisse dell’intellettuale (1959), influenzato dalla critica francofortese, adorniana, al sistema industriale, I mistici dell’Occidente (1963), e poi, via via, Storia del fantasticare, Le potenze dell’anima, I letterati e lo sciamano (1969), che incontrò notevoli favori negli Stati Uniti, Che cos’è la tradizione (1971), Le meraviglie della natura (1975).
Invitato da Federico Codignola a fondare e dirigere una rivista, dà vita a “Conoscenza religiosa”, uno strumento d’indagine laico, e proprio per questo volto all’esaltazione di percorsi spirituali vivi, liberi, aconfessionali, i cui numeri resteranno memorabili.
L’intento, come scrive egli stesso, è quello di offrire testi “che aiutino a uscire da una cultura che non osa nemmeno affrontare la dialettica dell’illuminismo” e di contribuire a far sì che l’Occidente ritrovi, «nella nozione dell’Essere che ha represso, il momento di stupore, di estasi intellettuale, di libertà e di conoscenza».
Non pochi, in quegli anni (siamo nei Settanta), si domandarono che senso avesse parlare di religiosità in una rivista non confessionale.
Grazia Marchianò così sintetizza e chiarisce perfettamente il laicismo dell’autore: «Zolla non risparmiò occasione per stigmatizzare la distanza tra un’adesione confessionale e l’apertura a una dimensione a un’esperienza del sacro che si pone al di là delle barriere tra i singoli credo. In questo senso è necessario chiarire che Zolla fu e rimase un intellettuale laico. Laico nel senso che il fenomeno religioso, la presenza di un senso del divino impresso come uno stampo nella mente umana, fu indagato come un problema epistemologico prima che esistenziale, e il perno attorno al quale ruotò fu la natura profonda del credere, quali che siano le individuazioni dell’atto di fede nella storia dei processi culturali (i caratteri in corsivo e neretto sono miei)».
I suoi scritti vengono bollati come “elitari”, “pericolosi”, “irrazionalisti”, “inutili” e, comunque (il che per me è un grandissimo merito), non allineati (si pensi alle polemiche provocate, ancora nel 1998, dalla ristampa, con Adelphi, di Che cos’è la tradizione).
Non a caso, mentre le menti sono intorbidate da insulsaggini maoiste, marxiste-leniniste o tardo luckacsiane, Zolla si prodiga per fare conoscere anche in Italia autori anomali come Marius Schneider, Tolkien, Giorgio de Santillana, Abraham Heschel, Seyyed Hossein Nasr, Amadu-Hampâté Bâ, l’ineguagliabile Pavel Florenskij (nel 1974, proprio grazie ad Elémire Zolla, Rusconi pubblicava, in prima edizione mondiale, La colonna e il fondamento della verità). E’ un intellettuale non riconducibile a schemi consuetudinari e, pertanto, incompreso.
«Sono sempre stato alieno –si legge in un appunto autografo– dalle imposizioni marxiste o fasciste, la mia mente ha spaziato senza impedimenti».
Bisogna, poi, rimarcare in lui la convivenza di due istanze parimenti determinanti: quella eretica, propria cioè di chi deliberatamente sceglie di mettersi controcorrente, e quella di una metafisica intesa come identificazione con l’essere come tale, espressione di uno stato unificato della mente e della coscienza.
Intanto, sofferente per una congenita malformazione cardiaca, nel gennaio 1977 Cristina Campo abbandona il corpo terreno lasciando pagine penetranti e di rara perfezione stilistica che usciranno postume con Adelphi (si leggano Gli imperdonabili, La tigre assenza, Sotto falso nome e anche le Lettere a Mita ).
Zolla si trasferisce in via Merulana dove resterà fino al 1991, quando, abbandonato l’insegnamento universitario e assottigliatasi la compagnia dei gatti, si ritirerà con la nuova compagna di vita, Grazia Marchianò, a Montepulciano.
La sua attività non conosce sosta e, attraverso una serie di testi (come, ad esempio, L’androgino, pubblicato direttamente in inglese a Londra nel 1981 e tradotto da noi otto anni più tardi per le edizioni Red o Il sincretismo, pubblicato da Guida nel 1986), elabora e definisce il concetto di sincretismo, vale a dire di un orizzonte filosofico in cui «si annodano e al quale affluiscono tutti quegli insegnamenti e quelle correnti di pensiero che, nonostante le diversità culturali intrinseche a una civiltà planetaria, fanno capo a una soggiacente e unanime metafisica unitaria». In altri termini, il sincretismo è «l’apertura di un pensiero senza pregiudizio sull’unità profonda tra sistemi di pensiero e fedi storicamente e culturalmente separati ma non inconciliabili».
Restìo ad essere assoggettato e immiserito dalle ideologie, Zolla ha profeticamente intravisto l’insussistenza di discrimini e steccati perorando una sorta di oltrepassamento capace di garantire spazio e libertà ad ogni espressione culturale e religiosa e affrancare l’individuo dal cappio di ferrei, rigidi, assolutismi.
 
Francesco Pullia
(da Notizie radicali, 20 luglio 2006)

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