Diario di bordo
Giuliano Ghilotti. Io copio, tu incolli, lei paga 
Storia di una sentenza
16 Agosto 2011
 

PROLOGO

Non v'è chi non sia incappato, o almeno non ne abbia letto, in vicende giudiziarie al limite dell’incredibile.

I non più giovanissimi potranno ricordare la tragica storia di Enzo Tortora, che dalla tribuna televisiva di “Portobello” viene trascinato in gattabuia, avendo deciso che, dietro l’irreprensibile facciata dell’onesto conduttore, si celava il losco trafficante di droga.

Con una qualche ragione, nel processo del secolo, poté rivolgersi ai giudici con un, cito a memoria: Signori Giudici, io sono innocente. Spero tanto lo siate anche voi!”.

La piena assoluzione e riabilitazione, dopo anni di fango e tormento, non lo salvò dalla morte provocata da quella “bomba che mi hanno fatto scoppiare dentro”.

Mestiere difficile quello di essere condannati a sputare sentenze, emanare decreti, redigere verdetti, imporre precetti, disporre restrizioni. Atti spesso ben fatti, a volte misfatti.

Ed a maggior coscienza, c’è chi ci perde la testa.

Ma non nella storia che raccontiamo oggi, eccezione che conferma la regola, nel paese dove l’unica regola certa è l’incertezza della regola.

 

STORIA VECCHIA

Esaminiamo la sentenza n. 118/11 del 12 aprile 2011 del Dr Pietro Paci relativa a causa tra Marinella Gianoncelli e il “Fallimento” Gianoncelli snc e il “Fallimento” dei soci in proprio, in persona del curatore dei fallimenti Marco Cottica, rappresentato dall’avv. Nicola Marchi.

Nella causa, che non esaminiamo nel merito (malgrado i non pochi dubbi che suscita), vi sono tre documenti: il primo di parte Marinella Gianoncelli, che si oppone a precetto di € 14.745,07, seguito dal pignoramento del proprio appartamento); il secondo dell’avv. Nicola Marchi, per conto del curatore fallimentare Dr Marco Cottica, che contesta l’atto; il terzo la sentenza del giudice monocratico Dr Pietro Paci, che ha deciso la causa.

Fin qui tutto nella norma, se non si trattasse di un fallimento che dura da 14 anni, liquidando le noccioline ai creditori, ormai a bocca asciutta da 12 anni e dando fondo (nel vero senso del termine) al patrimonio per spese legali e di procedura infinite; anzi più patrimoni: svuotate le casse della società e dei soci, si svende l’appartamento di Patrizia Gianoncelli (figlia di Franco Gianoncelli) e si pignora la casa di Marinella Gianoncelli (figlia di Peppino Gianoncelli), entrambe estranee al fallimento.

 

QUI SI PIANGE

La sentenza è però davvero singolare: andiamola a vedere.

Non consideriamo le prime sei pagine (riportanti gli estremi del giudizio, le motivazioni della parte attrice, e della parte opponente) e l’ultima (la decisione del giudice). Analizziamo invece le motivazioni della sentenza (da pag. 7: ragioni di fatto e di diritto della decisione).

Delle 22 pagine di motivazioni, 21 pagine e mezza, sono tali e quali il documento dell’avvocato Nicola Marchi, con qualche cambio, sottrazione, sostituzione di vocabolo.

In effetti, candidamente, il giudice dichiara che «...non può che condividere le argomentazioni specificatamente svolte dal procuratore delle parti opposte e dalle quali sarebbe arduo se non impossibile discostarsi, argomentazioni che di seguito si trascrivono».

Ma in fondo (ma proprio in fondo) è il giudice che la scrive: con qualche impalpabile modifica, utile a “personalizzare” la sentenza.

Ad esempio, dove l’avvocato scrive (pag. 10) «questa bizzarra, quanto singolare, affermazione» diventa il giudice che scrive (pag. 7) «questa singolare affermazione».

L’avvocato (pag. 10) «si tratta quindi di affermazioni talmente errate e temerarie...» diventa il giudice (pag. 8) «si tratta quindi di affermazioni azzardate».

L’avvocato (pag. 13) «si tratta, anche in questo caso di affermazioni talmente agiuridiche che non solo non hanno nulla a che fare con l’oggetto della presente causa, ma che contengono errori grossolani nella interpretazione...» diventa il giudice (pag. 9) «si tratta, anche in questo caso di affermazioni talmente infondate che non solo non hanno nulla a che fare con l’oggetto della presente causa, ma che contengono evidenti errori nella interpretazione...».

L’avvocato (pag. 15) «si ribadisce che solamente un creditore...», diventa il giudice (pag. 11) «si osserva che solamente un creditore...».

L’avvocato (pag. 17) «Si tratta di affermazioni macroscopicamente errate e gravemente temerarie» diventa il giudice (pag. 12) «Si tratta di affermazioni decisamente errate».

L’avvocato (pag. 23) «anche questa eccezione è manifestamente infondata e temeraria...», diventa il giudice (pag. 16) «anche questa eccezione è manifestamente infondata...».

L’avvocato (pag. 24) «ci si chiede quindi per quale misteriosissimo motivo...» diventa il giudice (pag. 17) «ci si chiede quindi quale possa essere il motivo...».

Si potrebbe continuare con una decina di altri esempi di identico tenore, che rappresentano tutta la diversificazione tra i due soggetti, ma ne facciamo grazia ai lettori, che potranno continuare il raffronto a loro piacere. Tutto il restante testo del magistrato, delle 21 pagine e mezzo, è copia esatta estratta dal più ampio testo del legale (i due documenti vengono pubblicati integralmente, per la loro estensione, sul web, con una tabella che consente di rilevare e confrontare le parti comuni).

Accade che il giudice si allinei all’avvocato anche nelle aggettivazioni: l’avvocato scrive (pag. 18) «il tentativo, dolosamente temerario, effettuato dalla parte opponente di fare retroagire le norme della riforma fallimentare...» e il giudice finalmente accoglie, al riproporsi dell’aggettivo temerario, tale qualifica nello scritto di “propria produzione”. Ne sarà contento il Marchi, che ama follemente tale vocabolo, destinato 14 volte alla parte avversa («grandemente temerari», «talmente temerarie», «particolare temerarietà», «gravemente temerarie», «dolosamente temerario», «manifestamente temeraria»…).

 

QUI SI RIDE

E ancora: laddove l’avvocato sbanda nell’uso della lingua italiana (pag. 14) «o di chiunque altro organismo del fallimento» e «a titolo di spese legali da sentenze avente il valore di titoli esecutivi», il giudice lo segue sulla cattiva strada con identici errori in identico testo (pag. 10).

Dove l’avvocato erra, per mera dimenticanza di virgola tra i numeri (pag. 22) «articoli 93, 101, 110, 13, 31, 25 147 e 148» anche il giudice similmente erra (pag. 15): «articoli 93, 101, 110, 13, 31, 25 147 e 148»...

Dove l’avvocato inciampa nelle “zeta” (pag. 22) «con la ben diversa autorizazzione data al curatore...», parimenti inciampa il giudice: che siano lontani parenti? O che vivano in simbiosi?

Si sussurra peraltro, a Palazzo di Giustizia, che il magistrato, nel periodo di estensione e deposito della sentenza, fosse in malattia da circa due mesi: fosse vero sarebbe esempio di attaccamento al lavoro e devozione da elogiare.

 

SENTENZA “AL LIMITE”, SPESE “AL LIMITE”!

Per finire segnaliamo che la preziosa elaborazione, per l’apporto di dottrina giuridica testé fornita al nostro esanime paese, ha certo richiesto all’avvocato nostro qualche ora di assemblaggio di dotte citazioni, che costerà a Marinella Gianoncelli, parte soccombente in giudizio, a fronte di una causa del valore di € 14.745 il pagamento di € 8.700 di spese legali, destinata a superare quota € 11.000 con oneri di legge e accessori.

E chissà perché non è stato chiesto il gratuito patrocinio.

La mera redazione di questa sentenza costa esattamente la metà delle spese legali pagate per l’intera causa intentata dal Berlusca e conclusa col rigetto delle richieste di risarcimento danni di 20 milioni di euro (40 miliardi di vecchie lire) a RAI, Luttazzi e Travaglio.

Se Marinella deciderà di non mangiare, bere, abitare e di non compiere alcuna altra azione umana, potrà agevolmente pagare il prezioso lavoro giudiziario con soli 8 mesi del proprio lavoro.

 

Giuliano Ghilotti

(da 'l Gazetin - “Sito canta”, giugno 2011)


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