Oblň cubano
Yoani Sánchez. La teoria della caldaia
19 Luglio 2011
 

Nella maggior parte dei casi i processi sociali hanno un’alchimia imprevedibile. La realtà si arroga il compito di contraddire gli analisti che vorrebbero redigere la formula universale della ribellione o quella della calma civica. A Cuba, per esempio, sono venute meno le previsioni di quasi tutti gli ottimisti e siamo andati ben oltre gli auspici delle menti più eccezionali. Sembra quasi che il nostro paese sia specializzato nell’arte di smentire le previsioni di esperti, stregoni, spiritisti e cartomanti. Da diversi decenni abbiamo distrutto una dopo l’altra le predizioni negative sul nostro futuro e soprattutto la ripetuta profezia di una rivolta popolare. Esperti di cose cubane di ogni tendenza hanno detto, in diverse occasioni, che la situazione sta per esplodere e che è vicino il momento della ribellione per le strade di Cuba. Niente di tutto questo. I marciapiedi sono peni di gente, ma solo per fare la coda in attesa di comprare il pane o le uova, i consolati sono presi d’assalto da persone che chiedono di poter emigrare, mentre i santeros accendono candele votive perché questa calma indefinibile non si interrompa con la violenza. Noi che vorremmo una soluzione pacifica, per il momento siamo contenti che nessuno abbia dovuto assumere il ruolo di vittima sacrificale di fronte alle squadre antisommossa.

Alcuni pensano di possedere la chimerica formula della ribellione che prevede una popolazione strangolata economicamente e spinta a lottare per la sopravvivenza. Sono le persone che vorrebbero rendere l’embargo nordamericano verso l’Isola ancora più duro e tagliare in un colpo solo tutte le rimesse che giungono dall’estero. Secondo questa ipotesi, i cubani, stretti tra il martello delle necessità e l’incudine di un governo autoritario, tenterebbero di rovesciare quest’ultimo. Confesso che solo menzionare questa teoria mi fa ricordare una pessima barzelletta, nella quale un anziano leader durante un’intervista elenca le dimostrazioni di resistenza del suo popolo. L’autocrate racconta che la sua gente ha superato indenne la crisi economica, la mancanza di alimenti, il collasso del razionamento elettrico e l’assenza del trasporto pubblico. Mentre snocciola al giornalista questo rosario di sofferenze, ogni volta conclude la sua storia con la stessa frase: “nonostante tutto il popolo resiste”. Alla fine, il coraggioso reporter lo interrompe per fare una domanda: “Non ha provato con l’arsenico, Comandante?”.

La tesi che deve essere aumentata la pressione economica alla nostra realtà per fare in modo tale che esploda la tensione sociale si sente ripetere - curiosamente - con maggior frequenza tra quelle persone che non abitano nel territorio nazionale. Alcune di quelle voci stanno chiedendo adesso al senato nordamericano che vengano revocati i provvedimenti che agevolano i viaggi familiari in direzione dell’Isola e l’invio degli aiuti monetari approvati da Barack Obama. Vedono questi ponti tesi come ossigeno che entra al governo cubano e credono che servano a prolungare la sua permanenza al potere. Questa tesi si riassume nel motto: “privali di tutto perché reagiscano”. Secondo loro, il cambiamento sarebbe dietro l’angolo soltanto il giorno in cui il rubinetto degli aiuti esterni venisse chiuso completamente. Il problema è che in mezzo a questa teoria, in pratica tutta da provare, resterebbero coinvolti undici milioni di individui e un identico numero di stomaci. Persone che non si sono lanciate a protestare per strada neppure negli anni Novanta quando videro il loro piatto quasi vuoto e i vestiti ridotti a stracci per coprire il corpo. In quel momento di mancanze infinite, la sola “sollevazione” popolare che si verificò, il 5 agosto del 1994, ebbe come obiettivo la richiesta di abbandonare il paese, non quello di cambiare le cose all’interno. Siamo così civicamente timorosi che la caldaia può raggiungere una pressione insopportabile, ma la maggioranza dei cubani preferirebbe rischiare di scappare a bordo di una zattera lanciata nel mare piuttosto che lottare contro un repressore. Non esiste una genetica capace di rendere i popoli coraggiosi o codardi, ma ci sono diversi metodi per smontare la ribellione sociale e quello che ci è toccato in sorte è così efficiente da potersi definire scientifico.

Per questi analisti politici, molto più vicini alla fisica che alle scienze sociali, basterebbe chiudere il flusso delle rimesse e i viaggi dei cubani residenti negli Stati Uniti verso l’Isola, perché cominciasse a muoversi qualcosa nello scenario nazionale. Per assecondare questo desiderio di sperimentare tale congettura, è chiaro che loro metterebbero la teoria, mentre noi dovremmo concedere il corpo del martirio. Nelle more dell’esperimento e mentre non si ottiene nessun risultato, le piscine nelle ville dei potenti in verde oliva non cesserebbero di avere la loro somministrazione di cloro, il collegamento Internet via satellite di diversi figli di papà non perderebbe neppure un kilobyte di potenza e i vestiti di marca di tanti funzionari non smetterebbero di entrare nel paese dalle strade più impensabili. Questo giro di vite non si farebbe sentire sul tavolo della gerarchia ufficiale. Potrebbero governare meglio con le pance piene su un popolo ridotto a pensare in maniera ossessiva soltanto a come trovare ogni giorno qualcosa da mangiare. La miseria - come accade in molti luoghi - servirebbe a produrre un meccanismo di dominazione piuttosto che di disubbidienza.

Per questo motivo nelle ultime settimane ci sentiamo come coniglietti d’India in un esperimento di laboratorio che si decide lontano da noi. Abbiamo la sensazione di essere solo un numero in una cabala tanto semplice quanto pericolosa. Gli artefici della “teoria della caldaia” sperano che esploda, ma non si rendono conto che la sua detonazione potrebbe provocare un ciclo di violenza inarrestabile.

 

Yoani Sánchez

(da The Huffington Post, 18 luglio 2011)

Traduzione di Gordiano Lupi


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