Diario di bordo
Gino Songini. Una gita con Berlusconi 
Dove si racconta di una traversata avventurosa tra le cime delle Alpi Retiche, tra barzellette e strapiombi. Con incubo finale
01 Luglio 2011
 

Finalmente il macchinone blindato arrivò sulla piazza del paese, senza altre auto al seguito. L'illustre personaggio aveva scelto di viaggiare in incognito per compiere finalmente quella grande camminata tra le Alpi Retiche per la quale si stava preparando da tempo. Si trattava di percorrere il famoso “sentiero Roma”, una marcia di due o tre giorni da un rifugio all'altro a una quota tra i duemilacinquecento e i tremila metri, camminando, come dice la canzone, “tra le rocce e tra i ghiacciai”. Berlusconi si era allenato con cura per affrontare l'impegnativo percorso, e a tale scopo si era recato nei fine settimana in Val d'Aosta, dove le guide locali lo avevano accompagnato in lunghe scarpinate intorno al massiccio del Monte Bianco. Nessun problema di allenamento dunque, nonostante l'età avanzata e le notti di Arcore movimentate dal bunga bunga.

Io rimanevo scettico e non ero affatto convinto che quell'uomo anziano e sovrappeso riuscisse a effettuare un percorso così duro, che oltretutto presenta anche qualche passaggio piuttosto pericoloso. Ma perché il Comune aveva designato proprio me come accompagnatore? Non c'erano le guide, locali e non, che avrebbero ben potuto assolvere a tale compito?

Devi andare tu, per diverse ragioni – mi aveva detto il Sindaco. – Intanto conosci il percorso quanto le guide e poi sei in grado di rappresentare la Valle nel migliore dei modi, dal momento che ne conosci le caratteristiche ambientali, storiche e geografiche. Tu tra queste montagne sei nato e cresciuto.

Su quest'ultimo punto non c'era da obiettare, mentre sul resto della sviolinata si poteva discutere.

Guarda Sindaco, il Popi Miotti, il Merizzi Jacopo e il Rampichino conoscono la Valle metro per metro e sono guide alpine di assoluto valore. Manda uno di loro ad accompagnare il Presidente del Consiglio. Io non me la sento.

Mi dispiace, ma ho già dato il tuo nome, quindi il discorso è chiuso. Il Presidente vuole viaggiare in incognito, accompagnato da una sola persona, e quella persona sei tu. Sono certo che non ci farai fare brutta figura.

Di fronte a tali perentorie affermazioni non me la sentii di discutere ancora.

Quel giorno dunque Berlusconi arrivò, salutò velocemente il Sindaco e i pochi presenti sulla piazza e senza perdere tempo ordinò all'autista di avviarsi nella direzione indicata dall'accompagnatore-guida (cioè il sottoscritto). Con la potente Audi blindata raggiungemmo Valbiore, dove la grande frana interrompe da decenni la strada, e di lì proseguimmo a piedi verso Predarossa. Con mia grande sorpresa vidi che Berlusconi, nonostante l'età e il fisico sovrappeso, camminava spedito, soltanto lamentandosi di tanto in tanto delle asperità del sentiero che in effetti appariva disastrato in molti punti. Da parte mia pensavo che mi era toccato un compito assai sgradevole (dico la verità: avrei accompagnato più volentieri Monica Bellucci), vista la mia antipatia per il personaggio. Un'antipatia di vecchia data, nota e dichiarata urbi et orbi, che precede qualsiasi valutazione politica o ideologica, un'antipatia ad personam consolidata e accresciuta nel tempo e che ha la sua origine, almeno così penso, in una totale incompatibilità di carattere tra me e l'uomo di Arcore. Ben presto mi accorsi che la cosa era reciproca perché Berlusconi non tardò a manifestare insofferenza nei miei confronti. Sia che parlassi sia che tacessi capivo di non andargli proprio a genio, almeno quanto lui non andava a genio a me. Questione di pelle, si suol dire. Tuttavia si trattava, da parte mia, di fare buon viso a cattivo gioco, dal momento che mi ero assunto la responsabilità di guidarlo attraverso le montagne della Valle, e poi, pensavo, un ospite va sempre trattato con rispetto e cortesia. E lui da parte sua mascherava egregiamente il disagio raccontandomi ogni tanto qualcuna delle sue barzellette che più che procurarmi buonumore producevano in me rabbia e dispetto. Ma perché quell'uomo raccontava tante cavolate? Oltretutto a noi valligiani le barzellette non piacciono un granché anche perché la nostra tradizione orale più autentica, nata d'inverno intorno ai camini in pietra delle vecchie case e d'estate tra i muri delle baite disperse sulle montagne è fatta di aneddoti, di memorie, di racconti d'amore e di dolore, di storie allegre e di storie paurose, ma non di barzellette.

Dico questo per rimarcare quanto mi desse fastidio quell'uomo anziano, per di più capo del Governo di uno paese tra i più importanti d'Europa, che invece di avvertire il peso delle sue responsabilità o almeno di ammirare il paesaggio che gli si apriva davanti, si divertiva a raccontare le sue storielle, alcune anche piuttosto indecorose per non dire indecenti.

Il mio ruolo di accompagnatore mi impediva in ogni caso manifestazioni di insofferenza o parole meno che garbate.

Gino, abbi pazienza, – dicevo a me stesso – ricorda che l'ospite va trattato con rispetto e cortesia.

Tuttavia sentivo che la rabbia cresceva dentro di me. E poi mi infastidì non poco la sua inattesa richiesta, fatta in maniera apparentemente cortese ma sostanzialmente insolente, di cambiare percorso e di aggirare la montagna dalla parte opposta rispetto a quella verso la quale eravamo diretti. Mi rassegnai ad acconsentire non senza avvisarlo che da quella parte avremmo incontrato difficoltà impreviste e forse saremmo andati incontro a spiacevoli sorprese. Niente da fare: bisognava fare come voleva lui. Non potevo dire di no a un Presidente del Consiglio, ma a quel punto mi accorsi che l'antipatia si stava trasformando in qualcosa di peggio, in un sentimento tenebroso di avversione che fino a quel momento non avevo provato ma che saliva dentro di me come una nebbia che mi offuscava la vista e mi impediva di vedere lo splendore della montagna.

Ormai avevamo raggiunto le baite abbandonate della Piezza e fu lì che l'ometto di Arcore attaccò con l'ennesima barzelletta.

Lascialo dire, – dicevo a me stesso – anche questa Via Crucis finirà. Tra qualche giorno avrai dimenticato tutto.

Camminando tra le sterpaglie eravamo giunti sopra le pareti che dalla Piezza cadono perpendicolari fino a Visido di Dentro, pareti sulle quali Bartolomeo Sertori, la famosa guida alpina di Filorera, andava e veniva ai suoi tempi sospeso nel vuoto come un aquilone. Di lassù una volta un asino, che si era spinto troppo avanti per brucare un ciuffo di erba tormentina, era precipitato nell'abisso volando nell'aria come volerebbe un tavolo caduto da un grattacielo. La povera bestia si era trovata nel vuoto con la schiena in basso e le zampe rivolte verso l'altro e le donne che falciavano l'erba sulle cenge vicine l'avevano visto precipitare sfiorando appena le rocce della grande parete. Volando nel cielo della Valle il povero asino aveva ragliato sonoramente – Hi-oh!, hi-ho!, hi-oh! – prima di sfracellarsi in basso, sui massi di Visido di Dentro. Forse quei ragli erano il suo saluto alla vita che stava lasciando.

Dicevo che eravamo giunti sopra le pareti dove un tempo andava e veniva a piedi nudi Bartolomeo Sertori e il Berlusca stava appunto raccontando la sua centesima barzelletta. Si trattava di una storiella che sulla bocca di quel vecchio stonava come una campana rotta.

Basta, – dissi tra me – è il momento di rompere gli indugi. Questo è il punto migliore per buttarlo di sotto e mettere fine a questo incubo.

Ma un'altra voce si fece subito sentire dentro di me: – Ricorda che tradire l'ospite è l'azione più indegna che un uomo possa compiere. Se sei un uomo non puoi fare questo.

Tanto bastò per ridurmi a più miti consigli. Ricordai che anche Dante aveva posto i traditori dell'ospite sul fondo dell'inferno, proprio vicino al principe delle tenebre. No, non avrei mai potuto compiere un simile delitto.

Camminavamo dunque proprio sopra lo strapiombo. Un'aria fredda saliva dal basso e ci avvolgeva come un turbine. Sta scritto nella Bibbia: l'abisso chiama l'abisso. Improvvisamente, senza che ne avessi intuito le intenzioni, il Berlusca mi diede una spinta violenta per farmi cadere nel baratro. Istintivamente mi afferrai a lui trascinandolo con me nel precipizio. E mentre andavamo giù in quel vuoto che non finiva mai, pensavo che non mi dispiaceva tanto morire quanto morire in sua compagnia. Così abbandonai la presa sforzandomi di andare a cadere lontano da lui che invece era finito proprio nel punto dove si era una volta sfracellato l'asino troppo goloso di erba tormentina. Se non altro avevo la soddisfazione di morire un po' distante da quell'indisponente narratore di barzellette e, credetemi, non era una soddisfazione da poco.

Allorché andai a mia volta a sbattere contro le rocce mi svegliai di colpo, non senza dare un involontario calcio a mia moglie che dormiva tranquilla al mio fianco.

Che c'è? – mi disse svegliandosi.

Niente, stavo sognando una bella donna – le dissi tanto per dire qualcosa.

E dai, sei sempre il solito – rispose lei sorridendo (ma non più di tanto).


Gino Songini

(da 'l Gazetin, maggio 2011)


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