Diario di bordo
Gianfranco Spadaccia. Bin Laden tra giustizia e vendetta
07 Maggio 2011
 

Non credo che abbia senso inseguire polemiche secondarie sulla fine di Bin Laden come certamente sono quelle ispirate dal negazionismo o dal complottismo. Servono solo ad eludere la questione centrale che dovrebbe stare invece a cuore ai democratici di tutto il mondo e in particolare a coloro che si battono per i diritti umani e per l’affermazione del diritto anche sulla scena della politica internazionale.

Se fosse vero (e non credo possa essere escluso pregiudizialmente) che Osama Bin Laden è stato preso e ucciso quando era ormai inoffensivo, non credo che la questione potrebbe essere frettolosamente liquidata in maniera banale con espressioni tipo “giustizia è stata fatta” o con inaccettabili considerazioni di opportunità. Certo che se la semplice esposizione del suo cadavere pone tanti problemi alla Amministrazione americana, è facile immaginarsi quanti ne avrebbero creati l’immagine di Bin Laden vivo e soprattutto la gestione della sua prigionia e del suo processo.

E tuttavia se le regole d’ingaggio fossero state, come è probabile, “catturarlo vivo o morto” (che può significare “meglio morto che vivo”), la democrazia statunitense avrebbe scelto una soluzione non all’altezza delle sue tradizioni e dei suoi ideali, una soluzione da giustizia sommaria e terroristica che l’abbasserebbe a livello dei terroristi fanatici e intolleranti, che giustamente combatte e vuole sconfiggere.

Sappiamo di essere debitori della democrazia americana ma proprio per questo riteniamo di dover ribadire che fondamentalismo e terrorismo si possono sconfiggere solo contrapponendo un’idea più alta di civiltà, fondata sul rispetto dell’altro (per quanto perverso e mostruoso possa apparire) e su una concezione che fondi l’uso della forza sul diritto e non subordini il diritto alla forza. Il grave limite della democrazia americana è stato quello di non aver firmato e ratificato il Trattato internazionale per l’instaurazione di una Corte di Giustizia sovranazionale per i crimini contro l’umanità. Questo venire meno della fiducia nel diritto, con la giustificazione miope di mettere al riparo le proprie truppe (e i propri contractor privati) da possibili incriminazioni per i crimini commessi in zona di guerra, è una cortina di immunità che indebolisce e oscura le ragioni ideali della giusta lotta al terrorismo. Purtroppo in questo esiste una continuità americana: dalla firma solo simbolica di Clinton apposta sotto il trattato come ultimo atto della sua presidenza, al successivo annullamento di Bush, da cui Obama non si è differenziato.

Proprio perché amici della democrazia americana dobbiamo dire basta a questa politica. Dobbiamo dire alla Amministrazione di Washington e al Presidente Obama che non bisogna avere paura del diritto internazionale e dei processi che questo può intentare contro chi si rende responsabile di crimini contro l’umanità, come è avvenuto con Milosevic e per i criminali di guerra di Bosnia o Croazia, per quelli del Ruanda. Non solo Bin Laden ma il mondo intero avrebbe avuto il diritto al suo processo: un processo vero e non un processo farsa come quello di Saddam Hussein. Il processo che speriamo possa essere presto celebrato contro l’oppressore del popolo libico e contro il responsabile del genocidio del Darfour davanti all’Alta corte di Giustizia per i crimini commessi contro l’umanità, a cui entrambi sono stati deferiti dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Ma per farlo occorrerebbe una diversa Italia e soprattutto una diversa Europa.

 

Gianfranco Spadaccia

(da Notizie Radicali, 6 maggio 2011)


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