L'ultimo dei milanesi
Englishman in Milan 
di Mauro Raimondi
19 Aprile 2011
 

I più famosi sono Shelley e Byron. Oltre, ovviamente, a Dickens. Ma sono molti i viaggiatori inglesi che hanno lasciato una testimonianza su Milano. Così, dopo le impressioni di alcuni scrittori statunitensi, continuiamo la nostra rassegna sull’immagine della città nel tempo dedicandoci agli anglosassoni, da sempre protagonisti di quel Grand Tour che vedeva Milano come tappa di passaggio dal nord al sud dell’Italia.

Per primo, citiamo Thomas Coryat, comic attendant alla corte del principe Enrico Stuart. È il 1608 quando il Nostro sbarca in Europa per un viaggio a piedi (!) che lo porta anche a Milano, trattata in un lungo capitolo delle sue Crudezze. Nel testo troviamo leggende (a partire dalla scrofa di Belloveso: «Forse immaginò che le ispide setole potessero presagire forza e possanza nei suoi sudditi, e la lana ricchezza di mezzi necessari a vestire i loro corpi») e luoghi, da S. Ambrogio (con il serpente di bronzo) a Palazzo Marino e al Duomo, sul quale l’inglese sale, restando estasiato: «Il territorio della Lombardia, che contemplai da questa torre, era ai miei occhi una vista tanto dilettevole, che mi pareva di vedere proprio i Campi Elisi. È infatti la più bella pianura che io abbia mai visto, più adatta a dimora degli dèi immortali che dei mortali».

Impossibile, oggi, scrivere le stesse cose. Ma evitiamo commenti nostalgici e seguiamo Coryat al Castello («C’è un odio così implacabile tra i milanesi e gli spagnoli, che né i milanesi vanno mai nella cittadella né gli spagnoli in città, se non alla sera»), dove viene minacciato da uno spagnolo ma riceve anche un’immagine lieve e poetica: «La cittadella è circondata da un fossato con acqua corrente e molti altri deliziosi ruscelli. Sopra uno di questi vi sono due mulini, e vicino mi apparve una dolce visione amorosa, una donna nuda dalla cintola in su, intenta a lavorare seduta».

Restando nel XVII secolo, un altro importante resoconto ci viene da John Evelyn. Economista e grande erudito, nel suo Diario (un classico della letteratura da viaggio) pure lui paragona la nostra pianura al Paradiso. Ma all’ingresso in città, la meraviglia viene congelata dalle paura: «Qualcuno della nostra comitiva (per tema dell’Inquisizione) pensò di buttar via libri e carte dei protestanti (che qui chiamano eretici). Ci perquisirono per cercare merce proibita, ma trovando che eravamo soltanto gentiluomini viaggiatori, dietro piccola ricompensa, ci lasciarono andare». Nei giorni successivi segue la visita all’immancabile Duomo e agli altri luoghi tipici dell’epoca come la Ca’ Granda (l’Ospedale Maggiore, attuale Università agli Studi), il convento delle Grazie, l’Ambrosiana, il Castello e S. Ambrogio. Un tour ricco ma dal finale tragico, perché un cavaliero scozzese, che ha invitato l’Evelyn ad un banchetto per mostrargli i suoi cavalli, cade procurandosi un trauma così forte da restarne ucciso.

Passando al ‘700, impossibile omettere Joseph Addison, un giornalista ante litteram che nel suo” Remarks on several parts of Italy ci regala un’attenta descrizione di molti monumenti. Deluso dal Duomo («La facciata non può certo dirsi compiuta, e l’interno è così ammantato di polvere e annerito dal fumo delle lampade che né i marmi, né gli argenti, fan bella mostra di sé»), Addison visita, tra gli altri, il Museo Settala (uno dei fulcri dell’attuale Museo di Scienze Naturali) e Villa Simonetta, dove «facemmo fuoco con una pistola e sentimmo ripercuotersi lo spazio per più di cinquanta volta». E il suo dettagliato racconto ci permette anche di incontrare un luogo di manzoniana memoria: «Rimasi alquanto meravigliato nel leggere un’iscrizione relativa ad un barbiere che aveva cospirato con il commissario della sanità per avvelenare i concittadini. Nel punto in cui sorgeva la sua casa c’è ora uno spazio vuoto, nel mezzo del quale si leva un pilastro recante la scritta Colonna Infame».

Un altro giudizio originale, ma anche critico, sulla Milano dei Lumi, lo possiamo leggere nelle pagine del compositore Charles Burney, uno dei fondatori della Storiografia musicale. Il quale, nel suo The Present State of Music in France and Italy, ci appare subito maldisposto verso il nostro Paese, che lo accoglie con gabbie di ferro contenenti teschi di assassini giustiziati. Alberghi e strade, inoltre, sono giudicati pessimi nonostante «il soggiorno di inglesi e di altri stranieri nobili costituisce una delle maggiori fonti di ricchezza» per l’Italia. Una considerazione sul turismo in generale, questa, che potrebbe essere riproposta anche ai nostri tempi. E che ne anticipa un'altra, assolutamente falsa, che però si legherà a Milano, definita città che «non presenta nulla di notevole». Gli scomparsi Teatro Ducale e Lazzaretto compaiono poi nel suo racconto, in cui fa capolino anche il Corso Venezia, allora centro dello “struscio” milanese: «Le gens comme il faut sfoggiavano i loro abiti migliori e le più superbe carrozze. Si sarebbe detto che tutta la città si fosse riunita qui». E se è da rimarcare il riferimento all’eleganza dei milanesi (la Milano della moda l’hanno inventata i nostri antenati), non può sfuggire l’ironia sul farsi vedere dei borghesi, con cui concordiamo pienamente.

L’Ottocento vede giungere a Milano gli inglesi più celebri. L’immortale Byron, infatti, arriva nel 1816, e il suo parere sulla città è assolutamente positivo («Milano è notevole, la Cattedrale superba»). Nel suo soggiorno, il “Demone” visita l’Ambrosiana (dove resta affascinato dalle lettere “amatorie” fra Lucrezia Borgia e il Cardinal Bembo), la neonata Pinacoteca di Brera e la Scala («È praticamente l’unico centro della vita sociale: i milanesi hanno i loro palchi privati, dove giocano a carte, chiacchierano e fanno un po’ di tutto»), conoscendo anche personaggi importanti come Vincenzo Monti (antipatico ai più).

Shelley, invece, è a Milano dal 6 al 29 aprile 1818. E pure lui viene conquistato dalla Scala e dalla Cattedrale («L’effetto del Duomo al chiaro di luna, quando le stelle si raccolgono attorno alle sue sculture, va al di là di tutto quanto ritenevo che l’architettura potesse produrre»), dove si ritira a leggere Dante. Un’immagine indimenticabile, quella di Shelley con in mano la Divina Commedia nell’abside del Duomo. Un altro, illustre fantasma, che circola nella nostra Cattedrale: impossibile, d’ora in poi, entrarvi senza pensare a lui e a tutti quelli che abbiamo citato e citeremo.

L’emozione, però, scema di fronte ad altre considerazioni dell’inglese che si scaglia pesantemente sui milanesi: «La gente qui appare ben miserabile nel corpo e nell’anima. Gli uomini possono a stento definirsi tali, sembrano una tribù di schiavi stupidi e avvizziti e, da quando ho varcato le Alpi, non mi pare di aver scorto nel loro volto un barlume di intelligenza». Una critica che il poeta estende anche alle donne, da altri autori, al contrario, assai apprezzate: «Il loro atteggiamento rivela un misto di civetteria e di puritanesimo che ricorda le peggiori caratteristiche delle donne inglesi».

Forse Shelley si era svegliato di cattivo umore, quel giorno. Capita. E comunque, a riabilitare il popolo milanese, ci pensa John Ruskin che, nel 1845, scrive al padre: «A Milano non vieni infastidito o interrotto di continuo. Le donne portano il velo nero e sono acconciate con grazia; gli uomini sono onesti e affaccendati». Il (futuro) grande conoscitore d’arte loda poi il Duomo («È davvero l’opera più maestosa del mondo») e, pure lui, il panorama che si godeva dal suo tetto («Ho ammirato una veduta del Monte Rosa che mi ha ristorato»), riportando i commenti su binari più tradizionali.

Il nostro breve excursus sta per chiudersi, e per farlo degnamente ci rivolgiamo a Charles Dickens, che entra in città il 17 novembre 1844, dopo un viaggio difficile: «Proseguimmo in mezzo ad altro fango, finché entrammo nelle vie lastricate di Milano. Qui la nebbia era così fitta che la guglia del famoso Duomo poteva anche essere a Bombay, per quel che se ne vedeva in quel momento». Chissà quale era, dei sette tipi di nebbia, quella che provocò nel Nostro un tale spaesamento. Una volta in Duomo («magnifica costruzione»), Dickens cerca la tomba di Carlo Borromeo, al quale dedica un sentito elogio per la sua riforma di una Chiesa corrotta. Un’elegia che si arresta, però, dentro la cripta: «Un argano solleva lentamente la parte anteriore dell’altare e, dentro, in un fantasmagorico scintillio di ori e di argenti, si vede, attraverso l’alabastro, una mummia umana rinsecchita che ispira maggiore pietà che se giacesse sopra una letamaio. Non vi è raggio di luce rinchiuso in tutto quel balenìo di gioielli che non sembri beffare i buchi polverosi dove una volta erano gli occhi. Ogni filo di seta delle ricche vesti sembra solo un preparativo di vermi che si propagano nei sepolcri».

Dopo questa lugubre visita, Dickens si sposta al Cenacolo, nel «quale gli intelligenti frati domenicani hanno aperto una porta, per agevolare il servizio all’ora dei pasti». Un’ironia, probabilmente involontaria, a cui seguono impressioni assolutamente condivisibili: «Sull’Ultima Cena vorrei semplicemente osservare che dal punto di vista della bella composizione c’è, a Milano, una pittura magnifica; che non c’è se si guarda alla attuale colorazione o all’attuale espressione di ogni singola faccia. A parte i danni che ha subito per l’umidità, il tempo e l’incuria, è stata talmente ritoccata e ridipinta, e così grossolanamente, che molte teste, ora, sono davvero altrettante deformità. Questo è talmente acclamato che non starei a ripeterlo se non mi fosse capitato di osservare davanti al quadro un signore inglese che si sforzava ad ogni costo di cadere in quelle che io chiamerei leggere convulsioni, per certi minuti particolari di espressione che non c’erano più».

Nel resto del racconto dello scrittore ci appaiono poi Corso Venezia («I nobili milanesi lo percorrono su e giù in carrozza, e che piuttosto di non far ciò morirebbero mezzi di fame in casa») e la Scala, confermandoli come i luoghi preferiti della «geografia monumentale» di Milano dell’800.

Il congedo, invece, costituisce un classico nei ricordi dei viaggiatori stranieri in città: «Presto Milano rimase dietro di noi; e prima che la statua dorata in cima alla guglia della cattedrale si perdesse nell’azzurro del cielo, le Alpi, in una meravigliosa confusione di creste e di picchi maestosi, torreggiavano sul nostro cammino». Addio, mister Dickens. Saludi

 

 

Testi citati:

T. CORYAT, “Coryat’s Crudities Hastily Gobbled up in Five Months Travels…” (1611), da Crudezze, trad. di F. Marenco, Longanesi 1975

J. EVELYN, “The diary of John Evelyn” (1818), da Milano e l’Europa. Viaggiatori e memorie 1594-1986, a cura di A. Brilli, B. Popolare dell’Etruria e del Lazio 1995

J. ADDISON, “Remarks on several parts of Italy” (1705), da Milano e l’Europa. Viaggiatori e memorie 1594-1986, a cura di A. Brilli, B. Popolare dell’Etruria e del Lazio 1995

C. BURNEY, “The Present State of Music in France and Italy” (1771), da Viaggio Musicale in Italia, a cura di E. Fubini, EDT 1979

G. G. BYRON, da Lettere dall’Italia, a cura di Claude Béguin, Serra e Riva Editori 1983

P. B. SHELLEY, da Morire in Italia. Lettere 1818-1822, intro. di F. Marenco, Rosellina Archinto 1992

J. RUSKIN, “The diaries of John Ruskin, Ruskin in Italy: letters to his parents” (1845), da Viaggio in Italia, a cura di A. Brilli, Mondadori 2002

C. DICKENS (1846), da Impressioni italiane 1844/1845, Biblioteca del Vascello 1989


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