Lo scaffale di Tellus
Marco Cipollini, Autoantologiaweb.
Marco Cipollini nel suo studio
Marco Cipollini nel suo studio 
02 Luglio 2006
 

Sia Tellus con le Autoantologie comprese nel volume, (e poi pubblicate nelle edizioni Tellus, vedi Gilberto Isella, Autoantologia, 2006;) sia Tellusfolio con l’Autoantologiaweb inaugurata da Marco Cipollini, permettono ai poeti italiani di proporre proprie scelte antologiche (eventualmente anche con brevi commenti) per ricavarne brevi profili e mettere a disposizione dei lettori testi altrimenti di difficile reperimento. Per gli studiosi poi, che indagano con la critica letteraria, la poesia contemporanea, questa sezione sarà un utile appiglio bibliografico. Marco Cipollini per le scelte biografiche rimanda al suo sito: www.webalice.it/marcocipollini. E altre notizie sull’autore si trovano in Arte e dintorni.

 

 

Empoli, 21 giugno 2006

 

Caro Claudio, tu mi hai aperto una porta e io vi sono irrotto… Mi avevi detto di inserire una decina di mie poesie per fornire un mio profilo. Ma che vuoi profilare? I versi che seguono, già tanti, non sono nemmeno un cinquecentesimo di quanto ho scritto e, come vedrai, ho dovuto tralasciare “Sirene”. Potresti accennare al poema dicendo che già ne riporti il primo canto nel tuo sito. Ho lasciato anche L’origine, Ninfale, ecc. ecc., e ancora ecc. ecc. Ho dato un po’ più di spazio a Rose d’eros, un libro ormai irraggiungibile, perché fu il mio esordio ed è pinato di ricordi. Non mi chiedere fotografie: ne hai già una. Altro materiale lo puoi cavare dal mio sito. Con affetto, Marco

 

 

 

Da Rose d’eros, Ed. Vallecchi, Firenze 1981.

 

 

Da INTROITO

 

                             I

 

Mai nel giardino dell’uomo possiate appassire,

ma sempre odoriate a chi un ignoto bene chiusi

urge i suoi giorni, e non vive e vorrebbe, e non muore e

vorrebbe, grazia misericorde in lui stillando

da paradisi altissimi, nuova tra le lacrime

bellezza alla pietà si arcobaleni, voi gemmee

piaghe, in bocca gli mutiate il sapore del pane.

 

                             II

 

Carte dimenticate anche per secoli siate,

purché un giorno, per caso, cada su voi uno sguardo,

e una mano si degni della polvere e sfogli

antiche sfogli passioni, ed un ciglio ne tremi,

un brusio come d’api dal suo cuore risorga.

 

 

Da GIORNI DELLA VITA DI MEZZO

 

22-1-73

Che sia contato proprio niente per te?

tra dieci trent’anni, già quasi una vecchia

se vivi, con la granata in mano, férmati

come a veder lontano un istante, rada

ravvìati una ciocca (fu ebano) e un sospiro

di rose ti risorga, un guizzo di sole

nei giorni tra la soglia e l’acquaio,

che or nella lieta vita febbre affilata

fosti, questa deserta notte, in qualcuno,

più neanche nome in te, turbato bisbìglio…

 

24,25-1-73

E il tempo, il tempo! Che farò a quei giorni?

Graffiata la fronte con unghie infette

gli anni, meno saprò anch’io sorridere,

sarò un uomo sempre stato nessuno,

allora, così ora, uno scontento…

Ma mia una cicatrice nella mente

rifinita da fisima di te,

grazia che avesti inusuale ai giorni

questi, questa che a te perso mi spinge

fingendoti, casta sera d’inverno…

 

 

Da CANTO CARNALE

 

                            Tu mihi sola places

                                            Properzio                                 

 

                             I

 

E senza te questi vivere giorni perséguiti

fisima non del delirio inappaga la piaga,

fulgida t’iniettasti in cupida cruna e rito

non v’è a parole a scioglierti dai nodi invisibili

sempre che straziano, viva ma gli occhi varcasti…

 

Ma voi non la vedete, io sì, lo vedo, muto

chiama alla mia notte perenne, oscuro risorge

il bello e gioioso animale, il cuore dilania

radioso di dolore, in un gorgóglio di luce

esultare io lo sento, naufraga nei silenzi…

 

Mai, ma più avversa, dà tregua, si abbevera avida

ai torrenti di sangue, questo il muto martirio,

sempre prederà me, inerme ella solo sorrida,

e lo spasimo schietto non lo tempera il tempo

e non la grazia, né una grazia, rosa d’inverno…

 

Su in luminoso sussurro sdipana il tuo cuore

una eco a filare nel labirinto effimero

luccichii in fondo al buio, scava abissi un sospiro

tenui eterni, perché dove io sarò, tu sarai

(mi piaci tu sola), sempre in te muoio, e risorgo.

 

 

               ELEGIA SECONDA

 

                    Io non nacqui ananasso, ma cipolla

                                                Luigi Settembrini

 

Mi chiamarono a sé bambinetto, mi tirarono

   su le Muse, aurea istillandomi l’arte;

da allora le amai, con favole mi trastullavano;

   poi, crescendo, ben ne conobbi l’affetto

severo, esclusivo, terribile il muto biasimo

   poi che spartire altrui io osando il mio cuore.

E ora che il tempo è cinerea una veglia tra i sogni,

   parlo con lingue di fuoco, ora è il tempo

del senno di poi, vano a ciò che fu o che sarà;

   così, qui solo, mi ritrovo con voi

a smemorarmi degli anni una fola consunta,

   spentesi stelle, sole che mai non sórse.

Figlio mi dico vostro, a voi obbedisco, e poi figlio

   di questo decrepito evo; ma tale,

di mia madre e a mio padre, vollemi il novennale

   amor loro, or è ventott’anni e son vecchi,

a essi il primo pensiero andrà sempre, sempre gli anni

   rivedo che mi hanno essi dato in silenzio;

sì, ché la vita a me cara e straziante essi diedero,

   un’unica vita a me solo; qua nacqui,

d’Arno tra i crudi colli; così, schietta e vivente,

   la lingua atta ad opere belle e perenni

coi mali del vivere anche una sorte dettemi,

   tale bene non tutti lo hanno, caro

come me stesso; senza, di mio che mai avrei?

[…]

   Mai non lasciatemi, a me restate solo

mozze voi dolci voci dalla grata di tenebre,

   null’altro, nel vasto silenzio d’istanti

tra un vacuo eterno e l’altro; altra voce non parla

   a me di un dio senza maschera, voi prego:

io sempre vissi disperato, morirò certo

   disperato, all’orlo dei miei giorni ultimi.

 

 

Da ELEGIA SETTIMA

 

[…]

Sì che l’anima, avida e stanca, seduta

     sulle soglie carnali,

tra il giogo e l’esilio, più si morde le mani,

     e una mano non ha

sulla spalla, nessuno cui dir sull’abisso

     luminoso degli occhi:

per te vissi, di più nulla potrei, di più

     non è anche morire,

ma morirsi sarebbe alle tenebre tenere

     te fra queste mie braccia

appassionata ogni avessimo bene avidi

     e dolce pace e stessero

le stelle come eterne e l’alba immemorabile

     sempre dimenticassimo,

e se questa l’ultima fosse delle notti

     del mondo, io morirei”.

 

 

 

Da Emblemi, Quaderni di Erba d’Arno, Fucecchio (Fi) 1990.

 

 

INNO ALLA SIGNORA DELLE NOTTI

 

                                      A Carlo Betocchi, che amò

                                      e difese questa poesia.

 

Signora sulla guglia ardua dei giorni

    vertigine dei giorni

    non di pietra su pietra

    ma voce viva ergersi

    a te in consumazione,

    qua l’ombra tua, sul fango.

 

Mite o Signora tra stellari ellissi

    di nullità il tuo nimbo,

    soffio sorgi aurorale,

    zenitale tu abbacini

    lo gnomone sul muro,

    la penna al foglio, ferma.

 

Tu il cui volto è diamante e fissa il sole

    mai non fissa la morte,

    fasciata in carne e in ansia

    d’ali è l’anima ossessa

    a paradisi altissimi

    ai tuoi occhi oh radiosa,

 

folle s’inarca a te, Signora, in vertici

   spalancarsi di canto

    icaria a te, precipite

    (piovono piume nomi)

    arcobalena abissi…

    Piume a un mare silenzio.

 

E alisei tu sospiri ai miei orizzonti:

    l’albero d’ossa abbatti

    astioso al vento d’anni,

    ramificata pena,

    il fogliame carnale

    più stormisce autunnale.

 

Come faro gli abissi silenzioso

    consola, ai giorni sola,

     è il tuo sole improvviso

    sorriso che gli urlanti

    al vuoto d’astri cielo

    dolce squarcia marosi,

 

tu polena o Signora a questa nave

    che tra scogliere grave

    s’improra, più i frangenti

    tormentosi martellan

    melodiosi di morte:

    sopra non si ribellano

 

ebbri i sensi d’orrore, esausti sensi

    giù nel gurgite, e gli occhi

    rotolano perlacei,

    da corpi che medusano

    tra ciechi mostri, avidi

    a duomi buii… Sul fango.

 

E da scogli smaniose mani sforzale,

    polipi più al dolore,

    gòrdio nodo di brame,

    i miei polmoni ammaina

    gonfi di solitudine,

    le morgane le sirti

 

misericorde un tuo gesto abolisca,

    piega i miei piedi a te,

    li trascinai ai deserti

    processione di niente,

    labirinto di pece

    tenacemente a niente.

 

(Tace il mare, la furia: appari? Tace

    il diapason dei polsi,

    creduli, melodiosi,

    violenti, più inermi

    che un sognare sull’alba,

    farsi, astri rari, alba…)

 

Signora, sola inaurori i miei ruderi,

    cuore come una torre

    tetragona, crollata…

    Troppo tenne là ai venti,

    troppo, ché la chiamava

    la tua fanciulla.

 

 

 

Da Carmi profani, ed. Erba D’Arno Libri, Fucecchio (Fi) 1993.

(Comprende nove carmi.)

 

 

          PARDES RIMMONIM

 

                        E presto io non sarò più…

                        Oh potessi rivederti

                        per una volta ancora,

                        come ricordo per l’aldilà

                        di questa vita!…

                                         Izumi Shikibu

 

                      Oh cieche ombre, che avesti

                      di lacrimosa luce privilegio!

                                         Lorenzo De’ Medici

 

                           I

 

In stille di fredda tristezza l’oscuro bosco

si dirada là al fondo come a un lume brumoso…

Vieni, è quella la casa cui anelasti sempre:

nella penombra l’umido splendore degli occhi

di lei da sempre attende che cigoli il cancello,

di sentire i tuoi passi sul vialetto di ghiaia…

Entra, già qui vivesti… Le cose che rivedi,

la porta che si schiude sul focolare acceso,

il cane là adagiato, la poltrona col libro,

vi restarono intatte… Che mai ti spinse a errare?

Ella solleva il capo dai ferri arguti e il riso

è al tuo cuore fuggiasco nido di madreperla,

un cantuccio scavato fra disastri di stelle…

(Ti ricordi la Voce? La marea degli affanni

da sponde carnali ritraesi, ti ergi su illesa

riva che, ormai disperata, affiorò all’orizzonte…

Questa terra è la vita, dei rottami dovunque

una reggia farete provvisoria per sempre…

Naufragare occorreva per destarsi nel sogno…

Altra Ilio non v’era, bastarono ai cantori

i peripli di Ulisse perpetui al fil di fumo,

e quanto fu cercato da lui, né altri ebbe,

solo brami, né Calipso, l’estrema lusinga…

Già degno del ritorno, lì da vent’anni un cane

per te, suo dio riapparso, cieco un’ultima volta

fiuta il fato: un guaito ti sia di compimento…)

Né più fino alla feccia ti ubriacherai di sogni,

da titano scrollando nei dormiveglia il mondo…

Ma aperto presso il fuoco ti attende il libro e splende,

parlare silenzioso con le voci di un tempo

e al tempo abbeverare l’anima caramente,

mentre fuori bufere vaneggiano obliose,

le diomedee lamentano i mai tornati eroi…

Ché gli esperidi frutti li coglie chi mai piega

la fronte da una vetta fra i nembi della mente:

lassù, dov’è la rosa che fu piaga mortale,

ove schiuso, ogni istante profumerà di cielo.

E con lei, quando sia, gli occhi spengere insieme,

ridestarsi con lei a un’alba nuova, lievi dove

l’ardua Voce promise: ti promise anche lei,

non ricordi?, e tenace la credevi morgana,

e la guardi e ti guarda, mai tu da lei diviso…

Dei giorni al lento, cuor mio, cedi precipitare,

ogni tramonto e aurora l’ultimo sia e la prima,

non un pegno qualunque hai dal tempo: quel sorriso,

come su acque serali magia di riflessi,

eco è di eterno sole. Ecco, mio cuore, è tutto.

 

                           II

 

Delle ore di miele, feccia nell’ombra d’oro

era un rauco disco, di resto dal cenciaio,

che tu ricanticchiavi spudorata e dolce

sopra il letto, a boccate beando un sigarillo,

besame mucho”… Fra mutandine e dispense,

piatti libri frufrù, tazzine e fiori vizzi,

la caverna era nostra, ignoranti ci amammo

come pirati e razziate dame in calore

tra perle oro coralli, ignude di damaschi:

gaia sapienza che sedimenta una bibbia!

 

La dote, che pregna ci forzava le vesti,

dissipammo alla faccia dei preti e dei vecchi,

lupi noi mani e bocche sul gregge dei corpi,

goduria di peli, tenerume di rose

(tali, mai castità salmi infuse nel sangue):

benedetto il divieto ché accrebbe la gioia!

Ripeter qui le ingiurie vogliose, baciate?

Di noi il doppio canto di spremuti usignoli?

Dalle arnie in noi occulte i prodigati unguenti

che sui corpi spargevan congiunte carezze?

 

Né una pagina resta ai tarli del rimorso,

né un petalo da porvi in rimpianto, ché tutto

fu reso il nostro tempo incenso di sospiri…

La piuma al davanzale (arcangelo o piccione?)

spalancò sottilissimi in noi paradisi,

cigolò gelsomini il dischiuso corallo…

Radicherà il ricordo a me fin sotto terra.

Le calze ringuainasti, i riccioli allo specchio

Strigliavi… La tua voce, al pettine intrigato,

besamem” si sospese: e fu il tuo odore eterno.

 

                          III

 

E passerai là davanti all’anonima scuola

in cui s’imperlò la tua vita: ala ti siano,

non più la gonna a tirarti, bambini ormai vizzi…

Fra scalpiccio e bisbigli, miti lacrime anche,

fino ai cipressi: sarò là ad aspettarti. Passi

da un mondo lontano, sul buio delle radici

busserà il feretro come un bruire di tuoni

che all’arido stringere annuncia grazia dal cielo,

passi diversi da quanti già udì la mia attesa…

Io, nel talamo sconsolato, mi si apriranno

le braccia, sussulterà ciò che resta del cuore,

brezza di gelsomini stormiranno le ossa,

e un eterno respirerò di te esaudimento…

Non dire, non aggiungere nulla al muto boato.

Là in piedi, la mia anima: oseremo guardarci?

A fresche plaghe andremo… Come allora, al mio braccio

dolce ti stringerai, di lacrime ormai incurante,

di quegli atei rimpianti, varcata ecco la soglia

più temuta, vuota… Sul molo ondoso dell’Alba,

vele ove al vento anime vanno eterno, cauti

moveremo noi i passi, io che ti attesi, uniti

camminando sui bordi di un oceano fosforeo,

diserta a vermi ed erbe la miniera dei corpi

il cui oro scavammo fino all’ultima vena.

Se un angelo pedante ci fermerà: “che piaghe

voi vantate, a pretender la faccia della Gloria?”

A farlo sorridente tu o io mormoreremo:

tenue fu il merito nostro, ma brilla zecchino,

se fu per noi amore più di un delirio perbene,

se refrattari fummo alla nostalgia, stillante

di beltà tristi balsami, se un lume profondo

ci balenò dal venire-vanire dei giorni,

se sbadigliammo all’amara saggezza dei vecchi,

se il Nulla sprezzammo, addensato in forma di libro,

l’odio in forma di quiete…” Ma vorrà soppesare

lì i nostri cuori in mano: beati e affranti saremo

come al primo risveglio che ignudi ci guardammo…

Sì, di Questo, promessa fu ogni notte odorosa.

E sappi, né i nostri lenti anni né la porta

di marmo, mi tolsero la spina dalla mente:

che alla pietà del rito dei sospiri, negata

fu una creatura il cui riso la mia giovinezza

lampeggiasse alla tua solitudine… Abisso

le notti estreme… la dentiera sul comodino…

tu sola al buio, io solo nel giaciglio di ossa…

Ma di’: perché ci lamentammo se speravamo?

E come non sperare, noi che sempre ci amammo?

 

Nota

Il “bèsame-m[ucho]” trova un suo senso pregnante nel khol rashé besamin, del Cantico dei cantici – cioè le teste, il culmine di tutti i profumi – secondo le notazioni di Ceronetti. Pardes rimmonim è il giardino dei melograni.

 

 

 

Da Grandi carmi, Ed. Erba D’Arno Libri, Fucecchio (Fi) 1998.

(Comprende tre carmi: Labirinto, drammatico, di vv. 1369; La Passione, un carmen solutum, di vv. 1911; Sabbas, strofico, di vv. 1585.)

 

 

Da Labirinto, vv. 180-237 (Pasifae è qui la figlia, non la sposa, di Minosse):

 

                         ICARO

 

Lei in mezzo passando, abbatteva gli sguardi

come un vomere i fiori appena dischiusi…

Ma uno da me ne agognava il noncurante

profilo di Pasifàe!… Io lo compresi

da un lampo guizzato all’estremo suo ciglio,

che a me liquefece il midollo nell’ossa,

allora che il sangue eletto di Minosse

per corridoi infiniti, per sale ombrose

barbaglianti al riflesso dei suoi ricami

d’oro, trascorreva portata da un soffio,

lei i cui lunghi languidi occhi nessuno

d’un solo bearono sguardo… Andava,

bisbigliando alle donne sue Pasifàe,

dai loro circonfusa veli e sorrisi

come per tenüe nebbia se ne andava…

E passando trattennero un fresco riso;

mi occhieggiarono tutte, oh ma non lei,

ché indicibile ella procede, prodiga

di densi aromi come brezza serale:

dal silenzio si aurora e là nel silenzio

pari, non sai che guarda, va a un’immortale.

Dai lini esalava il suo incenso carnale,

ed io, che profondo aspirai, fui perduto,

dovetti appoggiarmi al diaframma di pietra.

E da sale, altre sale deserte, tinnule

echeggiavano risa, sì, anche le sue,

che udite mai furon da alcuno – fra sbarre

di rame, egualmente, la sola d’argento,

percossa, nell’aria ha più limpido squillo,

lo estingue la lontananza e lo purifica, –

trafissero, e impiagano ancora, il mio cuore…

Oh Pasifàe altocinta, tu il cui lentissimo

lembo scivolante sui marmorei intarsi

lambisce il mio cuore, consuma il mio cuore

come scoglio la blanda onda inesausta,

tu mi dài struggimento mortale quando

alla danza claustrale i tuoi veli eterei,

di aurei narcisi trapunti, nei molli

vortici estasian trascolorante l’aria,

e a te d’intorno lievi sull’erba ondeggiano

nobili vergini e la tua gloria cantano,

e il braccio alatamente sollevi, nudo,

bianco come avorio da poco intagliato,

e dal serto, che svetta nell’alta mano,

si scioglie una viola, e cade leggera

sull’oro antico della tua chioma, ordita

come un boccio sul collo che si distèla,

e fra i cercini e fra le ciocche a racimoli,

che vanno pian piano a disfarsi svolanti,

s’indugia, e cade ai piedi tuoi d’alabastro,

che d’erba hanno riflessi, in dolce martirio…

Pasifàe, tu che della rondine hai l’occhio,

radiosa cruna di abissi, oh non dirmi,

ma solo sospira al mio cavo sgomento

da quale segreta sorgente di sogni

zampillano gli atti di te inesplicabili

e belli oltre ogni dire, mentre la sera

e le ombre scendono e la luce lunare…

 

 

Da Trittico, Edizioni La Copia, Siena 2005.

 

                 OZIO ESTIVO

 

                                    Per Adriano Fabris

 

La brezza, gli ombrelloni, frange smosse

quasi un rado preannuncio delle onde…

Nel prisma di solarità le cose

oscillano in apparenza di cose,

solide in sé ma forse inesistenti:

il passero che becca fra le sdraio,

ripetendosi, il passero che becca

fra le sdraio, che becca fra le sdraio…

le alfabetiche ombre sulla sabbia

stirata a nuovo fanno un piatto enigma…

la bandiera del bagno sventolante

VITTORIA su un deserto di battaglie…

Tutto appare e non è, non è ed appare

nel silenzio stentoreo della luce,

un pulsare di attimi-ombrelloni,

milioni di è-non-è, onde su onde,

è-non-è come sabbia l’universo,

granelli-istanti, un tutto di granelli,

e un puntiforme traboccante io-vuoto

ne vorrebbe incrunare unico il filo,

semplicissimo fino al disumano

come la linea che recide il mare

blu dal celeste tenero del cielo,

e basterebbe un battito di ciglia

in cui cose e esistenze, percepite

fugevolmente come un sogno esatto,

fossero sillabate dalla brezza

in creazione perpetua, mai abolito

l’istante dall’istante, ma il fluire

immobile di un essere perenne,

unica cosa, la mente e la cosa,

puntiforme, infinita, luminosa,

trascorresse come voce onduosa

su la spiaggia la sabbia ogni granello,

illuso cangiamento di un istante

fuori del tempo, e il tempo fosse questa

sfericità fugevole ed eterna

di questa ovunque luce, scintillante

dalle onde che parlano di onde,

che parlano di onde, onde su onde,

in questa sonnolenza di ombrelloni.

 

 

              CIELO STELLATO

Novilunio di settembre, in aperta campagna.

 

                                                              …fila

                        luce, fila anni luce misteriosi,

                fila un solo destino in molte guise,

         dice: “guardami, sono la tua stella”…

                                                     Mario Luzi

 

                                                  A Dilvo Lotti

 

 

Guardo il Sole che scende dietro i colli,

e non vedo il tramonto ma il ricordo

del tramonto che vedo, se il barbàglio

estremo lo ha assorbito l’orizzonte

già da otto minuti, e dunque è notte,

ma notte ancora non vedono gli occhi.

La forza che sostenne l’ampio giorno

lascia i convessi argini del mondo,

e il crepuscolo esala dalle erbe,

dagli anfratti, dai campi, dai declivi

dei monti con le cime imporporate,

da sotto terra evaporante, ovunque

sale nebbia di tenebre e ci ruba

prima i cari colori, e poi i contorni,

e i nomi delle cose, ormai ridotte

a degli immemori tizzoni spenti,

come marea melmosa sommergesse

le sponde razionali della mente.

Ecco, nell’universa sospensione

fra il tempo degli atti e il tempo dei sogni,

Espero sgorga, solissima luce.

È quiete ovunque, quiete e solitudine,

più non canta non vola più alcun’ala,

solo sghemba nell’ombre il vipistrello,

e in cielo, che si fa concavo azzurro,

abissalmente azzurro di silenzio,

spuntano come chiodi luminosi,

ad una ad una, qua e là le stelle,

le esperidi irraggiungibili stelle…

Finché sopra la cieca buia crosta

della terra – sollevo i dilatati

occhi di sete − sconfinatamente

sta di gemmei arcipelaghi un oceano:

milioni di lucenti aghi convergono

s’incrunano nell’iride che fissa

la faccia assente dell’Eternità…

L’Eternità, di fronte a occhi mortali.

Ma l’algida gloria della galassia

non è che il drappo funebre disteso

sempre di più sul creato dal Tempo,

che di emblemi fatali lo ricama,

stella prossima a stella eppur lontana,

e la luce di quelle più remote

varca abissi del nulla da millenni

per queste ciglia sfiorare e smarrirsi

per millenni là al nulla degli abissi,

e in quell’istante “guardami” sussurra,

guardami” da millenni, e ogni brillio

è un’età della cosmica caverna

che trasuda, goccia a goccia ogni notte,

lentissime stalattiti di luce…

Tra quel vivo limio di lumi, quanti

non conterebbe intera avida vita,

come tra sparso argento un falso conio

astri scintillano che più non sono

e la cui luce ossea lascia dietro

di sé deflagrazione tanto immane

che stupirà una notte accorse genti,

e da ere il prodigio è forse estinto.

Ma nulla che si vede è in sé la cosa,

solo una percezione possediamo

che da quella si stacca poco o tanto

se è rugiada o se è stella, eppure sempre

incolmabile cuna d’illusione.

Non penetrano gli occhi il mondo esterno,

un vacuum incolore, più abissale

di quanto appare, ché la mente astringe

lo spazio spalancatosi allo sguardo

per farlo più a sé stessa specchio umano.

Così è dogma alle mani di toccare

solida e vera la mater materia,

e invece anch’esse toccano la mente,

non il piede ma l’orma, e tutto sfugge

dalla sua concretezza e si fa ombra…

Noi vediamo, realmente, non le stelle,

ma quanto con veloci ali la luce

reca a noi di quei mondi, che nell’erebo

sprofondano del nulla inconsolabile…

L’urania emanazione ci consegna

un purissimo enigma che i carnali

prismi piaga di nostalgia infinita,

per cui brillano, anch’essi, di fraterna

alterità alla volta zodiacale:

sopra di me, al suo centro, si dilata

illimitata di costellazioni,

eppure tutta la scrigna il mio cranio

che proietta lassù memori luci,

ma lassù è solo un punto della mente,

ché il vedere e il pensiero della cosa

son la stessa sostanza della cosa,

e io sono dovunque erra il mio sguardo

in cerca di non so che estremo approdo.

Oh stelle, stelle, perdute per sempre…

Ma sarete finché vi brami un uomo,

anche solo fantasmi luccicanti

il cui presente è altrove, inafferrabile,

ché tutto quanto è nei nostri orizzonti

vive visibilmente nel passato,

nel non essere più sta la sua essenza…

Ma io vi guardo, o luci primordiali,

e tutto il Tempo è in me, nel vivo istante

di un battito di ciglia io sono eterno.

 

 

       AL SIGNORE DEL POZZO

 

Il tuo nome è impronunciabile. Osceno.

Ma è inutile pregarti, sei lontano

oltre mille galassie, più lontano,

nelle estreme profondità del cuore…

il mio cuore è un abisso i cui confini

precipitano oltre il primo ricordo…

oltre il primo vagito è già un abisso!…

Se ti rivolgo parole inceppate,

forse mi ascolti e nulla può sfuggirti,

ma in risposta non odo che un fruscio,

la sensazione di chi è spiato,

e forse è solo la smania di udire…

Se tu sei l’essere assoluto, allora

io che patisco la tua enorme assenza

sono io a non esistere, io un sogno

sfibrato fra i tuoi cigli lì ad aprirsi,

e sarà l’abbagliamento il mio nulla.

Se sono un’ombra, un ritaglio di niente

che scivola sul selciato dei giorni,

l’ombra di chi sono? <Sono> può dirlo

un’ombra? Oh vivere si può di avido

continuo scontento? Ma se feroce

sete mi piaga, acqua, devi esserci!

Dalla cisterna buia, vuota e buia,

mai mi consola sillaba di luce…

Veder potessi, o pozzo, in te riflesso

come in pupilla il mio volto remoto,

o anche una stella dall’oscuro baratro

su me incombente, e così essere certo

che il vuoto nero, in cui mi sporgo e tremo,

è pur qualcosa laggiù, non è il nulla!

Ma se lascio cadere nel tuo fondo

un grido di pietà, tutto è silenzio.

Dalla tua eternità perfetta (dunque

perché mi generasti?) fa’ una volta

che salga a me non la tua voce, quale

descrisse chi la udì dolce e terribile,

ma del mio chiedere l’eco stremata

dai confini deserti e indifferenti

dell’universo. Ed io saprò che esisto.


TELLUSfolio - Supplemento telematico quotidiano di Tellus
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