Oblň cubano
Yoani Sánchez. La testardaggine come dottrina
03 Marzo 2011
 

La situazione libica ha uno spazio limitato nel nostro silenzio informativo. Viene ricordata in sintesi nei notiziari nazionali e malgrado ciò tutti commentiamo gli avvenimenti del Nord Africa. Tra le proteste popolari che si sono scatenate nella regione del Maghreb, sono proprio quelle contro Muammar Gheddafi a riguardare più da vicino noi che abitiamo in questa Isola.

Per la maggior parte dei cubani il volto dell’eccentrico presidente libico è fin troppo noto per la frequenza con cui appare ritratto sui mezzi di stampa ufficiali, insieme ai nostri leader locali. L’autore del Libro Verde - nonostante alcune note divergenze - viene considerato uno degli alleati più importanti del governo cubano in quella zona. La sua situazione attuale ha turbato le autorità dell’Avana, che non solo sono preoccupate per la rottura di alleanze ideologiche o per la crisi geopolitica, ma anche per la possibile diffusione di rivolte popolari. Nonostante le spiccate differenze tra le due realtà, la prossima caduta del caudillo africano mette in allarme anche L’Avana, per le similitudini tra il personalismo costruito da Gheddafi e quello architettato dai nostri ribelli in verde oliva. Vedono cadere il dittatore libico e al tempo stesso temono e prevedono la loro disfatta. Quando un uomo vuole costruire una nazione a sua immagine e somiglianza, deve essere consapevole che dovrà sopportare gioie e dolori che colpiranno il suo paese. Come capita sempre agli autocrati, Gheddafi ha accumulato tanti beneficiari e tante vittime, al punto che oggi lo spettro di opinioni sulla sua persona comprende l’apologia e l’insulto. Le strade della Libia sono lo scenario in cui le due forze in conflitto si sono scontrate e l’eccesso di testardaggine da parte del leader in disgrazia ha fomentato l’odio e incentivato l’uso delle armi.

L’ostinazione di chi si è autoproclamato “guida della rivoluzione”, preoccupa anche noi che viviamo all’altro lato dell’Atlantico, perché ricorda l’infinita testardaggine di Fidel Castro. Se si trovasse in una simile situazione, il Comandante in Capo non cederebbe come ha fatto Hosni Mubarak, ma tirerebbe fuori la vecchia e abusata frase: “Prima di arrendermi, l’Isola dovrà sprofondare nel mare”. Temiamo che si comporterebbe proprio come Gheddafi. La Libia può rappresentare una raccapricciante anticipazione del nostro futuro. Basta ricordare la caparbia volontà con cui il guerrigliero sceso dalla Sierra Maestra si è trasformato nel Capo di Stato che da più tempo permane al potere di tutto l’emisfero occidentale. In 49 anni di mandato, Fidel Castro ha collezionato una lunga lista di azioni e di posizioni caratterizzate dal suo volontarismo.

Nell’ottobre del 1962, dopo che Nikita Krushov decise - in maniera unilaterale - di ritirare i missili a testata nucleare installati sull’isola, dichiarò: “I missili morali non saranno mai smantellati”. Il capriccioso ottimismo che lo caratterizza lo portò, nel 1970, dopo il fallimento dell’obiettivo programmato di un raccolto pari a 10 milioni di tonnellate di zucchero, a pronunciare la frase: “Trasformeremo la sconfitta in una vittoria”. Persino nel 1980, dopo che oltre centomila cubani erano scappati dal paese in direzione di Miami, approfittando del ponte marittimo di Mariel, finì per esclamare: “Se ne vadano pure le scorie!”. Sono pochi i casi in cui la volontà di un solo uomo ha contato così tanto all’interno di una nazione. Prima di Fidel Castro non era mai accaduto che la volontà di una sola persona avesse un’importanza così grande a Cuba.

Gheddafi, da parte sua, ha cercato di costruire un modello politico e sociale basato sulle sue stesse parole e su alcuni scritti di portata messianica. Si è sempre presentato come l’esegeta principale della sua opera e ha lasciato la sua impronta su ogni stile di vita della società. Non per niente nelle città passate in mano ai ribelli, sono comparsi subito disegni satirici e vignette umoristiche nelle quali il governante viene messo in ridicolo. Un popolo che da molti anni non può ridere di chi lo governa, ricorre all’ilarità per esorcizzare la paura prodotta da quel volto che fino a pochi giorni prima appariva in tutti i notiziari e sulle copertine dei periodici. Gheddafi non solo ha mantenuto un controllo totale sul suo paese, ma è anche intervenuto militarmente in Ciad e ha appoggiato atti di terrorismo, il più noto dei quali è un volo aereo dove morirono 270 persone nei pressi di Lockerbie.

Dopo tanti anni passati sotto l’abbraccio protettivo e asfissiante di un caudillo, Cuba e Libia non dispongono di istituzioni solide indipendenti dal governo e non possono contare su un’opposizione legalizzata e idonea ad attutire il colpo di un vuoto di potere. I cittadini di questi due paesi sono abituati a leggere una stampa rigidamente controllata e da decenni dipendono dalla versione ufficiale dei fatti elaborata dal palazzo di governo. Per questo motivo si mostrano disorientati di fronte a quel che accade all’interno e all’esterno dei loro paesi. Fatte salve le differenze storiche e nazionali, tanto Gheddafi come Fidel Castro imputano le loro difficoltà a un nemico esterno, che in un caso si chiama Bin Laden e nell’altro Stati Uniti. Fanno leva entrambi sul nazionalismo che permette loro di presentarsi come gli eletti per salvare la patria dall’annessione o dalla scomposizione territoriale. Uno ha aperto le porte degli arsenali per armare i suoi sostenitori, mentre l’altro fomenta la dottrina della guerra di tutto il popolo, nella quale ogni donna, uomo o bambino deve sapersi trasformare in un baluardo inflessibile della rivoluzione.

Muammar Gheddafi e Fidel Castro non vogliono riconoscere che le generazioni che hanno cercato di formare con il loro esperimento sociale, stanno chiedendo a gran voce cambiamenti che prevedano periodi presidenziali di breve durata. Mentre il vecchio colonnello dell’esercito accusa i ribelli di aver consumato droghe allucinogene, l’ottuagenario che ancora muove i fili del potere a Cuba sostiene che i suoi dissidenti sono stati formati dal Pentagono o dalla CIA. Nessuno dei due concepisce che il sistema sorto dalla loro impronta, possa sciogliersi lasciando il posto a un altro modo di organizzare la vita politica e sociale dei loro paesi. Per evitarlo, Gheddafi si è rinchiuso nel suo bunker di Tripoli affermando che “chi lo ama deve difenderlo fino alla fine”, mentre Fidel mette in guardia con i suoi scritti da tutti i mali che ci riserva un futuro senza la sua ideologia. Tanto l’uno come l’altro, tra similitudini e differenze, temono per il destino della loro opera e sono ossessionati dal giudizio che su di lei avrà l’implacabile storia.

 

Yoani Sánchez

Traduzione di Gordiano Lupi


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