Cercando l'oro della poesia
Massimo Orgiazzi, stando a Varallo stando sul web 
Cercando l'oro 5
20 Giugno 2006
 
Dall’ Emilia Romagna risaliamo l’Appennino, varchiamo la Pianura Padana e proseguiamo sino alla severa bellezza della Valsesia, in Piemonte, terra “adottiva” del poeta e critico Massimo Orgiazzi, nuova scoperta di Cercando l’oro… (Fabiano Alborghetti)
 
 
Il poeta nasce a Torino nel 1973 ma in Valsesia vive dal 1990 e più precisamente a Varallo Sesia dove – coniugando il mestiere di Ingegnere meccanico e la poesia – si occupa anche di rassegne ed attività cinematografiche che riscuotono un notevole successo.
Nel 2003 pubblica la raccolta di racconti brevi Gli aerei volano ancora (Clinamen Editore, Firenze) – www.clinamen.it/ogmios/gliaereivolanoancora.html
Sue poesie sono raccolte in riviste on-line (Sinestesie, Poiein, Rotta Nord Ovest, L’Ulisse, Dissidenze)e in antologie tra le quali Dedicato a… Poesie per ricordare (Aletti Editore, 2005), Il segreto delle fragole – Diario Poetico 2006 (LietoColle Libri, 2005) e Verso i bit (LietoColle Libri, 2006).
Ha creato, nel 2005, il blog Liberinversi insieme ad un gruppo che muovendo dall’esperienza maturata nei gruppi di discussione di Usenet, ha come fine la divulg(azione) poetica e la diffusione di letture critiche essenziali su testi e poeti contemporanei. Nel giro di pochissimo tempo, il blog è divenuto una riconosciuta ed autorevole vetrina ad altissima frequentazione di lucide (e mai scontate) presenze poetiche, imponendosi all’attenzione della critica.
È in lavorazione il suo primo libro di poesie che speriamo abbia luce presto.
 
Parlare “criticamente” della poesia di Massimo Orgiazzi mi pone in uno stato di delicata paura: è infatti Massimo un critico attentissimo a sua volta – come ben testimoniano gli interventi con cui modera il proprio blog letterario – intuitivo, conscio e culturalmente molto preparato. Abituati cosi ad essere posti sotto il lentino d’ingradimento, l’avere un’opportunità di “analizzare” la sua poesia sarà si una possibile arma a doppio taglio ma anche – o soprattutto – la possibilità di leggerne le poesie con ampiezza e libertà.
Libertà non è una parola usata a caso: il senso di larghissima libertà che emerge dai testi di Massimo è pari solo all’uso del tempo che gli riesce, una dicotomia che però non è inteso in senso filosofico (divisione di un pensiero in due soli concetti, tra loro contrari o distinti che ne ricoprono l'estensione) bensì in senso botanico (tipo di ramificazione caratterizzato dal fatto che l'apice vegetativo si divide in due, dando luogo a due rami uguali, da ciascuno dei quali, a sua volta, si staccano altri due rami e così di seguito), ramificazione per mezzo della quale le poesie fanno avvenire episodi, aprono sequenze come in flash che si sovrappongono creando strati, ognuno strettamente connesso con il precedente eppure proiettato “oltre”, aldilà della sola immagine: in parte è memoria, in parte è il presente, una terza carta è poi giocata sulla proiezione verso la possibilità nascosta, quella infrattata nelle pieghe dell’attenzione o della disattenzione, qualcosa che sarebbe sfuggito lievissimo se proprio in quel momento non si fosse posato l’occhio nell’osservazione.
Ancora, ramificazione nell’uso del dettato, sempre piano ma mai piatto, sfaccettato e capace di virare dal verso lungo al verso breve, da testi divisi in più sezioni a corpo unico ed in entrambi – ancora una volta – ritroviamo sia la sapienza formale che le esperienze esistenziali in equilibrio, senza spericolate innovazioni linguistiche, senza incursioni nella novità ad ogni costo. È infatti questa poesia in ogni sequenza di versi limpida, non speculativa ma anzi riempita d’attenzione, di accenti autentici (cose, persone, luoghi) e disarmati con il quale Orgiazzi si rapporta da personaggio e spettatore cosi come ad un qualcosa che cresce oltre la capacità personale di comprensione. Questa scrittura meta-poetica e la capacità anche immaginativa divengono cosi la confessione con cui Massimo Orgiazzi ci si consegna con necessità diverse da quelle private, con un immaginario personale compiuto ma non finito, in movimento anzi e con larghe esposizioni di sensualismo espressionistico, con un icastica visionarietà quasi fluviale, un delta – ramificato appunto – che scorre e non ferma, prosegue sfociando senza esaurire, che non cerca l’infinito perché lo trova già nelle cose, nelle persone, della dimensione della luce e dei luoghi e dei sentimenti, espressione di confronto piuttosto che esposizione voyeuristica: un offerta ritenuta, cauta e al contempo vasta proprio come la libertà che un albero ha d’innalzare, senza mettere in pericolo le gemme, senza dimenticare che per quella ramificazione al cielo corrisponde un doppio – di radici – saldamente infitte nel terreno.
 
 
 
Il grande luglio
13 Luglio 2005
 
È il grande luglio, questo, che va
visto fisso ai muri, fiere datate
con piogge d'afa, deja-vu d'estate;
controluce ragazze di città

sfilano tra ragazzi e gomitate
e una madre piccola che da
il braccio a suo figlio down, sordità
in quegli occhiali, pure risate

ti direi piccolo (prima che sfumi
la tua età) e chiederei a te
a tua madre cosa potrò sentire

quando sarò famiglia in frantumi
di me stesso non risorto, cos'è
un mese corto prima di morire.
 
 
 
L’aria di Torino inspirata controvoglia dalla Valsesia
10 agosto 2005
 
No, sono i libri e orecchie nelle pagine,
verdi che sono andate, aperte che ne esce aria,
i libri e i meli della verzura, i segni che ne cola inchiostro
e il legno delle baite, che la resina e le narici punte.
Si passa adolescenti al fontanino, ingoia sorsi a gelo
non si finisce di chiamare i gatti, se n'accarezza il pelo.
E' il battere per terra dei bastoni, quando si torna
dalle montagne, a sedici anni si sfila gli scarponi
                                                                           col
gusto di mele aspre in bocca, l'erica matta al vento.
E' settembre in arrivo che rovina.
No, è la scuola e un viaggio di due ore
                                                             a città-centro.
 
 
 
Le cose rimaste intatte  [Da l’Ulisse 5/6]
13 Agosto 2005
 
Cos’è questa speranza
che va oltre le partite a scopa d’assi,
oltre i tuoi messaggini di ripiego?
C’è il sonno dopo pranzo
ora, un’insonnia che s’insinua cieca
tra le pieghe di questo stesso letto.
Ci sei tu che mi squadri per quell’asso
giocato male e, prima,
le passeggiate insieme
là sulla spiaggia, i miei baffi di sabbia.
L’assetto delle cose rarefatte
è mischiare ricordi ad esigenze,
rimuovere paure, ed acquisire
resistenze; il quadretto delle cose
rimaste intatte mi è dato da te,
invece: porti addosso
come abiti gli standard femminili
di questo tempo,
quando mi guardi e a scatti ti rivolgi
al mare, sempre più finto. Virtuale.
Poi, china, scrivi attenta al cellulare,
mandi via i tuoi pensieri.
Sempre gli stessi.
Cos’è questa speranza,
vorrei me lo scrivessi.
 
 
 
(fa paura il sole obliquo)
09 Settembre 2005
 
si può ancora chiedere e spremere
tutto è ancora facile. tutto credere
la cavità ramifica e tocca i mattini
 
il gelo sui vetri, gli acuti risvegli
in fondo s’incrociano strade
da casa si vedono tetti brillare
lamiera. pesa di schiena
 
la malattia. voler oltre mappare.
 
 
quasi due miliardi  [Da Dissidenze del 6 dicembre 2005]
11-15 Ottobre 2005
 
non è tra due estremi e ai contorni che s'interpola
una donna
nella scarpa destra per tre giorni due ciottoli
premono le scosse di un male al successivo
 
non è la diagnostica per immagini
non radiografie a ottenere quel match – e sapere
di dove sei venuta. chi eri
chi è
        poi 
l'uomo che all'alba d'ogni giorno al risveglio gl’isolati
segue il suo cane microscopico
come un cieco nel via andare del pre-mattino
i tre operai già stanchi che attendono al buio delle sette
il passaggio. il lavoro. il pomeriggio
i fari del furgonato da dove il sole
dovrebbe comparire
i riquadri al neon di una finestra mentre
la foschia discioglie i punti dell’immagine
la tua foto – presa di nascosto
messa come sfondo al cellulare
 sono il passo appena dopo
 
sono quasi due miliardi le cose
che non riusciremo mai a dirci
che saranno dimenticate | un istante prima di guardarci
 
 
 
Voceneve
25-29 Novembre 2005
 
Cade sfusa. Ricorre di splendido, fugge riflessa,
non sono che scheletri rami e da sotto, dalle cantine
cataloghi e cose francesi, la France dei settanta
ed il freddo, collima e si allunga, mal detto.
Riallinei brividi, tu. Tu che non vai, mai, è solo
una scelta, riformuli termini, vista la vita un insieme
di problemi complessi. In fondo, ad olio su pianto,
c’è neve.
 
*
 
Fresa rumore, l’enorme. Di là sta mia madre e
non si può se non dire che aizzato
ricorre, in linea, con un dietro e un avanti [in differente]
a scelta svilisce, in capsula, ogni parola
la voce.
 
*
 
Quomodo cantabimus canticum hominis
rinomini e strigli gli archetipi in terra
aliena scoscende la questua, nel grembo
non tieni che un tempo, più spesso
ricorre il brivido denso.
 
*
 
Caro diario, anamorfico,
ti decodifica il tempo, lente
sul fondo, le ore già messe di neve.
 
 
 
Le piogge della notte
06-09 Dicembre 2005
 
       Ma le piogge notturne sulla terra sospesa
       Hanno ridestato l’ardore che tu chiami il tempo.
                                    Yves Bonnefoy
 
Mi svuoto al pelo libero, mi devo,
si accosta la giornata ancora corta, la
memoria simultanea già morta, in
cerca di massa stabile, chiariva, verde fotoelettrico
autotreni di piazzali.
“Ecco, m’hai fatto vivere settant’anni”
ordinando a segmenti i cimiteri con il tempo, ma
in me c’è sabbia: invece stento, recide fine
precisa come un guanto, su risacche indipendenti
di vivi e di entità, bisbiglio spurio in variabili tonali
di detrimenti periodati, vite estratte a punti come denti.
 
Di fuori il cielo spegne, fino al chiaro nella fuga,
la prospettiva non sarebbe che uno schizzo, muta
l’aria, nel vuoto d’aria di quel vento.
Ed il tempo una frase a scarabocchio nero
“non riesco a leggerlo”: navigazione non in crescita, sul
versante non pendente del pianeta.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ogni ora in un ricordo, io e te su quella valle
l’incedere geometrico del cielo, le piogge nella notte
hanno detto.
 
 
 
Semplice la fine
1° Gennaio 2006
 
                                                a Sara
 
Non ci sono: ho raggiunto il tono labile, la trasfusione
di pensati, concetti esatti che tu passasti alle mie labbra
un bacio, un’emulsione di pellicola e la messa a fuoco
perfetta dell’immagine, anamorfica del buio che fosti
abile a raddrizzare: insieme in cima a respirare mosti
a vento, l’infinito non è che accostamento di spezzoni,
la scelta non casuale di contrasti, variazioni di stupore all’ora
in cui ritorna il tempo, declinato astratto, senza sentimento;
il cuore (tu lo dici) è solo la versione precedente di un contratto
asintattico, scritto calligrafico (come scrivi bene, mi dicesti);
e la tua guancia affiora dal cuscino ancora intriso
di primo tentativo, sfondo cielo, inviso – vivo – gelido
di luce olivo chiara come ci apparvero i paradigmi
delle distanze lunghe, pomeriggi in fondo al sole, muri
screpolati, infiggersi d’avventi attese: come
mi guardavi, partendo. Una leggenda di silenzio.
 
Vorrei vederti scendere le scale sola, nel crocicchio
di questi capodanni. Ce l’avranno i freddi di qualsiasi
stagione uno scalino che ne ferma la discesa.
Com’è semplice la fine, la sua accoglienza. 
 
 
 
Volti a nascite
11-12 Gennaio 2005
 
Andato nel prato, così aperto, quel che
volevo era un colpo di tosse, quel che sapevo
schiarire il deserto converso di lodi, cercare
le sorti del tremito bianco, del bianco vederlo
al calore che mi mostrasti più denso di prato,
mio padre m’impresse di giorno invernale
in quella, di foto, con una spiga di grano tra dita
il tratto più nitido, inumidita la punta, la mina.
 
*
 
Scintilla, che chiedo; scintilla, nel cielo
tre virgole alate finiscono d’essere aerei,
di Sara, dei giorni di vento si sa quasi niente;
di terra battuta, la gomma bruciata rischiara
la sera discesa più lenta, l’America a nuvole
in fondo di bianco, di nero. Che noi lo scoprimmo
il varco nel muro, la cinta aggirava, radente
col fiato sospeso, di fughe. Il presente.
 
*
 
Ascolta il motore stellare, a turismo
affiora volare, un bambino che vede,
un mattino, quando da figlio giocò con le spade
stupirsi ospedale, la nascita. Nascere
si dice il volere ogni cosa vicina,
il farsi guidare inconcluso, l’occhio che chiuso
riverbera mare, combina inconsulto
sempre sapere e, ora, preghiera.
 
 
 
Preghiera in parafrasi di prosa
22-23 Gennaio 2006   
 
                          Mi rifugiai
                          nel pròtiro della cattedrale
 
                          Tentai di pregare.
 
                                   G. Caproni
 
Padre buono di noi ossessi, in noi stessi
ricantato e chiuso, concludi il dono,
falla finita, fatti preda svelta, suicida; rimessi
i patti, i nessi, sveglia l’abbandono
di noi piegati, proteggi noi i nomi e i numeri,
appesi a cui scrivesti il tuo valore e il suono
di questa stanca che fu giornata, dei nati liberi
e le sporgenze delle ossa, la morte mossa
in scacco – incontro cronos a delitti maceri
Padre caro, origlia al meglio su noi ricurvi, glossa-
ci la vita, nell’addurvi misteri da rosa-
rio, cose quiete, ma nostre, di cui presunti osi non si possa
avere. Cose che non nostre, non vedere, in parafrasi di prosa.
 
 
 
L’era di un anno solo
02 Febbraio 2006
 
All’inizio di quel che era in volo, inizio
di un era
di un anno solo
sei stata finita nel cielo crepato
dall’acqua di un pelo
estivo, di sale disciolto; la pena
è quel che non vale al confronto
tra noi ed il peso al ritorno
 
alle piene di nuvole rigate dal sole, era
nuovo tenere il tuo fresco, la mano
le maniere più buone, la sera
di domeniche intiere sui vetri
bagnati, la polvere offerta
la morte sofferta di fianco o l’ascolto
del sonno, il croccante gustato
oltre il male rivolto,
dal profumo
di foglie di fresco suicide di pruno.
 
Dovrà aprirsi il passo
del suolo rappreso di gelo,
a dirglielo teso nell’aria, lasso, la voce
di vita: quel che lasciamo
ci tiene di sbieco, sta sotto. Ne è croce. 
 
 
 
Lamiera
21 Febbraio 2006
 
Viene da poco
quel tanto di vuoto
che picchietta
lamiera nel
fresco di vento
se sole, se esangue
di pozza piovana
luce di nembo
se equinoziale
non vorrei, ma resta
la stanca, strana
la festa che  
dipende, ci manca.
 
 
 
Io sono
15-17 Dicembre
 
Mi guardano come se fossi io sono
compresso di scatti, di idiomi malati, un uomo
di dati, una remora prima che dura irridotta,
indecidibile santo, corrotto di vuoto
 
un gioco, con regola singola e – batch che non filtra
Mi sentono consono al suono di uno stendino,
al vestito che sgocciola in attesa di vento.
Nel mese di nascita corto c’è sempre lo stesso
 
triangolo sole, muto di muro apparenza. Ad esso, speranza.

TELLUSfolio - Supplemento telematico quotidiano di Tellus
Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - R.O.C. N. 7205 I. 5510 - ISSN 1124-1276