Telluserra
Dario de Giacomo. Giusto il tempo di una canzone
Frida Kahlo,
Frida Kahlo, 'Mio padre' 
24 Ottobre 2010
 

A quarant’anni sono un uomo sano! – Mimì stese in avanti i palmi delle mani.

Ma talmente sano – continuò – che delle vostre pippe su che-cos’é-normale? francamente me ne fotto.

Fece una pausa e si guardò in giro: la massa scura degli amici era accalcata intorno al tavolino, l’unica zona d’ombra fuori dal bar.

Si facevano vento con le ultime notizie ridotte a brandelli.

Però c’è una cosa che tutti sanno fare, e io non riesco a impararla. – disse.

Mormorio di risatine sommesse. Chissà quella testa-matta di Mimì che si sarebbe inventato oggi tra le tre e le cinque.

Mimì, forza e coraggio. Cos’è? Dillo! – Don Pasquale il barista fece da portavoce per tutti, spuntando all’improvviso col suo vocione da piazzista.

Per carità – riprese Mimì – non dico di conoscere tutto. Non sono onnisciente. – però gli piaceva che gli amici lo credessero tale: perciò si sforzava sempre di recuperare dalla memoria qualche termine fiorito, magari piazzandolo a sproposito; ma così solo per elevare il tono della conversazione.

Voglio dire che c’è un’esperienza comune che non riesco a fare. Ecco tutto. Mi sento spiazzato.

Era come avere la parola giusta sulla lingua, ma non riuscire a ricordarsi il verbo appropriato per tirarla fuori.

Dura ancora a lungo la pantomima? Facciamo notte. – Implacabile. Quello scocciatore dell’avvocato Colarienzo. Faceva sempre così: con un’uscita seccata rovinava l’atmosfera.

Un altro di quelli che la sanno lunga, mentre per gli altri è sempre corta.

Scocciatore e pure occhio-secco: in paese raccontavano belle storie sulla potenza dei suoi sguardi. Chi poteva se ne teneva lontano, per evitare di essere seccato dallo sguardo invidioso dell’avvocato.

Mimì lo ignorò, come pure il resto della compagnia.

Don Pasquale una granita di caffè per tutti – disse – paga l’avvocato.

In quell’attimo fu come se il cielo si spaccasse in due.

Ferito a morte nei sentimenti, l’avvocato Colarienzo barcollò per un instante facendo una smorfia – Mimì tieni sempre la stessa testa. Hai sempre voglia di scherzare.

E si vede che ci serviamo da barbieri diversi – lo incalzò Mimì, che non voleva abbandonare la presa – il mio mi fa lo stesso taglio da trent’anni.

Un punto a favore della squadra di casa, palla a centro e l’avvocato Colarienzo che si allontanava scornato, le mani in tasca per controllare la consistenza degli spiccioli e ringraziando Dio per lo scampato pericolo.

Be' Mimì allora? – Di nuovo il vocione accaldato del barista.

Don Pasquale, granita per tutti, pago io.

Che ora si è fatta? – chiese il barbiere. – Devo aprire il negozio.

L’ora che trovi pace e ti stai zitto – rispose in coro la compagnia – così sentiamo la fine della storia di Mimì.

I rasoi del barbiere, insomma, avrebbero aspettato che il sole calasse prima di brillare ancora.

Il punto è proprio questo – disse Mimì, rianimato dall’acclamazione popolare, – che ora si è fatta! Qui sta il bandolo.

Don Pasquale servì le granite – Mimì il bandolo e la matassa di tua madre, io non ci sto capendo più niente.

Pazienza Don Pasquale, vi servirò. Ma prima, senza fretta, assaggiamo un poco di questo caffé. Il tempo passa e la processione non cammina. Ci aspetterà! Il tempo di un caffé.

La processione di uomini, cose e minuti si fermò, effettivamente, aspettando in silenzio che i grani dolciastri si sciogliessero sotto il palato.

Stettero così, ognuno per sé, lontani dal centro per il tempo di una granita.

Lo scricchiolio inopportuno del tavolino li ripiombò al centro della conversazione.

Troppo buona – esordì il barbiere, seguito a ruota dagli altri e fu tutto uno schioccare di lingue nell’aria afosa del primo pomeriggio.

Mimì bello, ci vuoi fare la grazia di finire la storia o no? – Don Pasquale era impaziente.

Allora. – Mimì stese cinque dita, poi le richiuse una a una nel pugno di una mano, come tirando le fila della storia – Il bandolo della matassa è proprio il tempo.

Don Pasquale che ora è?

Il barista ruotò il polso di scatto, alla ricerca dell’orologio di metallo legato da una striminzita cinghietta di pelle nera.

Sono le tre passate. Ma perché? – rispose.

Grazie! – Mimì sorrise sornione – Ecco qua! Per voi è facile, il tempo è solo un gesto. Voi leggete l’orologio e lo contate. Ma io… – la frase rimase sospesa al centro di una risata fragorosa.

Mimì che vai dicendo? – il barbiere si era quasi piegato in due, trattenendo a stento il pantalone che minacciava di strapparsi in quella posizione, a causa dello strabordare equivoco della sua pancia – Perché tu l’orologio non lo tieni? Andiamo su!

Io non ho l’orologio – proseguì Mimì serio serio – perché non so leggere l’ora. Questo. Non sono mai riuscito ad impararlo. Ci hanno provato quando ero piccolo a insegnarmi. Però. Io, non ci riesco.

A volte era difficile capire quando scherzava e quando diceva sul serio. La compagnia intorno al tavolino del bar studiava le espressioni facciali di Mimì per capirci qualcosa. Però era inutile.

Lui intanto assaporava il gusto di quell’attesa. Incrociò le braccia dietro la testa e puntellandosi al suolo, tenne la sedia in equilibrio su una gamba sola.

Quel gesto gli ricordava suo padre, morto da tempo. Nel ’75 era venuto a mancare. Rise, perché quando la madre ripeteva quella frase, pensava sempre che il padre si fosse perduto da qualche parte, non che fosse morto. Comunque papà mancava dal '75. Ora era lui che ripeteva i gesti di suo padre. Papà gli aveva lasciato in eredità la grande casa al centro del paese dove abitava, qualche ettaro di terra in montagna, e una bella serie di gesti e abitudini.

Come quella del pranzo di famiglia ogni domenica.

Mimì sedeva a capo tavola, amministrava le porzioni, regolava l’andamento della discussione, dava la parola anche ai più piccoli, ma con moderazione.

Poi alla fine del pasto, mantenendo la sedia in equilibrio, diceva – E mò vac’ a cacà!

Ora vado al bagno. Quella era ufficialmente la fine del pranzo di famiglia. Un diritto di primogenitura che lo inorgogliva.

Oltre che l’orgoglio, però, solleticava anche le esigenze della sua natura: da sempre infatti, fumatore accanitissimo, andava soggetto ad una fastidiosa colite spastica subito dopo mangiato.

Quindi pure quel tempo del bagno aveva i suoi perché.

Va bene Mimì. Tu l’ora non la sai leggere, ma qua il tempo passa. Uguale per me, per te, per Don Alfonso il barbiere, preciso pure per tua madre.

Il barbiere aveva quella pessima abitudine di condire tutte le frasi invocando il nome delle mamme.

Come lo volti e come lo giri – continuò – il bandolo rimane aggrovigliato.

A Mimì sembrava che effettivamente Don Pasquale avesse ragione, eppure c’era qualcosa che né lui né il barista riuscivano a misurare nello stesso modo.

Doveva esserci una stranezza da qualche parte. Gli sarebbe bastato trovarla.

A volte d’inverno capita, per esempio, che il maglione si sfrangi e alcuni fili di lana facciano capolino. Ė fastidioso. Molto. Perché inevitabilmente quel filo capita tra le dita e senza rendercene conto ci troviamo un pezzo lunghissimo di lana in mano e il maglione completamente sfilato.

Ecco! Don Pasquale era proprio quel filo di lana e ora gli stava rovinando il maglione, continuava a dire – Guagliò è semplice. Si fa sera, accendo le luci fuori dal bar, divento tutta scuro di notte e vado a letto. Tu, io e pure...

Si la mamma ovviamente, Mimì già lo sapeva, ma a quel punto aveva già smesso di ascoltare.

Perché aveva trovato il bandolo, e la matassa si era sgrovigliata. Almeno così gli sembrava.

Il fatto è che le notti non erano davvero uguali per tutti.

Il bar di paese e Don Pasquale erano bravi a corteggiarlo, ma lui alla fine non si era lasciato sedurre.

Qualcuno mise in funzione la radio. Dovevano essere già le tre e mezzo passate. Perché allora arrivava Genna, quella gran culona di cameriera tutta truccata, male per giunta, a dare una mano per le consumazioni.

Quella sì che aveva tempo da vendere. Dovevano essere interminabili le sue notti, pensò Mimì.

Incominciò di nuovo a raggomitolare la sua matassa, partendo dalle notti.

Si è vero, sono buie. È vero pure che le luci si spengono e tutti se ne vanno a dormire.

Ma poi. Ecco. La zia suora si svegliava molto presto, la sentiva inginocchiarsi pesantemente, il legno del leggio scricchiolava e il buio si animava di parole biascicate sommessamente.

E c’era il tempo di notte della nonna. Interminabile come quello di Genna. Nonna Maria dormiva poco, russando molto però. I primi accenni della sua veglia li conosceva dai rumori. La nonna iniziava a muoversi a scatti nel letto, dopo un po’ si svegliava e strascicava le pantofole dal letto al bagno. Era un tragitto breve coperto in un tempo lunghissimo. A volte si addormentava con quella scia di piedi vecchi nelle orecchie.

E una notte ancora diversa la passava Mariella, la sorella che dormiva nella stanza affianco alla sua.

Un rapido scatto, la scintilla dell’accendino, Mariella si svegliava e fumava.

Don Mimì, e che? ti sei incantato? – il barbiere voleva prenderlo in giro.

Mimì sorrise, no non si era incantato, stava solo pensando a quanto fossero diversi i tempi della notte.

Soprattutto quando non sai leggere l’orologio.

All’improvviso però notò che tutti sembravano avere una gran fretta.

Si erano ricordati del tempo all’improvviso? Chi doveva aprire il negozio, chi ritornare a casa. Tutti conoscevano il momento esatto in cui diventa tardi. E si agitavano se si faceva ancora più tardi, o troppo tardi.

Mimì muoviti! – gli disse Don Pasquale.

Riportò la sedia sui quattro piedi e si alzò. Genna lo occhieggiava dal bancone del bar. La guardò, era bella piena, di carne e di tutto il resto.

Entrò nel bar, la musica suonava forte. Lei intuì, arrotolò il grembiule sulla gonna e gli si avvicinò.

La strinse così forte che la cintura verde di raso crespo gli graffiò l’avambraccio.

Da fuori qualcuno urlò – Mimì è tardi, che fai? Muoviti!

Mimì non gli badò, asciugato negli occhi neri di Genna dalle notti interminabili.

Un momento! – disse – Giusto il tempo di una canzone.

 

Dario de Giacomo


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