Il blog di Alejandro
Alejandro Torreguitart Ruiz. Moriremo tutti, anche se non siamo Cabrera Infante
Guillermo Cabrera Infante
Guillermo Cabrera Infante 
14 Ottobre 2010
 

Un giorno come un altro all’Avana senza un cazzo da fare, leggendo Cabrera Infante per capire quanto poco sono vicino all’idea di scrittore e per contrasto quanto lui fosse immenso con i giochi di parole di Tre tristi tigri, le descrizioni intense, i sogni a occhi aperti sull’Almendares, piccolo Gange dell’Oceano Occidentale, tra il doppio orizzonte del muro del Malecón e la linea azzurra piegata, profonda cicatrice che divide le acque. Cabrera Infante sapeva pure scrivere come chi non amava, imitando lo stile poteva stendere infinite versioni della Morte di Trotzki, come l’avrebbe raccontata Martí, passando per Piñera, omaggiando persino l’odiato Carpentier. Personaggi come Bustrófedon che giocano con le parole per pagine e pagine me li sogno la notte, ché soltanto lui poteva avere l’umorismo, l’ironia, la genialità d’inventare scioglilingua e nonsense tirando avanti un capitolo senza una trama, una storia, grazie a una serie di virtuosismi lessicali. Porca eva, se penso che uno scrittore come questo mi tocca leggerlo di nascosto, ché se il poliziotto all’angolo se ne rende conto mi sbatte al fresco, pure se è difficile, per lui Cabrera Infante o un piccolo poppante sono la stessa cosa, credo che nella campagna da dove proviene tanto tanto l’avranno obbligato a leggere Carpentier, Guillén e Martí senza capirci un cazzo. Questi caproni orientali addestrati per rendere la vita difficile non distinguono Miguel Barnet da Reinaldo Arenas, credono che Fidel Castro sia l’erede di José Martí e l’unica cosa che puoi fare è tenerli alla larga, magari allungando una bottiglia di rum e qualche sigaro, di tanto in tanto, così bevono, fumano e ti lasciano in pace. Tanto prima o poi muoiono tutti, come scriveva il buon Cabrera Infante, siano felici, amareggiati, intelligenti, ritardati, chiusi, aperti, allegri, tristi, belli, brutti, barbuti, alti, bassi, loschi, sinceri, forti, deboli, potenti, infelici, persino i poliziotti muoiono, persino gli scrittori che possono fare con due parole o quattro lettere un inno, uno scherzo, una canzone. Persino Cabrera Infante è morto, cazzo. Persino lui.

E allora leggendo Tre tristi tigri con la copertina camuffata dal Granma, ché a quello serve, come fodera per nascondere è perfetta, mi rendo conto che mio padre ne sta facendo un altro uso, pare che lo legga davvero quel giornalaccio e commenta pure…

Chávez ha criticato la consegna del Premio Nobel per la Pace al dissidente Liu Xiaobo. È finita come con Barack Obama, nessuno dei due meritava di vincere –, dice con aria grave.

Io me ne stavo lì tranquillo con il mio Cabrera Infante, ero arrivato al punto dove il protagonista guarda il porto e scopre una relazione tra il mare e il ricordo, non soltanto perché è vasto, profondo ed eterno, ma anche perché viene in ondate successive, identiche e incessanti. Certo che è dura dopo aver assaporato una frase simile contestare le cazzate di Meo Porcello, perdere tempo con un ciccione in camicia rossa che grugnisce contro i lacchè degli imperialisti, irretiti da un dissidente e dalla libertà di pensiero.

Babbo, mica crederai a quel che dice Chávez?

Il Granma parla di solidarietà verso il popolo cinese. Sono loro che ci danno una mano, insomma, non ci possiamo mettere a sostenere gli americani, mica fanno niente per noi…

Povero papà, si vede che leggi solo il Granma e guardi Cubavision con quel fesso di Randy Alonso, presidente del circolo dei giornalisti che organizza tavole rotonde tra gente che sgrana lo stesso rosario. E allora cosa ti devo dire? Tanto lo so come va a finire…

Hai letto cosa scrive il Granma su Vargas Llosa? Pure lui non era degno del Nobel per la letteratura…

Non so niente di letteratura ma in televisione dicono che García Marquez è il solo vero Nobel sudamericano. Vargas Llosa è un venduto, un traditore, un servo degli imperialisti.

Inutile dire a mio padre che Vargas Llosa si è dissociato dalla rivoluzione dopo il caso Padilla, quando furono in molti a mollare Fidel, ché non comprendevano perché non si dovesse esprimere un pensiero critico. Inutile. Lui legge solo il Granma e ascolta Randy il pelato. Buon pro gli faccia, allora.

Torno a Cabrera Infante. Premio Cervantes grazie a Vargas Llosa, spagnolo d’adozione, che amò Tre tristi tigri e lo volle incoronare tra i libri più importanti scritti in lingua spagnola. Porca eva, io non seguo la corrente perché il misterioso ci vuole governare. No davvero. Penso che moriranno tutti prima o poi, pure il nostro grande alleato, il Presidente della Repubblica Popolare di Cina, Hu Jintao, pure Meo Porcello che sbraita da Caracas e le ultime elezioni mica gli sono andate così bene, pure Fidel Castro che è tornato a parlare e la cosa più strana non è quella, ma che nel mondo ci sia ancora un sacco di gente che l’ascolta, pure Raúl che c’ha in testa un modello cinese, ma mica s’è capito quale, forse neppure lui si raccapezza molto, a me sembra il modello marabù, vista l’erbaccia che c’è da estirpare. I sogni della ragione generano mostri, ma i sogni di chi non ragiona non possono generare niente, purtroppo. Moriremo tutti, prima o poi. Come diceva Cabrera Infante, dissidenti e lacchè, servi del potere e d’uno Stato arrogante, divulgatori di menzogne e uomini coraggiosi. Mario Vargas Llosa prima di morire vorrebbe passeggiare di nuovo per le strade dell’Avana, incontrare vecchi amici, vedere Cuba finalmente libera. Aveva detto la stessa cosa Cabrera Infante e se l’è portato via una setticemia del cazzo in un ospedale di Londra. Siamo ottimisti, allora. Non ci pensiamo.

Mia madre in cucina fa bollire l’acqua per cuocere riso e fagioli, forse ha rimediato pure bistecca di soia, l’ultimo ritrovato della libreta contro la fame. Lascio perdere mio padre e ricomincio a leggere.

Il Malecón scorreva sotto la macchina diventato un piano d’asfalto, con ai lati le case rosicchiate dall’acqua salata e il muro interminabile e in alto i cieli nuvolosi o parzialmente nuvolosi e il sole che declinava irresistibilmente, come Icaro, verso il mare…

Una setticemia del cazzo, un genio simile se l’è portato via una setticemia del cazzo per una frattura all’omero dopo una caduta in casa. Tu pensa morire a Londra di setticemia, mica ad Alamar o a Guanabacoa. Morire senza vedere The Lost City, senza salutare Andy García, senza calpestare le strade d’una città vissuta per tutta la vita come un fantasma del passato. Una città bastarda e corrotta, distrutta e malandata, affascinante e puttana, una città che morirà anche lei, come moriremo tutti, ma che per il momento è diventata davvero L’Avana per un Infante defunto. Per sempre.

 

Alejandro Torreguitart Ruiz

L’Avana, 10 ottobre 2010

Traduzione di Gordiano Lupi


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