Oblò cubano
Pablo Pacheco. Le impronte della memoria
03 Ottobre 2010
 

Ricordare i giorni felici non è un problema; dimenticare i giorni di prigionia è quasi impossibile, perché le ferite dell’anima cicatrizzano a fuoco lento. Adesso che ho più tempo per meditare mi chiedo: Come faceva a vivere tanta miseria umana? Una miseria che non ha a che vedere solo con la gente incarcerata, perché riconosco di aver conosciuto molti uomini validi in prigione che furono trascinati sotto la prigionia dal sistema dittatoriale che impera a Cuba da mezzo secolo. Anche loro, senza rendersene conto, si convertirono poco a poco in vittime della dittatura.

A seguito dei giudizi manipolati e sommari contro i condannati nella causa dei 75, la mente machiavellica dei servizi segreti cubani e dell’alta direzione del PCC determinò una diaspora umana nelle varie prigioni della geografia cubana, a centinaia di chilometri dalle nostre case. Fu una condanna in più per le nostre famiglie e un esperimento con il quale speravano in una nostra caduta. Si sbagliavano. Mia moglie e mio figlio, che portavano la croce più pesante, non mancarono ad una sola visita. Il mio bambino cominciò a frequentare le carceri quando appena aveva 4 anni e mia moglie è senza dubbio il più grande orgoglio della mia esistenza.

Memorizzando il giorno in cui fui spostato – insieme ad altri fratelli nella causa – dal centro di operazioni della Sicurezza dello Stato di Ciego de Ávila verso la parte occidentale dell’isola, ricordo con perfezione l’operoso macchinario dispiegato dalla polizia e il valore che dimostrarono i miei compagni. Questo, più la convinzione di essere stati puniti ingiustamente con lunghissime condanne, provocò in me una forza che usai come alimento durante i miei 87 mesi di carcere.

Pedro Argüelles viaggiò con noi. Sia io che lui fummo condannati a 20 anni di carcere dal tribunale di Ciego de Ávila. Sfortunatamente lui è ancora prigioniero perché l’odio e l’intolleranza impediscono al regime di capire che lui non vuole abbandonare Cuba, sebbene ciò possa significare portare una spada di Damocle sulla testa, così come ad altri compagni del gruppo precedentemente citato.

Arrivai al penitenziario di “Aguica” il 19 Aprile 2003. Lì mi obbligarono a scendere insieme a Manuel Uvals Gonzáles e a Alexis Rodrigues Fernández. I funzionari interni compilarono un minuzioso registro dei nostri averi e in seguito fummo trasportati in differenti sezioni penali, tutte distanti le une dalle altre, così da impedirci una comunicazione e da castigarci. Anche in questo i padroni del potere si sbagliarono.

Quella notte trovai un letto nella mia stanza. La cella che mi assegnarono fu la numero 4 del terzo piano. Intorno a me, tutte persone pericolose, condannate all’ergastolo per omicidio; ad altri, il regime penitenziario li aveva isolati per punirli in maniera più grave, ma tutti fecero amicizia con me e in un secondo momento con Blas Giraldo Reyes del gruppo dei 75. Se dovessi ammettere che quella notte dormii sarei un grande bugiardo, perché la mia mente viaggiò attraverso lo spazio e il tempo per arrivare al mio focolare domestico che si trovava a 400 km di distanza, insieme ai miei cari Ole e Jimito. Quest’ultimo era quello che meno capiva quello che realmente stesse succedendo. Nel momento in cui più mi stavo rendendo conto della mia situazione, suonò la campana che svegliava “Aguica”. Il peggio stava per arrivare, ma questa storia la racconterò in un’altra occasione.

 

Pablo Pacheco

(da Voces tras las rejas, 28 settembre 2010)

Traduzione di Barbara La Torre

www.barbaralatorre.net


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