Diario di bordo
Gianni Sofri. Gandhi
Tagore e Gandhi (1940)
Tagore e Gandhi (1940) 
01 Ottobre 2010
 

L'ho scritto più volte, e non mi stancavo di ripeterlo agli studenti quando insegnavo. Lo farò qui ancora una volta perché mi sembra importante. Gandhi non è un pensatore organico. La sua opera completa (i Collected Works nell'edizione nazionale curata dal governo indiano) riempie novantotto grossi volumi e non è neppure veramente “completa”. Tuttavia, essa comprende pochissimi libri e, invece, centinaia di articoli. Per lunghi periodi, ne scriveva, praticamente, ogni giorno, per non parlare delle migliaia e migliaia di lettere. Anche i suoi libri, in molti casi, sono usciti per la prima volta a puntate, sui suoi giornali.

 

Il più celebre dei suoi scritti, e cioè la sua autobiografia (nota in italiano come La mia vita per la libertà), fu iniziata da Gandhi, nel 1924, nel carcere di Yeravda, e pubblicata a puntate, fra il '25 e il '26, nel suo giornale in gujarati Navajivan (Vita nuova). Apparve in seguito in volume, dapprima in gujarati, poi nella traduzione inglese curata dal suo segretario Mahadev Desai, in due tomi, nel 1927 e 1929. Gandhi la intitolò, non certo a caso, An Autobiography, or the Story of my Experiences with the Truth: un titolo che corrispondeva alla visione “sperimentale” che Gandhi aveva della propria vita e del proprio pensiero. Il Mahatma aveva infatti principi molto profondi e radicati, ma era pronto a rimettere in discussione anche quelli, giorno dopo giorno. Affrontava problemi concreti, si muoveva in situazioni storiche particolari e concrete. Non viveva in un vacuum, ma era chiamato ad operare e a scegliere in un mondo politico e culturale estremamente complesso e vario (la tendenza a creare una semplice equazione tra Gandhi e la lotta dell'India per l'indipendenza è un'assoluta sciocchezza: ma questo ci porterebbe molto lontano). Anche per questo le sue scelte, pur guidate da una forte carica morale (che gli faceva rifiutare, per fare un esempio, la distinzione tra mezzi e fini), erano spesso imprevedibili. Non corrispondono, ancora per esemplificare, alla sua image d'Epinal, alla sua rappresentazione più idillica e devozionale, i suoi elogi del compromesso. «Sempre nella vita» scrisse nell'Autobiografia «proprio la mia passione per la verità mi ha insegnato ad apprezzare la bellezza del compromesso». E a Louis Fischer, un giornalista che fu anche suo biografo, disse: «Sono essenzialmente un uomo incline al compromesso perché non sono mai sicuro di essere nel vero». Gandhi non corrisponde neppure all'immagine della coerenza fino alla morte, senza se e senza ma, come diremmo oggi. Nel 1936 scrisse: «Le opinioni che mi sono formato e le conclusioni a cui sono giunto non sono definitive. Potrei modificarle in qualunque momento».

 

La mia insistenza su questo aspetto della figura di Gandhi potrebbe lasciare perplesso qualche lettore. Citerò allora altre due testimonianze, prima di concludere cercando di spiegare perché questo problema mi sembra importante.

 

Uno dei maggiori specialisti della storia moderna dell'India, il francese Claude Markovits, ha scritto fra l'altro che «Gandhi è partito da una messa in opera essenzialmente pragmatica di un insieme di tecniche di lotta già note, finendo poi per enunciare una sorta di filosofia di natura assai generale, che non ha però mai fatto oggetto di un'esposizione sistematica». (Gandhi, Paris, Presses de Sciences Po, 2000). Aggiungo l'opinione di Vidiadhar S. Naipaul, nato a Trinidad da famiglia originaria dell'India, premio Nobel e considerato (con una frase tanto ripetuta da divenire quasi uno stereotipo) «il maggiore scrittore vivente di lingua inglese». Di Naipaul Adelphi ha pubblicato di recente un libro del 2007 (Scrittori di uno scrittore) in cui Gandhi è molto presente. Naipaul non è certo un suo simpatizzante, e non rinuncia neppure parlando di lui a esercitare una sofisticata perfidia, e il gusto di epater le bourgeois. Ne è tuttavia in un certo modo affascinato e considera la sua autobiografia (che dice di aver letto molte volte, trovandovi ogni volta qualcosa di nuovo) «un capolavoro», i cui primi capitoli «possiedono una qualità fiabesca». In una delle sue pagine, che non mancano certo di notazioni acute e stimolanti, Naipaul accenna al pensiero di Gandhi come privo di organicità, «fatto di frammenti disparati attinti qua e là» e tenuti insieme da un'unità solo apparente. Eccessivo, a mio parere, ma non privo di ragioni.

 

Perché tener presente questo problema è importante? Perché il non farlo può produrre conseguenze potenzialmente pericolose. Gandhi non è un teorico della politica, che si possa analizzare come Hobbes o Carl Schmitt. E neppure un professore di filosofia cui rivedere le bucce. Non ha un sistema. Se lo si tratta come l'autore di un sistema, si corrono dei rischi sia essendo simpatizzanti di Gandhi e della nonviolenza, sia essendone dei critici. Il simpatizzante ne darà un'immagine sistematica che non esiste, e renderà difficile quell'opera libera e inventiva di adattamento che ogni tentativo di applicazione della nonviolenza ad altri tempi e luoghi richiede. Il critico si metterà a correggere il Professor Gandhi rilevandone con accademico cipiglio le incoerenze e i compromessi, come se Gandhi non li avesse messi sul tavolo a priori, in maniera schietta e trasparente (due qualità che fanno parte integrante del suo insegnamento). Questo non vuol dire, naturalmente, che non ci siano in Gandhi degli aspetti di universalità che lo rendono ancora oggi attuale; meno che mai che non si possa (non si debba!) criticarlo e indicare quanto ci sia di non condivisibile nel suo pensiero. Nel mio piccolo (per quanto mi riguarda), vedo in Gandhi un tasso molto elevato di universalità e al contempo molte ragioni di critica. Ma mi sembra giusto affrontare l'una e le altre con grande rispetto di contesti storici, di una vita, di un susseguirsi di esperienze, di incontri e scontri culturali.

 

Gianni Sofri

 

[Ringraziamo Gianni Sofri (per contatti: g.sofri@tin.it) per questo intervento.

Gianni Sofri, prestigioso docente universitario di storia contemporanea e di storia dei paesi afroasiatici, già presidente del consiglio comunale di Bologna, è anche uno dei maggiori conoscitori della figura e dell'opera di Gandhi. Tra le opere di Gianni Sofri: Il modo di produzione asiatico, Einaudi, Torino 1973; con Pier Cesare Bori, Gandhi e Tolstoj, Il Mulino, Bologna 1985; Gandhi in Italia, Il Mulino, Bologna 1988; Gandhi e l'India, Giunti, Firenze 1995.]

 

(da Coi piedi per terra, 1° ottobre 2010)


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