Lo scaffale di Tellus
Lettura di “Sarmel e Dio” di Paolo Diodati 
La legge a suo modo Patrizia Garofalo
23 Agosto 2010
 

Rivivere un mondo lontano trascina con sé l’eco di ricordi e favole da raccontare e raccontarsi; Sarmel custodisce la sua e ne svela la nostalgia ripercorrendola da uomo, “fabbro” e poeta.

Un tempo «aveva dintorno/ tanti amici e parenti/ tutti quanti credenti» e con tutti insisteva di non credere alle menzogne che l’uomo edifica per scongiurare la solitudine, giacché l’uomo è solo per definizione, anche nella vita associata. E il desiderio di eludere il deserto della vita proietta i desideri verso quello che gli altri chiamavano Dio.

Dio è dunque nostro figlio, nostra creazione, nostra necessità, nasce nella culla di un paradiso mai esistito se non nell’infanzia: «Dio non è nostro padre/ Dio è un nostro figliolo/ Dio è la favola bella,/ di quando l’uomo era bambino»; e il ritornello si ripete più volte nel crescere di una melodia ascendente e circolare insieme che dall’infanzia ritorna a partorire ognuno di noi nella favola bella che non costituisce una paratia dalla logica, ma piuttosto tenta di affidargli l’ipotesi di immaginare e cogliere in osmosi la nostalgia dello slancio umano verso l’eterno.

Sarmel si circondò dei senza Dio, «eminenti profeti di scienza». La vita, spiegavano loro, è come la muffa, attacca e poi svanisce nel nulla. «Come un anello di fumo o una nuvola in cielo», paradigma anche le metafore stesse della sottintesa necessità di sguardi altri nonché ulteriori, di desideri privi di stelle che però sempre dall’alto creano traiettorie di ricerca. Che incrociano a terra il pensiero dell’uomo.

Ma di come la morte di Dio si coniughi con l’afasia dolorosa della perdita della verità sembra nel testo di Diodati convergere ne «il linciaggio e la bestemmia della violenza», morte definitiva delle illusioni, rovesciamenti in abissi dove la vecchia bugia cede il passo alla nostalgia e al vacillare dell’esistenza.

E proprio la vecchia bugia è di nuovo madre partoriente della favola bella. La vita, lascia intendere Sarmel, si compie nell’infanzia, il resto è solo perdita «di quando l’uomo era bambino».

Sarmel «s’accorse che aveva sempre cercato» di cercare il pieno del vuoto, direbbe un altro poeta.

«Pensiero fisso/ salvare il crocefisso/ dal continuo linciaggio/ del peggiore linguaggio». Appare evidente nel testo una sferzante ironia, che si inserisce seppur di straforo in una tematica maltrattata e becera degli ultimi tempi. Nondimeno, il testo supera la contestualizzazione del momento contingente, e caduto il Parnaso, crocifisso l’uomo che “diversamente” parlava e ammaliava, l’autore prende le distanze e nello sprofondamento nella solitudine del mondo raccoglie con passione sassi, chiodi e sangue e ricerca la favola bella. Il rischio della rassegnazione alla finitezza delinea un’esistenza piena di “muffa” che stavolta stagnerebbe per sempre nella putredine. Forse è solo in questo ammasso la materia del vivere? Un sasso suggerisce all’autore un sofisma per cui «una pietra sta all’uomo/ come l’uomo sta… a Dio» e allude ad una speranza aurorale, ad un’iterazione del nascere. Dio può sperimentare la sua parola nel vivere quotidiano, può essere vero, tra noi, sulla terra.

Si torna alla favola nata, dove verità e bellezza possono essere coesistenti e sinergiche.

L’immanenza del miracolo è una vita che esplode nel filo d’erba e la fede, crescente razionalizzazione e Dio, sostanzialità dell’assenza. È effetto ipnotico di ritorno alla culla e la «musica nota che placa» torna a reiterarsi nel canto della madre, nella cura della parola che genera la poesia e la creazione e, la vita prende senso da un’illusione infondata senza la quale si ridurrebbe a fredda razionalità e sterile avvicendarsi di giorni vacui. Ho parlato di circolarità del testo, giro la ruota e inizia di nuovo la favola bella e pazza che incanta di nostalgia.

 

Patrizia Garofalo


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