Lo scaffale di Tellus
Annagloria Del Piano. Il ricordo di Maria Salvadora de’ Mossini 
Aprile 1634: le ultime donne condannate a morte a Sondrio con l’accusa di stregoneria
27 Aprile 2010
 

Correva l’anno 1634 quando a Sondrio quattro donne valtellinesi vennero condannate a morte per stregoneria da Geronimo Fulgenzio Rangone, frate domenicano, inquisitore venuto da Piacenza.

L’accusa: quella di essere sacrileghe streghe, dedite a malefici e negromanzie, all’esercizio di incanti, magie e sortilegi. Il tutto avvalendosi di incensi, suffumigi, ampolle, specchi, sale, pane ecc.. Rinchiuse dalla notte del loro arresto – 4 aprile 1634 – nelle prigioni del Palazzo di Giustizia di Sondrio nel giro di pochi mesi tutte e quattro trovarono la morte.

Furono le ultime, colpite dall’accusa di stregoneria e per questo giustiziate, in Sondrio.

Una di esse era tale Maria, detta “la Salvadora de’ Mossini”. (Le altre: Margarita di Albosaggia, Volardi Domenica di Torre e Maria Giovanna di Piateda). Notizie circa questi fatti, accompagnate dai nomi delle sventurate e da estratti dei processi o interrogatori che subirono, giungono a noi attraverso gli studi del sacerdote (arciprete a Sondrio dal 1850) e professore Antonio Maffei, del 1805, illustre teologo e insegnante di lettere, prima a Saronno poi a Sondrio, nonché storico appassionato.

È lui, dunque, esimio esponente cattolico, a fornire le impressionanti informazioni circa quegli avvenimenti, dandone una lettura che in sintesi dice questo: «In tempi di folli guerre e tremendi contagi e pazzi pregiudizi (…) gli animi esacerbati per tanti infortunj, appigliavansi, quasi a sola ancora di salvamento, alla religione, ma non già alla religion mite e fratellevole del vangelo, bensì ad un’altra mentecatta, feroce ed omicida, foggiata unicamente alla superstizione e al delirio».

Maria Salvadora aveva circa cinquant’anni, era sposata con un certo Pietro e aveva un figlio già adulto di nome Battista. Viene descritta come una donna energica, vigorosa e ardente. Una donna sicura di sé, diremmo oggi. «Chiamata presso gli infermi, essa sapeva suggerir empiastri, erbe ed altri simili farmaci, e talvolta le sue guarigioni dicevansi quasi straordinarie e portentose». Questa la sua unica colpa. L’inquisitore e il suo seguito interrogarono e torturarono la donna per indurla a confessare, senza peraltro riuscirvi: Maria Salvadora continuò a dichiararsi estranea alle accuse. Vennero coinvolte perfino le monache di San Lorenzo; ad esse si chiese il parere sull’operato della Salvadora e anche da quella parte non poté giungere accusa alcuna. Dicerie e giudizi giunsero però comunque, vuoi per la paura (era stato comandato in una grida del 10 aprile dallo stesso inquisitore Rangone di fornire qualsiasi notizia sulle arrestate, a pena di scomunica e tratti di corda… Tale grida era stata letta in Chiesa il giorno di Pasqua dall’allora arciprete Giovanni Antonio Paravicini, con la raccomandazione ai fedeli di darne piena esecuzione), vuoi per il pregiudizio che tali donne particolari portassero sfortuna e fossero causa di tutti i mali presenti. «Giusta l’indole di que’ tempi, pareva che ognuno s’industriasse a trovar modo di accusarle, e quindi a raccontar di loro le più pazze e impossibili cose. (…) I pochissimi che non ponevano fede a siffatte fantasticherie e spropositi, non osavano parlar netto, perché sapevano bene che sarebbero stati essi pure accusati di connivenza colle streghe, e quindi esposti a molestie e pericoli». Ci fu pure un certo Padre Mattia Provinciale, un cappuccino venuto da Milano che si schierò a favore delle poverette. Ma tutto ciò a nulla valse e, dopo altri interrogatori e torture nei giorni successivi, la donna si tolse la vita accoltellandosi la notte prima del 26 giugno, giorno nel quale sarebbe dovuta salire sul rogo per essere arsa viva, come deciso da Rangone.

Il suo corpo venne comunque dato alle fiamme quel terribile giorno, in Piazza Campello, dinnanzi a «una moltitudine di spettatori: magistrati, sacerdoti, dottori, gentildonne e giovinette ed altre persone di qualsiasi classe», ci riporta don Maffei. Il quale conclude la cronistoria con parole accorate e molto attuali ancor oggi: «Tanta era in que’ tempi la credenza e la convinzione, che e streghe e stregoni senza numero patteggiassero e trescassero a loro posta co’ demoni, e tanta e così profonda l’idea, che procedendo contro di loro sino ai più squisiti tormenti ed alla morte stessa, fosse un tributar omaggio alla religione, e onore e culto a Dio medesimo. Aberrazioni e stranezze, di cui le storie porgon pur troppo lacrimati e frequentissimi esempi, e che nelle grandi e pubbliche sventure sonosi vedute rinnovate tra il volgo, io dico, il quale è sempre corrivo a tutto ciò che sa di prodigioso e sovrumano, e ama credere e indagare le cause là dove forse meno esistono».

Per ricordare questa donna e tutte le vittime di ingiuste persecuzioni, perpetrate sulla base della denigrazione di ogni diversità di atteggiamento e di veduta, è stato piantato un noce in un boschetto limitrofo al campo di calcio di Mossini ed apposta una targa in memoria da Piero Tognoli, un agricoltore del paese, resistente della montagna e appassionato di studi storici, alla presenza di una trentina di persone.

 

Annagloria Del Piano

 

 

Ricerca bibliografica:

Sondrio nel 1634

Racconti del sac. prof. Antonio Maffei

con cenni sulla pestilenza del 1630

Stampa Tipografia Bettini, Sondrio 2005

(da copia originaria, conservata dall’Ing. Giovanni Gualzetti)

Il libro è reperibile presso gli uffici della L.A.V.O.P.S.

Palazzo del B.I.M. Lg.Mallero Diaz, 18/ Sondrio

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