In tutta libertà
Gianfranco Cercone. “Happy family” di Gabriele Salvatores: l’apatia, male italiano
21 Aprile 2010
 

Un film può essere preso in considerazione come l’espressione di un individuo (l’autore del film), ma anche come l’espressione della cultura del suo paese. Insomma: vedendo un film francese, spagnolo o statunitense possiamo individuare abbastanza facilmente alcuni tratti distintivi che ci fanno riconoscere la sua nazionalità.

 

Happy family, l’ultimo film di Gabriele Salvatores, ha certamente alcune qualità. A partire dalla regia: briosa, inventiva, ben curata e sensibile. E poi il cast riunisce un folto gruppo di bravi attori: da Margherita Buy a Diego Abatantuono a Fabrizio Bentivoglio a Fabio De Luigi, per citarne solo alcuni. Ma quel che a me interessa particolarmente in questa commedia è che le situazioni e i personaggi hanno alcuni aspetti ricorrenti in tanti film italiani.

Il protagonista è uno scrittore; uno scrittore di dubbio talento, per il momento di nessun successo, comunque un uomo solo e triste, che vuole scrivere la sceneggiatura di un film, che sia di qualità ma che anche possa incassare un bel po’ di soldi.

Gli altri personaggi sono quelli che lui inventa, seduto davanti allo schermo del suo portatile; e con i quali di tanto in tanto dialoga, come se fossero persone reali (con un procedimento ripreso apertamente da Pirandello e dai suoi Sei personaggi in cerca d’autore).

Come per compensare la sua solitudine, inventa due famiglie, pittoresche e molto vivaci. Con le quali una sera lui stesso si ritrova a cena. In questa occasione egli conosce (immagina di conoscere) una bellissima ragazza che si innamora di lui.

Attenzione: ho detto che le due famiglie sono vivaci, ma vivaci solo apparentemente, perché, a ben guardare, sono corrose dalla stessa mancanza di vitalità del loro creatore. In una, per esempio, il padre, un ex-sessantottino che in passato ha fatto tanti avventurosi mestieri in giro per il mondo, ora passa le giornate seduto sulla poltrona del suo salotto, a fumarsi le canne. E, a quanto pare, esce soltanto per frequentare lo studio di una massaggiatrice cinese, che è in effetti una prostituta.

Il padre dell’altra famiglia è invece un professionista affermato – fa l’avvocato. È malato di cancro, e affronta la sua malattia sempre con il sorriso sulle labbra: un sorriso lezioso, con il quale sembra ostentare un distacco filosofico dal proprio male. Sua moglie non fa più l’amore con lui da molti mesi, ed è disperata perché quell’amore non le manca per nulla.

Quanto ai figli, certo, sono per il momento più freschi e più sani dei loro genitori; ma, da alcuni sintomi, sembrano incubare il loro stesso male. E qual è questo male, che si ritrova descritto più o meno allo stesso modo in tanti film italiani degli ultimi anni? È un male morale, o se preferite psicologico, che però a volte, si può somatizzare in un male fisico (in Happy family, addirittura forse in una malattia mortale). E si può definire, l’apatia. (O, con un termine più antiquato, l’accidia).

 

È ormai un luogo comune che non esistono più ideali né religiosi né politici. Non so se sia un luogo comune veritiero, è un problema per sociologi. Ma certo, i personaggi di questo film, sembrano incapaci di appassionarsi di alcunché, anche soltanto di un traguardo del tutto personale.

Lo stesso scrittore protagonista scrive la sua sceneggiatura senza crederci davvero, tentato in più occasioni di abbandonarla; come malinconica compensazione immaginaria ai propri fallimenti personali. E i due padri di famiglia, in apparenza molto diversi tra loro, fanno amicizia perché sembrano rispecchiarsi l’uno nell’altro, con simpatia, ma anche con una punta di disprezzo.

Sono tutti vittime di un’infelicità in cui si lasciano ricadere inerti, senza più nemmeno immaginare vie di riscatto praticabili. Fa male il cinema italiano a raccontarci questo stato di cose?

Certamente no, se è questo che sente di dover raccontare. All’arte si richiede prima di tutto, la sincerità. Ciò che rimprovererei però a Happy family è una descrizione alla fin fine consolatoria di questa malattia, che sembra suggerire che, suo malgrado, la vita è bella lo stesso. Gli autori non si esimono dall’appiccicare in coda un lieto fine (che però, va detto, è apertamente artificioso). E per farci ridere, quando in effetti non c’è nulla da ridere, almeno di un riso allegro, ricorrono a battute di spirito sforzate.

Ora, se il male è grave, la diagnosi deve essere chiara e netta. Una falsa rassicurazione può essere pericolosa.

 

Gianfranco Cercone

(da Notizie radicali, 15 aprile 2010)


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