Archeologia editoriale
Archeologia editoriale. Beppe Costa: Romanzo siciliano (Pellicanolibri, 1984) 6
Lettura di poesie all
Lettura di poesie all'Alexander Platz di Roma, 1983 
27 Febbraio 2010
   

PARTE TERZA

 

1

 

Quante volte dopo avere deciso trovava delle giustificazioni per il rinvio. La scusa di essere ne­cessario, che troppe persone avrebbero sofferto senza di lui.

Marco, come tanti, è presuntuoso: hanno biso­gno di me. Dite come? Quale necessità è vitale nella vita di ciascun individuo? Parlandone però sapeva bene di aggiungere un altro neo ai tanti già presenti: non era capace di uccidersi, solo di parlarne, come fanno in troppi.

Risente come nel ‘68 di nuovo i discorsi sulle comunità, del vivere e soffrire insieme, del risolve­re comuni problemi, unendosi agli altri. Ma gli altri non erano stufi degli altri? E gli altri non sono come noi, come?

Quante volte fingere, con l’idea del gioco, dello scherzo, perché la vita è breve e bisogna goderla? E poi è soffocata o stravolta subito dopo da nuove mode. Eppure Marco sa, conosce, c’è abituato, quindi ha l'esperienza (grande giustificazione degli adulti) quindi può parlare più forte, sentirsi più sicuro. E questo lo fa guardare con sospetto dai nuovi sfruttati. Oltre al fatto che Marco sa fare tante cose, si sacrifica, si mortifica, rinuncia. Marco mentalmente decide, poi non esegue o almeno mai quanto vuole egli stesso.

Come quando era partito senza sapere dove si sarebbe fermato: Firenze, Ravenna, Bologna, Tutto così, come incidente.

Si era ritrovato con un flauto accovacciato per terra, ancora a dare spettacolo. Parlando, suonando e guardando nel vuoto. Gli chiedevano sempre le medesime cose:

– Che fai?

– Giro.

– Da dove vieni?

– Un po’ dappertutto.

– Ti fermi?

– Non so. Secondo se la polizia lascia in pace.

– Io qui ci sto bene. Tu fai collane? Io non so farle.

– Sì, faccio collane, quando mi va.

– M’insegni? sono stufa di fare colletta, non rende mica come le collane e mi prendono per puttana.

– Sì...

E a quel punto cominciava a guardare il volto della persona con cui aveva parlato. Non appena cominciava a fare lui qualche domanda gli diceva­no sempre: «Dai, continua a suonare, sei bravo...» oppure: «Hai imparato da solo?» Siamo sempre così bravi ad imparare tutto tranne che a vivere.

In quel periodo la cosa che strabiliava di più Marco era il tempo, tutto suo, completamente. Non portava orologio, non aveva appuntamenti. Impe­gni, rientri a casa. Solo il denaro lo costringeva a muoversi, suonare, fare collane o colletta è sempre tempo per i soldi! E quelle stupide domande della gente curiosa, da turismo: «Come mai uno come te?» «Ti lavi?»

Anche quella volta gli accadde di innamorarsi ma come altre volte lei voleva solo le parole di Marco, la sua presunta o apparente serenità che, comunque, riusciva a trasmettere. A Marco in quel tempo di amori sublimi e liberi sembrava ben poca cosa avere solo amicizia. Avrebbe voluto il corpo. Possederla, cioè renderla vittima del desiderio e poi buttarla via come sentiva facevano con lui.

Forse il fatto di scoprirsi troppo, di raccontare tutto di sé, non lo rendeva interessante. Non c’era più nulla da scoprire dopo averlo sentito parlare per un paio d’ore. Non dava neppure, specie alle donne, l’impressione di stare male, di soffrire, di volere fortemente amare. Inconsciamente riusciva a celare i propri sentimenti e invidiava gli altri, co­nosciuti per strada, che, più giovani di lui, sembra­vano maggiormente liberi. Uno, due, cento come tanti: Wolfang, Sergio, Jonatan, Mario o semplicemente Trapani, Palermo, Rimini, o ancora: Cardiazolo, Eroina, Morfina, Trip, Cobra.

Questi amici di strada con cui si comunicava a volte solo con gli occhi gli avevano fatta scoprire la dolcezza dell’amicizia senza rapporto di potere. Non contava l’abilità dell’imbroglio né il denaro.

Così, non appena qualcuno di loro lo incontrava, voleva portarlo con sé e non capiva perché, neppure se lo chiedeva troppo. Molti di quelli che si bucavano e suonavano volevano sempre tirarselo dietro. Stavano meglio, si giustificavano. Marco ci andava volentieri, la richiesta lo faceva sentire più utile e vivo o, più semplicemente, stava così in compagnia. Fino a quella volta, in marzo, a Firenze.

Wolfang camminava avanti a tutti, aveva una bottiglia d’acqua. Dietro stava Silvio, procedeva a tratti come a cercare il terreno a ogni passo. Infine Jonatan sottobraccio a Marco. Gli aveva mostrata una scatoletta seminascosta dalla mano:

– Cardiazolo – disse – non abbiamo trovato altro il solito amico farmacista di Silvio. Omaggio della giornata per levarselo di torno, sai com’è? così non gli suona alla porta per tutta notte. È incazzato lo stesso però, speriamo non ci mandi tutti in paranoia.

Marco chiese se fossero pasticche da diluire.

– Sì – rispose Jonatan – ma non sono buone come quelle del mese scorso. Danno un breve flash ed è anche un po’ pericoloso, ma non c’era altro.

Chi era Marco in mezzo a loro? Cosa rappre­sentava? L’immagine sbiadita di un fratello o di un padre che non avevano mai avuto? testimone di una tragedia che non voleva concludersi o l’altra faccia dell’umanità dove non volevano o non pote­vano più rientrare?

Che c’entravano loro con le lotte degli operai o degli studenti? Eppure anche questo era il ‘68, anzi Marco ne coglieva solo questo aspetto, tutto il resto gli appariva utopico o bisogno di alcuni gruppi, intellettuali, sindacalisti, professori, politici di fare carriera, di affermarsi.

Erano queste le comunità, i bisogni, gli affetti, le carezze, la negazione del vivere in due, della coppia, del possesso di ogni genere. E soprattutto del proprio tempo. E però perché questo tipo di droga o perché il fumo lui lo giustificava, anzi ne andava pure matto.

– Non la fate allora – rispose a Jonatan preoccu­pato – vedrai che prima di sera troviamo qualco­s’altro, magari da fumare.

– Intanto oramai c’è e, anche se è facile per te dire non la fate, la facciamo di certo. Anche fosse solo un breve istante la faremmo ugualmente. Quando ho il flash il tempo si ferma. Mi ritrovo con davanti tante direzioni. È inutile spiegarti, per quanto tu possa essere in gamba, non capiresti lo stesso. Bisogna provare.

– Non credo sia così difficile da descrivere. Ogni volta che ne parlo con qualcuno, mi si dice sempre che si arriva a Dio, e siete tutti atei, che si comprende il significato dell’amore, però poi mi accorgo che sono le stesse cose che so senza fare i buchi nella pelle. Non solo, ma appena cessato l’effetto, smantellano tutto ciò che hanno detto prima. Non ci capisco niente, ma mi sembra solo un gran bisogno d’amore che non riuscite a confes­sare.

Jonatan un po’ teso aveva risposto brevemente: ­

– Forse hai ragione e comunque non me ne frega niente ugualmente.

– Sì, sto parlando degli altri ma la prima perso­na che mi ha fatto notare questo sei proprio tu, caro Jonatan, forse perché non scopro nessuna differenza fra quando ti buchi...

– Senti, io ho rinunciato non solo a risolvere i problemi, ma anche a pormeli. Solo il buco mi interessa. Solo quello è mia madre, il mio amore, il mio dio e la mia puttana!

Wolfang intanto aveva girato per un viottolo inoltrandosi fra i rami. Lo seguimmo meccanica­mente finché non si sedette. Erano soltanto pochi metri dalla strada, Marco non si sentiva troppo sicuro, avrebbe preferito si fossero inoltrati ancora di più nella campagna, ma non disse nulla. Non voleva creare apprensione.

– Qui va bene – disse Wolfang – passami la scatola.

Jonatan tese il farmaco, Silvio glielo strappò dalle mani e l’aprì, poi si avvicinò alla sacca di Wolfang e tirò fuori la siringa. Doveva essere molto usata. Dalla bottiglia versò alcune gocce sull’ago, quindi lo immerse tutto nella fiala, tirando più volte lo stantuffo. Le mani tremavano parecchio.

Si ricordò di quando, avrà avuto dieci anni, stava giocando con altri ragazzi nei giardinetti na­scosto allo stesso modo e con le stesse ansie, alle belle statuine. Mentre i bambini stavano girati di schiena le ragazze dovevano spogliarsi un po' alla volta facendoli girare per ogni pezzetto di corpo che veniva mostrato. D’improvviso spuntò dai ce­spugli un uomo in divisa che li costrinse a seguirli sino al posto di guardia.

Sarebbe sprofondato in terra per la vergogna, si sentiva svenire. Per la prima volta aveva pensa­to al suicidio, così la guardia sarebbe stata additata come il peggiore assassino.

Questo tipo di paura non abbandonò mai Mar­co. Non riuscì da quel giorno ad appartarsi con una ragazza né a piedi né in auto e neppure fra quattro pareti riusciva a celare l’ansia di essere scoperto.

Cercò di nascondere il proprio nervosismo per non contagiare gli altri che, forse, non ne avevano bisogno. Vide Jonatan con un laccio attorno al braccio iniettarsi il liquido, strofinare con forza, passare le mani sul viso e chiudere gli occhi, men­tre la fronte si distendeva. Wolfang stava fumando, si era già slegata la fascia dal braccio e sorrideva beato.

Guardò Silvio negli occhi, attratto. Erano vio­la Stava ritto e muoveva le labbra. Non usciva alcun suono, almeno udibile. Poi.lo vide muoversi, girarsi di scatto, infilare il viso fra i rami, si ritrass€ rapidamente scivolando in terra:

– Polizia!

Jonatan corse verso di lui, col viso imbiancato guardò nella stessa direzione. Marco fece la medesi­ma cosa. Niente.

– Non c’è nessuno! – la voce tremava pur nel tentativo di tranquillizzare. Il volto di Silvio pareva affaticato da anni di tragedia. Non c’era nessuno. Non c’era assolutamente nessuno. Ognuno tentava di convincere se stesso più che gli altri. Eppure ce n’erano tanti. Troppi.

Milioni di individui stavano lì ad osservarli: padri, impiegati comunali, madri, medici, carabi­nieri, ministri, cantanti, star del cinema che ride­vano e ridevano fino a stordirsi, poi li prendevano a sassate ed il sangue usciva dai loro corpi senza smettere in una prima e più drammatica allu­vione toscana. E poi ecco i volontari, i restauratori: studenti e soldati su quei corpi a riparare i danni, tentando di riportarli alle condizioni originarie, an­zi più lucenti e forti di prima.

Marco si sentiva bucato in ogni parte del cor­po chissà, forse era solo lui il drogato. Silvio si contorceva in terra, gli si sedette accanto, gli prese la mano che respinse.

Parlava a scatti a bassa voce e poi urlando:

– Il viaggio sta per finire, – Marco si avvicinò ancora di più alle labbra di Silvio:

– ...nessuna stazione attende... avanti... forze... i­nutilmente sprecate... non c’è aria labbra aperte... chiude... chiudo... tutto... fantasia ancora un po’ ...aiutami.

Silvio adesso stava urlando. Marco era impau­rito. Accadeva qualcosa di diverso dalle altre volte. Si rimproverò di essere lì, non c’entrava in mezzo a quella gente. Erano tutti estranei. Ripensò l’itine­rario, era lo stesso! comunque doveva e ci sarebbe arrivato. Era una scelta consapevole.

Prese nuovamente la mano di Silvio, gliela strinse forte, non venne respinta questa volta. Jonatan si avvicinò e gli prese l’altra.

– Non viene... – adesso sussurrava appena, – ...nessuno... voglio alzarmi... controllare la sta­tura... non vedi che rimpicciolisco... non posso chia­mare nessuno?... nessuno... quanta fretta! quanta fretta, perdio!... domande... risposte rumore... amo­re... sapere... non ho imparato. Io non ho impara­to!... non c’è niente da imparare... droga... colore ca­lore madri padri figli mogli... droga! inculate il mondo... idioti nessuno sa... sappia... abbia tempo nessuno... droga! lancette... silenzio... finite si scen­de... non è stato gratis... orecchie automatiche... per un’altra stazione... almeno qualche metro... an­cora... mi buttano giù, fuori... l’amore morto da Ada­mo... compresse, sposto il cervello... colore di gial­lo... corro sento carezze di ricordi uccidono... stracci... frullato amaro... non avere paura vieni. Venite. Qui c’è l’inferno bello... chi è in fondo?... lasciatemi le mani... sono mie soltanto mie e non voglio... chi chiama? spegnete il sole acceca! dio?!... già... diovi­ta... dioluce... diomorte... diodroga diogià... diorumore per nulla... dioamore falso... osceno... diovita per er­rore... non voluta neppure goduta... diocaso... sento un bu...co nel... petto... si allarga... c’è ancora posto per tanta acqua... distillata... gomma da mastica­re... cavalli di carta... stelle di natale... amore materno... bugie e carne in scatola... dove sei? dove cazzo ti sei ficcato?... centinaia di mani avete portato... per un laccio... diobuco... si allarga... si allaga... che gran­de petto... benzedrina... hashish... dio... tre cc di car­diazolo... dioago dove sei?... cazzo, dove ti sei ficca­to? centinaia di mani... per un laccio... il diobuco s’allarga... volano pesci di vetro... copertine, manife­sti... la foto di Mao... occhiali... lacrime... funera­li... coper-te... tutte conchiglie morte... vestiti a fo­ri... stanno morendo tutti insieme... nessuno pian­ge... nessuno piange?... tutti insieme a morire... in­tenti a morire... mi piove sopra... vero? in lacrime? nessun motivo... abbiamo finito... ciao... il manico­mio chiude... si tappa la bottiglia appena aperta è piena!... diochiude, cala il telo... mettere sigilli... cala l’ago... viene... ora chiude da bravo le mani... occhi cuore... così è più composto... birilli colorati in ogni direzione... mi vengono addosso... mi mescolo e sommo... sto bene... sono luce... non ci vedo... franco­mammacaralucia... sto bene... sto beneeeee!!!

Dov’era Marco? Si sentiva morire e pensava che era lui a morire. Cercò gli altri. Non c’era più nessuno, solo Silvio in terra. Con voce soffocata chiamò più volte, nessuna risposta.

Forse era andato tanto tempo prima. Aveva paura? era naturale! Non ricordò come fosse anda­to via da quel posto. Cosa accadeva? Si era imposto di non temere più niente. E invece di nuovo paura e non per Silvio o per Wolfang, ma per sé. Avrebbe fatto bene a fare anche lui il ‘buco’. L’aveva più volte pensato, era lì forse per questo. E invece no. Voleva aiutare gli altri! Eppure, quel giorno, senza ricordare come, né perché, andò via.

Doveva passare una settimana per avere noti­zie. E per alcuni furono notizie definitive.

 

Beppe Costa

Romanzo siciliano, 1984

 

6 - segue


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