Archeologia editoriale
Archeologia editoriale. Beppe Costa: Romanzo siciliano (Pellicanolibri, 1984) 5
14 Febbraio 2010
   

PARTE SECONDA (seguito)

  

2

 

Adesso Marco, dopo la parentesi cattolica, era ridiventato laico. Socialisteggiante. È inutile dire che si definiva anarchico, che avrebbe sputato vo­lentieri su tutte quelle facce, l’alibi anarchico non lo proteggeva più tanto. Non si usava ormai. Spro­fondava sempre più nel mondo delle raccomanda­zioni e, forse, altro mondo non esisteva.

Ma allora perché si ostinava a scavare sempre di più nell’ambiente detestato di cui poi non sape­va trarre profitto? Primo (giustificazione vera) Marco vuole il successo per sé e per il suo autore; secondo (giustificazione falsa) vuole essere certo che l’Italia è piena di mafiosi e raccomandati e in parte ci sta riuscendo. Infine: nel tempo intercorso tra la partenza e l’arrivo della ‘busta’ è abbastanza probabile che i due politici abbiano cambiato cor­rente e ciò è di gran lunga peggiore che essere di due partiti diversi. E tutti questi giri costano al povero Marco che a malapena riesce a sfamarsi.

Il suo autore è pure stanco. Più di lui. Vuole farla finita forse più del proprio protagonista. Spa­ratevi allora così chiudiamo con un finale nero alla francese.

No. Marco vuole vivere… e non si vive di solo pane.

Marco comincia a mangiare la carta come da tempo fa anche il suo autore che ingoia i fogli mal riusciti (e sono tanti) anziché buttarli. Sprecare la carta è un delitto. Per questo i libri costano tanto.

 

Guardandosi le mani di colpo era sparito dal volto dagli occhi tutto il suo rancore, la rabbia aggressiva, la voglia di finire, finirsi. La mano ormai disarmata aveva almeno lei esaurì­to il suo compito.

Una volta ancora rinunciava al proprio dolore pieno del dolore altrui di sguardi sofferti e smarriti di fallimenti presenti e passati.

Ricordava ancora una volta come ancora una volta riprendeva a farsi coraggio delle debolezze di quanti gli apparivano in ogni forma davanti. Non si accorgeva né notava minimamente o forse era proprio così che voleva continuare a vivere parlare ridere proprio perché gli altri erano infelici.

Smettete di tormentarvi e Marco non vivrà più.

La sua stanchezza svaniva. Ogni problema rimandato, rimosso o addirittura risolto. Egli era. Così. Anche se appariva nevrotico confusio­nario dispersivo infaticabile.

La sera soltanto, quando rimasto solo risen­tiva il cuore pulsare in maniera irregolare. Il petto fare rumore di catarro. Le mani tremare. Ma la sera come il giorno dura un momento e il sonno malgrado lento ad arrivare, arrivava. E il giorno appresso ancora.

 

Solo ogni tanto, come si usa e come accade a molti, Marco veniva travolto dal desiderio con crisi profonda del bisogno irrinunciabile di stare accuc­ciato, coccolato, insomma sì: il riposo del guerriero colpiva anche lui. La donna.

Ma ogni volta rimaneva un desiderio. Da mol­to tempo non riusciva a farsi accettare, doveva addirittura dare giustificazioni, come mai anche lui (per gli altri era scontato) aveva bisogno, anzi ‘il bisogno’. Se tu hai bisogno di me vuoi dire che sei un incapace. Se hai bisogno vuoi dire che non stai bene con te stesso. Così sei un debole e come tale non interessi più.

In quei momenti Marco desiderava morire, ma non morire sul serio. Cioè morire così, quasi che altri vedendolo lo avrebbero maggiormente com­preso, aiutato, coccolato. Ma la morte finta ‘per amore’, la morte come ricatto non serviva più. Come non serviva più il fatto di affaticarsi tanto, perché nessuno ti dice bravo o ti mette la mano spalla per farti sentire poco più che un verme.

Marco in effetti era un verme. Non basta ciò che fin qui sappiamo di lui a farlo giudicare tale? Marco voleva esserlo. Marco voleva essere tutto, l’uomo totale, anche questo. E soprattutto Marco voleva essere amato.

L’amore così tante volte descritto si sarebbe dovuto conoscere, capire, lui avrebbe dovuto sa­perne qualcosa, confrontarsi. Invece non gli risul­tava sebbene gli si rivolgesse in molteplici modi.

Si può affermare che fosse disponibile ad oc­cupare tutto il proprio tempo per soddisfare questo desiderio o bisogno o come altro si vuol defini­re. Amare facendone adesso il motivo della pallot­tola. Tutti avrebbero visto il suo buco in bocca. L’avrebbe tenuta costantemente spalancata e si sarebbero resi conto che stava per morire. Per amore e nella migliore tradizione. Sarebbe stato bello che il suo cuore si fermasse o, come si dice, si spegnesse serenamente davanti a lei, a loro, parenti, amici e conoscenti che l’avrebbero ammirato.

Bisogna ti ricordi di restare più che puoi cosi, a bocca aperta. Gli occhi sereni, ormai e fatta. (Sperando che arrivi qualcuno!).

Il motivo? la routine del male, di testa, di fegato, di denti, di pancia, di culo, di cazzo, e perché no? un motivo politico.

Vuoi ancora accarezzare un corpo. Il tuo, già flaccido, sciupato, vecchio e stanco ti impedisce? Volevi godere senza pudore? come fai a spogliarti? Il corpo non è come lo spirito che si può simulare.

“Che stronzate! uno in più da ricordare in futuro. Voleva conoscermi, entrando nella mia fica e non mi ha fatto godere per nulla. Poi mi vuole penetrare nella testa. Io godo nella fica. Nella testa c’è il computer, è dimostrato. Ci si imparano i quiz a memoria, stupido!” Una delle ultime frasi ascol­tate dalle ultime compagne rimaste alla fine degli anni settanta.

Non l’hai portata a letto. Tutti portano a letto. Il letto non serve per dormire o per morire. Tu sei diverso. Tu no. Sembra quasi bello sentirsi diverso. Nell’ottanta era già di nuovo una minoranza etni­ca, il diverso. Perché il conto non torna? Perché non invidi quelli che hanno il membro sempre teso all’orgasmo, al rapporto unico, inconfondibile: Il rapporto casuals!

Eppure li hai avuti i rapporti così, in altri tempi quando mentire era molto più facile, non perché le donne ci credessero, ma perché doveva­no tacere.

Quando l’amico ti diceva: “Le donne, caro compare, cercano cazzo. Se poi ce l’hanno ti chie­dono il resto. L’importanza di essere se stesse, realizzarsi, sentirse vive, ma dopo un po’ ritornano al cazzo e se non le accontenti ti utilizzano solo per raccontarti i danni e le collere che gli dà lui, oltre al cazzo”.

Così dopo poco più di sei sette anni erano ritornate più vittime di prima alle loro battaglie con i piatti e coi detersivi, con in più l’amarezza del miraggio di libertà e realizzazione subito sfu­mato, le meno furbe almeno.

Si rammentò quel giorno che gli dissero ‘paz­zo’, in coro. Il motivo? voleva andare a Roma. Chi va a Roma è pazzo o comunque diffidabile, almeno qui, a Catania. E dire che i treni ci sono regolar­mente, non nel senso dell’orario, dieci al giorno. Per lui no. Era pazzo.

La giornata era come le altre, al solito col cielo sereno sì da esserne stufi e col sole che scottava, gloria e vanto di tutti i ‘raccontatori’ di cose di Sicilia, almeno di quella Sicilia orientale che dà sul mare. Altrove altro discorso. A Enna infatti in quello stesso giorno c’erano cinque centimetri di neve.

Ora dopo quarantadue anni doveva dare ragio­ne ai suoi e agli altri, ‘i ragazzi del coro’: chi desiderava andare a Roma doveva essere quantomeno col cervello in sommossa.

Roma città frenetica. Avete mai trascorso ore 3,15 per fare 600 metri di via Etnea, no? provate! Roma che le bierre sparano all’impazzata e alla cieca? matto proprio. Ma i bierre non sbagliano mira, sosteneva Marco, ci azzeccano sempre, sono specialisti: avete mai provato a passare per il ‘bor­go’, oppure dare una scorsa turistica a Paternò, ridente località industrial-turistico-conserviera a trenta chilometri da Catania? Quando sparano lì non sempre ci azzeccano. O Napoli?

Roma è un’altra cosa. Ci sono gli artisti, i registi, gli omosessuali, le femministe e Marco Pannella. A Roma c’è tutto. E tutto si può. E ci sono ministri e ministeri. E siciliani.

Ormai da quel giorno del pazzo ci andava rego­larmente, una volta al mese e qualche volta anche due. Portava in media 450 raccomandate di racco­mandati per ‘caldeggiare’ a questo o a quell’uomo politico, un amico, l’amico di un amicò, il cono­scente dell’amico, il fratello e così via. Anche se lo contestavano per questo ‘vendersi’ non c’era uno che non gli chiedesse il favore. E  non si con­fondeva più. Era accaduto una sola volta un grossolano errore determinato da un pasticcio di giri: si trovò a raccomandare a un ministro il suo stesso segreta­rio personale.

Tutto scorreva liscio. Superato l’impatto della prima raccomandazione non ci furono più ostacoli: aveva quattrocentomila pratiche incarpettate sud­divise in sezioni. Stava diventando potentissimo e, se non fosse stato così ingenuo, sarebbe pure arric­chito. Ripensava con nostalgia al primo compromesso che, ribadiamo, come il primo amore, non si scorda mai.

L’aveva scelto col partito che più odiava: la diccì e lo aveva scelto con la solita fortuna proprio nel periodo in cui la diccì calava. Anzi precipitava tanto in basso come non era mai accaduto. Eppure l’aveva scelto allora con un ragionamento semplice loro hanno i soldi e il poteri, quindi è perfetta­mente logico cercare di torglierli a chi li ha.

Certo se avesse scelto un altro cavallo in quel momento forse la sua vita sarebbe stata diversa. A quel cavallo poi facevano da un po’ di tempo sem­pre accertamenti. Però quando era comunista ave­i soltanto sprecate energie a non finire. Marco, l'abbiamo detto, era un tipo rapido e i comunisti,  si sa, sono lenti, lentissimi. Anche quando parlano si riesce a seguirli, sono più soporiferi di una telenovela. Alcuni per dire solo quattro parole impiegano sino a sei minuti buoni. Figurarsi un intero discorso. E Marco non li aveva retti più specie quando uno di loro che comandava gli propose di presentarlo a un democristiano, che era un amico, e Marco doveva farsi furbo e allearcisi perché loro  comunisti di Sicilia) dovevano per forza trattare coi diccì.

Si era poi infatuato di quelli che stavano al­l'estrema sinistra, ma, da quelle parti, risultarono i peggiori.

Al nord era diverso, c’erano le fabbriche, i sottoccupati, i disoccupati non studenti e non  c'erano, cìò che più conta, genitori protettivi che pagavano i guai dei figli, almeno nella proporzione isolana.

 

 

3

 

Ripensò ancora una volta ai suoi amori. All’amore. A quell’età certo non poteva più, come da giovinetto, pensare ai momenti romantici, mano nella mano, la canzone disperata di Neruda e neppure a quelli più ardenti quando i sessi cominciavano a sfiorarsi e a fremere sotto i tessuti. Come e poteva pensare all’amore?

All’amore senza raccomandazioni, all’amore senza la politica? Insomma al privato senza il pub­blico o come si usava dire al personale senza il politico?

Tentò di sorridersi dentro, di farsi coraggio e gli sovvenne ancora che già s’era sparato e quindi non poteva suicidarsi nuovamente, che, infine, pri­ma o poi, sarebbe crollato sul pavimento, cadavere.

 

Cadavere così da solo con tanti vivi che se ne fregavano totalmente del suo gesto. Dov’erano tut­ti? In quella grande incoerenza che gli era passata accanto per tutta la vita Marco si sentiva a posto. In amore e in politica. Solo che sbagliava sempre periodo: quando andavano di moda i maschi, rudi, e potenti, lui era debole, romantico, illuso. Quando con enormi sforzi riusciva ad essere anche  lui ‘maschio’ c’era il flusso sentimentale.

Dopo un ulteriore tentativo di trasformismo in 'interessante’ il nostro eroe franò. Si indebolì si ammalò e non gli rimase che starsene lunghi periodi a casa a leggere. Studiò tutti i rami dell’arte, si impegnò politicamente a destra, a sinistra, al centro: fu insomma il classico prodotto di questa età contemporanea. La somma del negativo e del positivo. Faceva ridere e piangere e a volte disgustava. Tutto insieme. In Marco infine si concentravano tutti gli uomini della terra.

Cosa avrebbe dovuto fare d’altronde? Si rifu­giò nel silenzio quando andavano di moda i grandi parlatori, parlò troppo quando solo i taciturni erano stimati. I suoi scatti d’ira divennero feroci. Poi si precipitava nel letto per intere giornate senza più voglie.

Voleva essere un cadavere.

Voleva essere in effetti raccolto e riciclato nuovo senza alcun ricordo, senza rimpianti, senza memoria.

Voleva essere nuovo, dì nuovo.

Bambino e coi giocattoli questa volta. Con  un'altra famiglia e, soprattutto, nascere altrove.

Vivere il pratico avrebbe dovuto. Il pratico è diverso. Si sa che si deve mangiare, dormire, forse anche lavorare con le braccia e non con il cervello. Anche se è un’abitudine costante per milioni di esseri che si affannano per mangiare, dormire, forse anche sognare e scopare prendendo così poteri su altre persone. Possibile che il sesso sia un necessità simile alle altre ma di diverso tormento? Perché è difficile esigerlo?

Le ferite di Marco erano in fondo abbastanza banali, s’era trovato in ogni sorta di situazioni senza aver appresa l’arte di approfittare. Conoscevi tante persone che avrebbero potuto aiutarlo. Ma il suo enorme difetto lo allontanava sempre da qualsiasi forma di potere. Non si possono chiedere favori, anzi pretenderli, e poi appena ottenuti cercare di distruggere chi si era prestato a farglieli.

Non si chiedeva una lettera di raccomandazione, conservarla per poi mostrarla a tutti. Era logico che le voci si diffondessero e nessuno lo avrebbe più favorito. Così fu che si vide sbattere tutte le porti in faccia ad una età in cui era ormai impossibile ricominciare una qualsiasi attività. E a cinquant'anni Marco si ritrovò solo senza neppure il cane.

   

Le sue mani erano invecchiate precocemente stanche delle fatiche fisiche e delle ricerche. Gli avevano detto da piccolo ‘lavora sodo così da poter godere’ i frutti quando ancora non sei troppo vecchio’. Le mani non erano servite a nulla, tranne che a stringerne delle altre.

La sua voce annoiava oramai pure lui. Non dice più parole nuove da troppo tempo e troppe esperienze vengono buttate giù in fretta solo per  qualche giustificazione al suo stesso ciarlare: gli altri li sentiva sempre in agguato per scoprirlo, smascherarlo.

Forse nel cercare di imbrogliare ogni matassa, ci riusciva solo con se stesso, e non è poco. Anche perché ognuno ha le matasse sue.

Ricordava quelle scusanti dei compromessi, come aveva imparato, si chiamavano ‘piccole concessioni necessarie’. Per sé? Per gli altri!

Eppure, Marco, una morte felice deve esserci.  In questo mondo dove non manca niente, anche se sembra una affermazione ridicola è così. Semmai la distribuzione delle cose è sbagliata.

La morte felice o l’estrema ricerca della felici­tà, vedi Camus. Quel giorno infatti prima di affer­rare l'arma si ricordò riga per riga della Morte felice di Camus. Ma il suo autore preferito era morto in un incidente stradale.

 

Sembrava proprio che le necessità stessero mutando. Infatti in poco più di dieci anni tornava il desiderio di avere una famiglia e l’avere votato per il divorzio non significava assolutamente voler­lo in casa. Chi aveva i genitori separati o si separa­, egli stesso, ne usciva sconfitto. Così pure per l'aborto. In fondo era tutto così simile a tanti anni fa. Per la gran parte delle persone in effetti non quasi nulla. Erano piccoli sprazzi di moda. La scelta di un cantante anziché un altro e comun­que sempre imposta.

Rimaneva sconfitto il senso di qualsiasi lotta. Forse era questo a farlo arrabbiare maggiormente e la causa di tutti i suoi mali. Nel periodo di poco precedente il suo ‘insano gesto’ Marco scopriva che le persone che si separavano non erano più sotto i quarant’anni. I ventenni perlopiù stavano male, cercavano nei loro discorsi di nascondere le loro idee reazionarie. Pretendevano la famiglia a tutti i costi e nelle donne, inutilmente mascherandosi, cercavano fedeltà innanzitutto.

Tentare di capire era faticoso. Sconfitte dei giovani della sinistra che teorizzavano il rapporto libero e massacravano di botte le compagne per un semplice ritardo, cosa che Marco aveva visto fare a  suo padre sei decenni prima.

Forse bisognava annullarsi, bisognava solo ascoltare e aspettare gli ordini di qualcuno più bravo. Annullarsi in casa e fuori, con amici, estra­nei, parenti e conoscenti. Marco è sempre triste per tutti gli ultimi anni che precedono il suo gesto. Non vorrebbe più fingere, si maschera, fa il buffo­ne, non si innamora. Marco sarà per lungo tempo tutto ciò che gli altri vogliono lui sia. Marco non soffrirà più. Tornerà a sé. Ha un grande desiderio: amare solamente un’ultima volta conoscendo ogni pensiero e ogni desiderio della donna. Cerca di imbrogliare ancora con sorrisi, sguardi, gentilezze. Ma muore lentamente: Morirò di cuore come ho vissuto, aveva letto questa breve intensa poesia di Pacheco che gli si era appiccicata addosso per molti anni. La sentiva sua.

 

La gola intanto non fa dolore. Il buco grosso deve pure esserci, non è possibile che nessuno venga, lo guardi mettendosi a urlare. Non è possi­bile. Ferite ben più leggere hanno attratto folle di ammiratori, missionari in aiuto, donne piangenti, bambini che vogliono vedere e semplici curiosi. Tutto questo tempo trascorso a ricordare, a raccon­tarti a bocca aperta nell’attesa che venga qualcu­no... L’indifferenza è insopportabile, come vivere senza attirare l’attenzione, provocare invidia? Do­ve sono quelli che fumavano, che bucavano o che ti giudicavano perché tu ‘non’ bucavi. Adesso hai bucato. Fallito ancora una volta?

Non sei soddisfatto senza platea o vuoi addirit­tura che qualcuno arrivi e ti dia l’ultimo momento sublime d’amore.

Vedi la pistola in terra, si solleva, ti arriva alla mano destra, apri la bocca, parte il colpo, abbassi le mani verso il tavolo, la pistola è lì, nera, carica di morte... Quando verrà... Ineffabile voglia di vivere legata al desiderio della morte!

 

Beppe Costa

Romanzo siciliano, 1984

 

5 - segue


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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - R.O.C. N. 7205 I. 5510 - ISSN 1124-1276