Diario di bordo
Valter Vecellio. La situazione 
Da Bologna all'anagrafe degli eletti, inseguendo la scia del denaro
27 Gennaio 2010
   

L’ormai ex sindaco di Bologna Flavio Delbono (foto) «doveva essere più accorto. Ma nessuno si è limitato a dire questo: gli hanno dato del delinquente. Per altri di centro-destra che ne fanno di tutti i colori, nessuno ha gridato allo scandalo». Così Romano Prodi. Il sospetto di viaggi all’estero e di spese personali che si sospetta siano state pagate con carta di credito della Regione Emilia Romagna e poi fatte passare come spese di rappresentanza, devono – è evidente – essere provate; per ora Delbono è indagato per peculato, abuso d’ufficio e truffa aggravata. C’entra poco l’essere “accorti” o meno. Quello che bisogna capire è se Delbono è vittima di una montatura e di una speculazione politica, oppure se è un disonesto. Prodi ha ragione, quando dice che è presto per dargli del delinquente; e che altri del centro-destra ne fanno di tutti i colori; ma da quando il fatto che Tizio e Caio ne fanno di tutti i “colori” può giustificare o assolvere Sempronio per i suoi, di “colori”?

Una cosa, poi, colpisce. Cinzia Cracchi, la donna che ha fatto esplodere il caso, ex compagna di Delbono dice: «Prendeva lo stipendio da assessore regionale, seimila euro, e lo divideva in tre: duemila alla prima moglie; duemila alla seconda e mille alla ex compagna. Manteneva tre donne e due figli. Per me c’erano seicento euro, e quando gli chiedevo: scusa, ma come fai?, lui rideva: di cosa ti preoccupi? Faccio i convegni, mi danno un sacco di soldi, godiamoci la vita».

Niente da dire sul “godersi la vita”, però questo “faccio convegni, mi danno un sacco di soldi”, merita un approfondimento, dei chiarimenti. Chi organizzava questi convegni? Chi pagava, ed era denaro in nero o regolarmente contabilizzato? Perché Delbono era così richiesto e pagato? Sono interrogativi cui bisognerà che qualcuno risponda.

 

Non solo. Cinzia Gracchi racconta che Delbono per i suoi incontri privati utilizzava sempre l’automobile di servizio, autista compreso: «Sempre. Pure al cinema, andavamo con l’autista, ora che ci penso non riesco neppure a immaginare Flavio senza la sua macchina blu»; e aggiunge: «Che Flavio vivesse sopra le righe è cosa nota a tutta Bologna, largheggiava, gli piaceva trattare bene tutti, a cominciare da se stesso…». Auto di rappresentanza e autista per “affari” privati, e sempre da quel sacco di soldi che gli davano per i convegni… No, non è bello. Non lo è per nulla.

Viene in mente una bella, istruttiva pagina del Giorno della civetta di Leonardo Sciascia. Non quella, stracitata, dove il capomafia don Mariano Arena suddivide l’umanità, uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà. No, la pagina precedente. Quando il capitano Bellodi sente che il mafioso sta per farla franca, ed è tentato di usare quei metodi al di là e al di sopra della legge che utilizzò Cesare Mori, il prefetto di ferro mandato da Mussolini in Sicilia contro la mafia, e che per combatterla fece ricorso a ogni mezzo, salvo poi essere rimosso quando si mise in testa di colpire in alto, quei mafiosi che erano già parte del regime fascista. Il capitano Bellodi ha questa tentazione per un momento, poi la respinge, e dice che bisogna invece usare gli strumenti della legge, della legalità. Il romanzo è stato scritto nel 1959, e indica una strada che verrà intrapresa molti anni dopo dal commissario Boris Giuliano prima e da Giovanni Falcone poi: inseguire la scia che il denaro inevitabilmente lascia, sempre che ci siano persone capaci di vederla, e di volerla vedere, questa scia. E la pista del denaro, della contabilità quasi sempre a doppio fondo nelle banche, nelle aziende, la revisione dei catasti, vale per i mafiosi, dice Sciascia, ma anche «per tutti quegli altri membri di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i vicini di casa della famiglia, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso…».

Delbono non è un mafioso, figuriamoci; ma ciò non toglie che non sarebbe stato male se qualcuno avesse provato ad “annusare”, a confrontare i segni di una ricchezza ostentata con lo stipendio, tirandone il giusto senso. A Bologna e in chissà quanti altri posti, evidentemente.

 

E qui si arriva alla proposta radicale – purtroppo non accolta come sarebbe stato giusto fare – dell’anagrafe pubblica degli eletti. I tanti che oggi, a Bologna e non solo a Bologna si stupiscono e si mostrano preoccupati o indignati per i casi come quelli di Delbono provino a spiegare perché non hanno fatto nulla quando si proponeva l’anagrafe pubblica degli eletti, che avrebbe appunto consentito di sapere anche per quali convegni, e chi, dava a Delbono “un sacco di soldi”. E come sempre, è un discorso di informazione e di conoscenza. Non si sa per la buona ragione che si ritiene pericoloso far sapere. Il Satyagraha radicale alla fine è tutto qui.

Questa la situazione, questi i fatti.

 

Valter Vecellio

(da Notizie radicali, 27 gennaio 2010)


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