Rimeditazioni
Gerontocrazia, trasformismo, latitanza 
Non sempre la giovinezza è sinonimo di positività
12 Maggio 2006
 

Scrivo queste righe, che verranno alla luce a elezioni ormai avvenute, mentre la campagna elettorale è al suo colmo, e si moltiplicano i colpi bassi, soprattutto, occorre riconoscerlo, da una parte. A me però piace ricordare la felicità del ritorno al voto dopo il lungo digiuno elettorale del ventennio fascista e ripenso con nostalgia ad un articolo di quel grande maestro amico che fu per me Giuseppe Lazzati, uno dei costituenti, di cui è stata introdotta la causa di beatificazione, che celebrava come una festa il ritorno ai seggi. Era stato, proprio lui, uno dei protagonisti italiani della scoperta, da parte cattolica, del ritorno alla democrazia. Quella scoperta avveniva alla fine di un grande travaglio. La prima Democrazia Cristiana, quella di Romolo Murri, era stata oggetto di una condanna.

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Ascolto alla radio sul mio canale preferito, il terzo, un lungo e interessante dibattito sulla gerontocrazia, una parola greca che vuol dire dominio dei vecchi, in riferimento alle società occidentali, e in particolare a quella nostra, italiana. Il problema è più complesso di quanto la stessa trasmissione, pur ricca di spunti, faccia apparire. Non sempre la giovinezza è sinonimo di positività. I totalitarismi che hanno funestato e plagiato la prima metà del ‘900, quello fascista e quello nazista in particolare, su che cosa puntavano se non sui giovani? Sento ancora ritornarmi alle orecchie, tra i molti motti, magari stampati a caratteri cubitali sui muri lungo le strade, tipo “Mussolini ha sempre ragione”, oppure “Dio solo può piegare la volontà fascista, gli uomini e le cose mai” (a chi allora addebitare il tragico epilogo?), il “doppiamente ventenne” affibbiato al Duce. Per converso il Concilio, quella che fu chiamata la rivoluzione copernicana, da chi fu promossa se non da un vecchio, un grande vecchio, e da chi fu portato avanti? Da alcuni vecchi prelati e da alcuni anziani teologi, un Delubac, un Rhaner, un Congar, uno Chenu… che non erano degli uomini di primo pelo e che avevano una storia tribolata alle spalle.

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Le due manifestazioni susseguitesi a poca distanza di tempo prima in Inghilterra e poi in Francia, sia pure di alquanto diversa natura, mettono allo scoperto un interrogativo: terrà l’assetto democratico quale l’abbiamo scoperto, o riscoperto, dopo il crollo dei regimi totalitari? È un interrogativo da togliere il sonno a quelli della mia generazione.

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Un vecchio vizio, una vecchia piaga della vita politica italiana è il trasformismo. E questo fin dai tempi dell’unità d’Italia, ma forte anche da prima, se si pensa al vecchio motto popolaresco: o Franza o Spagna purché se magna. Su ciò esiste una vasta letteratura. In realtà a guardar bene nel fondo delle cose, è ben questo che sta all’origine della corruzione. Ma c’è un aspetto del fenomeno che indurrebbe all’ilarità, un’ilarità amara: lo spettacolo dei transfughi bloccati in mezzo al guado dai risultati del voto, senza più la bussola di un sorpasso clamoroso e bene in vista di uno schieramento sull’altro.

A proposito di trasformismo, si tratta di un fenomeno così radicato che non è cessato neanche nei tempi duri dell’occupazione tedesca e della Resistenza. Anche allora non è mancato – e chi ha la mia età potrebbe tranquillamente fare dei nomi – chi ha giocato contemporaneamente sui due fronti, traendone vantaggi che sono stati all’origine di successive fortune economiche a liberazione avvenuta.

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È andata male al “ragazzo di Salò”, il ministro che si occupa, anzi che si occupava degli italiani all’estero, visto i risultati elettorali che hanno dato la maggioranza all’Unione. La spiegazione me l’ha fornita un Marcello Andreola lucido come al solito: non vedono la nostra televisione, ridotta come sappiamo, salvo qualche angolino residuo. Io i “ragazzi di Salò”, li ho conosciuti e me li ricordo bene. Un’ala del nostro convento di Milano, il mio convento, era stata brutalmente requisita dal Transport Commandantur, il Comando Trasporti tedesco dell’Italia occupata. I nazisti, che si comportavano con i repubblichini come dei padroni con dei servi, avevano messo di guardia nella portineria su Corso Matteotti, che era anche la nostra, un manipolo di militari fascisti: dei veri piccoli teppisti, e così erano i loro commilitoni sparsi nella città. D’altra parte la cosa si spiega se teniamo in conto il fatto che in Alta Italia si era rifugiato il peggio del fascismo. A proposito di subalternità all’alleato tedesco basti pensare al processo di Verona che vide tra i condannati a morte anche il genero di Mussolini, Galeazzo Ciano. Era, sì l’epilogo tragico di una lotta intestina, ma furono i tedeschi a imporlo. Lotta intestina mai venuta meno all’interno o al di sotto della retorica unanimista che caratterizzava il fascismo: un Grandi o un Bottai non erano assimilabili a un Farinacci o a uno Starace.

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I quaranta e più anni di latitanza di Bernardo Provenzano hanno dell’incredibile. È difficile resistere al sospetto di qualcosa di concertato, naturalmente – e andreottianamente – a fin di bene, sulla base di un ragionamento che potrebbe essere così sinteticamente espresso: la mafia è un potere? Con i poteri si tratta. Un ragionamento non facilmente perseguibile penalmente, come si è visto.

Piuttosto interessanti le scoperte fatte nel rifugio, per esempio la Bibbia annotata di sua mano.

Tutto ciò sembrerebbe dar ragione a chi sostiene che la mafia non è un problema solo poliziesco, ma, purtroppo, anche una cultura.

 

Camillo de Piaz
(da Tirano & dintorni, maggio 2006)


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