Archeologia editoriale
Elisabetta Brizio. Romanzo sul Serchio. "La morte del fiume" di Guglielmo Petroni
Guglielmo Petroni
Guglielmo Petroni  
02 Gennaio 2010
 

e avrò un’ombra

che mi canti sotto le tempie

sarà l’inno nella cattedrale,

sarà un fuoco, un lume.

 

Se di nuovo t’avrò

il fuoco del mondo riscalderà

un altro deserto siderale,

il fiume di voci, di annunci

sfocerà nel linguaggio fondo.

 

Se la tua luce sarà tradotta

da chi ode i supersuoni

sapremo alfine di quale tempra

s’è fatto duro il giusto sogno

che ti percuote.

 

Guglielmo Petroni, Canto sotterraneo

 

 

Una significativa allegoria, quella dei versi in esergo, del passaggio dal subconscio alla coscienza (anche se si tratta di una coscienza trascendentale, stagliata nel reame dei “supersuoni” impercettibili - di una coscienza sovracoscienziale) attraverso l’immagine, la parola, il canto. E forse anche mediante l’essenza del ricordo, sottratta, direbbe Proust, “alle contingenze del tempo”, o forse immessa e redenta nell’ inestinguibile fluire del tempo. È quello che strenuamente cercano i due protagonisti di La morte del fiume di Guglielmo Petroni (1974, vincitore del Premio Strega): vale a dire l’assumibilità del ricordo in vista del disvelamento del valore del tempo trascorso, dell’insegnamento quintessenziale del passato, e del rinnovamento della vita stessa.

Avvicinandosi a Lucca, Stefano Calzolari, il primo dei due a comparire in scena, non riesce più a “pensare con ordine”, è perturbato da sentimenti di “fastidio” e di “attesa”, ciò che vedeva non somigliava a niente di quanto aveva fatto da sfondo al memoriale della propria adolescenza. E pensava, attenendosi ai referti del proprio sguardo, che certi suoi ricordi fossero solo l’esito di una scomposta e congetturante immaginazione.

La morte del fiume è un libro che riflette sul ritorno. Non un aspetto marginale appare qui la casualità del ritorno: Stefano torna a Lucca unicamente per un incarico conferitogli dal suo ufficio, una ispezione come tante altre, in altri luoghi. È un tornare fortuito, non voluto, non scelto, né indotto dalla nostalgia. Pertanto Stefano crede di poter affrontare la situazione “con animo predisposto”, immagina, in altre parole, di poterla padroneggiare.

Si credeva immunizzato alla commozione, nondimeno si accorgeva della propria vulnerabilità di fronte all’irrevocabilità dei luoghi, come una sensazione inattesa: “un formicolare di assolate felicità lontane” lo insidiava nel suo procedere dilazionato e divagante, ma non era quello “il momento di accoglierle”. Una certa movenza dialogistica sembra assumere il narratore in luogo di Stefano.

I segnali della vita che un tempo rompevano il silenzio della riva del fiume erano scomparsi, i luoghi paiono ora irriconoscibili. Ma “più in là della siepe”, oltre “l’argine alto che sbarrava l’orizzonte”, i referti memoriali incominciano a incorporarsi al proprio lontanissimo referente (come diceva Baudelaire, solo attraverso l’apertura dello spazio, la percezione di una “inebriante nettezza” delle figure, si accede alla profondità del tempo, eminente aspetto del pensiero). “Tra inquietudine e timore, tra la speranza e un disperar senza senso”, illudendosi di poter gestire il proprio stato d’animo.

Perché Stefano non aveva mai scelto di tornare a Lucca? Cosa voleva dimenticare della propria esperienza - variamente elusa, aggirata, surrogata dal sogno - oltre l’alibi della povertà? Qual è la sua âme obscure? Quali i momenti inconsciamente trasferiti? L’atteggiamento di Stefano è omissorio; il suo iniziale spaesamento è segno di altre assenze non nominate. Questo scavo memoriale viene condotto non tanto, o almeno non solo, a quel periodo, magico e turbato, della vita: Lucca è occasione avantestuale per scoprire il senso della labilità e della consapevolezza, del punto d’incontro in cui accade il processo di identificazione dell’io nella mutevolezza del tempo. Che marginalmente è anche il presupposto del romanzo successivo di Petroni, Il nome delle parole, del 1984, laddove alla frustrazione di una infanzia povera, e in seguito all’altrettanto frustrante educazione sentimentale del protagonista, il bildungsroman si concluderà con l’edificazione dell’immagine del letterato.

La rievocazione di Lucca nella retrospezione del protagonista si circoscrive - all’inizio del racconto - intorno all’immagine del Serchio, luogo di atmosfere e felicità esistite. La memoria preannuncia meccanicamente ma inciampa in un vecchio paracarro di pietra dove Stefano era solito appoggiare la bicicletta. Si verifica un rallentamento del flusso dei pensieri, che si ordinano a raccogliere l’immagine anelata delle acque del Serchio. Si assiste a una sorta di dilazione  - “viziosa”, direbbe Gesualdo Bufalino - del momento della vista del fiume e della città, luoghi che la memoria involontariamente anticipava e che Stefano al contrario si sforzava di rimandare, di ritardare, quasi dovesse percorrere una distanza immisurabile. Ma il fiume alla fine appare in tutto il suo decadimento e le sue acque somigliano a un liquido opaco e marcescente: “anche un fiume può morire”, scrive Petroni. Il Serchio ha scandito i ritmi e i confini dei giochi adolescenziali di Stefano e dei suoi compagni. Alla vista di un fiume agonizzante Stefano non può fare a meno di pensare al tempo, al suo passare rapinoso che travolge aspettative e ideali. E che, foscolianamente, “traveste” anche gli aspetti esteriori della natura. Il suo amico Sante Martelli gli aveva detto che “la memoria è una dote meccanica”, persuasione che si dissolverà in seguito all’impatto incidentale - e inevitabile, direbbe Proust - con il riemergere del ricordo.

Stefano riempie di sonorità e di verità la vacuità del fiume - la cui agonia egli avrebbe volentieri ignorato - popolandolo con i volti e le voci degli eventi del suo rammemorare, vivendo la rimembranza attraverso le conversazioni che allora avvenivano da una finestra all’altra, nel continuum del mormorio dei cortili. Ogni cortile assisteva al circolare delle informazioni, al di fuori di questa porzione di spazio le notizie erano rare e reticenti, e appartenevano a un mondo straniero. La finestra aperta sul cortile costituiva la dimensione della vita: brusio, bisbiglio, chiacchiericcio, scambio di informazioni o al contrario silenzio, vale a dire chiusura delle finestre. Il cortile ha un suo codice linguistico che cambia con il mutare degli eventi. Ora è un acceso conversare, ora un “parlottare” sommesso, un commentare l’eco degli avvenimenti cittadini, stravolti da “quelli che vogliono mettere ordine”, da una storia ancora incomprensibile alla dimensione del cortile.

Il 1920 e il regime vengono raccontati con le voci ancora vivide del ricordo e con le microstorie dei personaggi. Alcune centinaia di metri quadrati di uno dei quartieri popolari di Lucca, delimitato da varie tipologie di mura (quelle cittadine, le mura della prigione, le mura di un convento, quelle della la filanda della seta) sono lo spazio della storia, e della rimembranza. Le mura costituiscono una frontiera, come in Sereni sono chiusura e varco, luogo liminare sempre revocabile. Che magicamente si apre, evadendo verso il fiume, scenario della vita vera dei giovani di allora. Ma nella narrazione del ricordo c’è anche la storia che ha condizionato le vite dei giovani stroncando le loro illusioni e i loro sogni, immessa nella microstoria del quartiere, in cui giungevano solo gli echi della violenza squadrista: nel quartiere la storia comunque entra, turbando il suo equilibrio. Ma pressoché inesistente è la reazione popolare, inibita dalle argomentazioni della violenza.

Nel suo recupero memoriale Petroni crea spezzature tanto nella parola sempreuguale che nel flusso ininterrotto dei ricordi. Non solo con l’artificio narrativo delle trascrizioni dialogiche, ma per la continua integrazione dei diversi piani temporali: passato e presente incessantemente si avvicendano, finendo per costituire l’uno lo svelamento dell’altro. Il racconto segue uno sviluppo polifonico; gli inserti dialogici si alternano alla narrazione vera e propria, e divengono parte costitutiva e al contempo esplicativa della trama romanzesca, parti trascorrenti da una scena all’altra che ricolmano la vita dei personaggi. Narrativamente non lineare, di costruzione rapsodica anzi, il racconto poliforme di Petroni incorpora inserti dialogici, flashbaks, dislocazioni per uno sfruttamento di carattere sia espressionistico che psicologico del contenuto narrativo. Se l’analessi arresta il tempo della storia, provoca l’espansione del tempo della scrittura. E conferisce a un narratore più che mai onnisciente l’attitudine a conoscere le ragioni profonde dei personaggi del racconto.

La memoria riemerge attraverso questa rievocazione corale che per ampie sezioni del romanzo prende il posto di un narratore e che sotto certi aspetti ricorda il Verga verista, dove i fatti si raccontavano da sé. O certe descrizioni neorealistiche in presa diretta. Petroni trae eventi laterali, gesti e voci dall’inconsistenza, dall’opacità, e con l’immissione dei recitativi li salda, li traduce, conferendo loro verosimiglianza e significabilità. I personaggi secondari, lontani dal configurarsi come ombre che popolano il passato, conservando anzi la propria indipendenza, nell’orchestrazione narrativa assecondano e sostengono la ricomposizione identitaria dei protagonisti. È il caso di Zita e Giulietta, le donne che la vita ha indotto a declinare l’amore dei protagonisti, che godono di una loro autonomia e insieme sono subordinate al punto di vista di Sante e Stefano, costretti a dover decifrare retrospettivamente le ragioni della loro rinuncia.

Le sezioni dialogate e recitative risultano inerire sia all’attualità che al ricordo, indistintamente. E viceversa, parti del passato confluiscono nel corpo del testo. Inserti apparentemente dissociati riconfluiscono nel significato cumulativo dell’opera, vale a dire il recupero della totalità dell’io dei due protagonisti. Gli inserti dialogici sono introdotti nella narrazione direttamente, senza mediazioni, con un improvviso cambiamento di codice. La memoria allora si concretizza, si sottrae agli aspetti più labili e opachi, e ormai senza scorie diviene occasione di riflessione.

Scrive Franco Petroni (in L’esperienza del mutamento ne La morte del fiume): che in La morte del fiume convergono diverse forme narrative: “il romanzo saggio, affidato alle voci dei due amici tornati in visita alla loro città natale, che riflettono sui mutamenti che questa ha subito e sul degrado, legato alla modernità, della realtà fisica e antropica (da cui il titolo del libro); la registrazione in presa diretta, di taglio ostentatamente neorealistico e cinematografico, della vita di un ambiente sociale e delle sue voci; il romanzo di formazione”, il cui statuto narratologico è abbastanza eccentrico: infatti “sono due i romanzi di formazione, perché due sono i protagonisti (…), con le loro storie che  procedono parallele, evidenziano l’una a confronto con l’altra il loro significato, ma evidenziano pure quanto di simile nella diversità c’è nel destino degli uomini”.

Stefano tornerà a Lucca una seconda volta, dopo aver già ripercorso i luoghi della propria adolescenza. Fa il suo ingresso nel romanzo l’altro dei protagonisti, Sante Martelli, e con lui si intensificano le considerazioni sulla vita trascorsa, si verifica il cedimento a una volontà disvelatoria. Il racconto comincia ad avere uno spessore diverso, si coagula sull’essenza del ricordo, relegando le vicende storiche quasi allo stato di epifenomeni. Assistiamo allora alla risoluzione della narrazione in saggio, sbiadiscono gli altri elementi per il prevalere della necessità, da parte dei protagonisti, di svelarsi, di diradare l’intrasparenza del rapporto con la propria esperienza. La mozione soggettiva della memoria diviene occasione di pensiero sul senso del tempo, e, di conseguenza, sul piano diegetico si verifica una crescente dissoluzione dell’intenzione narrativa con il prevalere della riflessione.

Sulla mutazione del fiume, immagine dell’eternità, e sulla trasformazione delle cose,  Stefano s’interroga: perché si è destinati “a vederlo disfare come il volto di una fanciulla morta”? È sul nesso della trasformazione, sulla qualità della sottomissione al tempo, dunque, che i protagonisti si soffermeranno, sulla mutevolezza che incombe su tutte le cose, e che pare renderle irriconoscibili. E Sante: “quello che andiamo cercando noi non c’è più, anzi forse quello che cerchiamo e che crediamo che sia il nostro passato non è mai esistito, è differente, noi cerchiamo ciò che vorremmo, ma la realtà è che anche un fiume può essere morto”. La dimensione del fiume costituiva per Stefano un luogo di dimenticanza, dove la miseria non arrivava, tra cielo e terra “pareva di essere immersi in un ciclo completo dove nulla manca e nulla è in più”.

Dei due Sante sembra il più disilluso: ”la fanciullezza contiene l’annuncio della libertà che non si vedrà mai, è la libertà dello spirito che nessuno vuole ascoltare. La fanciullezza è composta di una serie a catena di travolgenti creazioni, è una forma di verità su cui intervengono le forze distruttrici delle convenzioni”.

Stefano e Sante partono insieme alla volta di Lucca; nella penombra dell’osteria, ferma ai tempi della loro giovinezza, “simbolo” e “reperto archeologico”, il narratore ipotizza le divergenti impressioni dei due protagonisti. Per Sante è “come guardare l’itinerario del cammino già compiuto verso la morte”. Per Stefano è “come sentire che si è perduto più di quanto non si sia acquistato nel cammino della vita”.

Sante si inoltra da solo verso Lucca senza più paura degli abissi della propria mente,  “controfigure di altri vuoti che nel profondo teme e aspetta”. Oltre la soglia della cattedrale lo attende Ilaria del Carretto, che trattiene le ombre del passato, “il tempo lontano e i suoi misteri”:

 

Intanto lo investe l’antico alito quasi gelido e con esso la memoria che in quel luogo l’aria stessa è viva e avvolgente. Entrando affretta il passo dentro la lieve ma ininterrotta sonorità dell’ambiente, sa dove va così direttamente trascurando tutto il resto, là l’aspetta Ilaria del Carretto.

 

È la stessa Ilaria che in Il nome delle parole ispirava il protagonista-narratore nei suoi momenti di perplessità:

 

Prima dell’incontro con lei, l’amore (…) s’era fermato a lungo, anzi perduto, sul profilo della mia concittadina Ilaria, la quale, nel gelo del suo marmo lucido, mi faceva credere che la beatitudine esistesse, o almeno, fosse esistita.

 

Dice Sante: “chi si accorge della metafisicità che il tempo immisurato che Ilaria comunica ai suoi visitatori attenti sa come la vita rallenta davanti a quella immagine, esce dal tempo, divaga oltre la realtà come dinnanzi a tutte le circostanze nelle quali accade di riconoscere il riflesso di un mito impossibile”. Ma per Sante tutto ciò è trasparente. Incomprensibile, al contrario, è il fatto che il sonno di Ilaria finisce in lui per ridestare violentemente il passato, e particolarmente il suo amore per Giulietta:

 

l’insorgere degli umori, delle tremanti incertezze che credeva sepolti, misterioso è il ritorno violento perfino dei colori, dei valori tattili, dei lievi sussurri che ora sono lì presso a lui senza che il tempo li abbia consumati.

 

Monumento al fervore giovanile, malgrado l’aura divina che emanano l’effigie di Ilaria e il suo corpo adagiato nella morte. Passione giovanile, si diceva, sia per la giovane età in cui l’autore realizzò l’opera, sia per la variegatezza delle sue superfici, la carnosa rotondità dei putti, l’esecuzione minuziosa delle capigliature e delle foglie. Gli stessi lineamenti di Ilaria, distesi, luminosi ma non per questo stilizzati, evocano l’immagine di una giovane dormiente. Ora Sante fugge da quella Ilaria, che a differenza di Giulietta “ha un sorriso innestato nella sua antica morte, Ilaria che può entrare dentro la mente.” E forse non è casuale che il capitolo successivo sia dedicato al ricordo della madre.

Sante afferma che “c’è chi torna nei luoghi della gioventù, dell’infanzia e non riesce più a trovare nulla: gente che potrebbe anche non essere esistita. C’è chi cerca ciò che non è mai esistito, perché ha detto di sé, a se stesso, cose non vere. C’è chi ha tramutato la propria realtà passata in un mito e, se lo ricerca, si perde. Gli uomini temono il proprio avvenire, ma è del passato che debbono aver paura. Se non lo sanno ritrovare in tutta la sua realtà, non trovano se stessi, ed il loro avvenire è l’incognito.”

Riappropriarsi del proprio passato evitando di smarrire la base fondamentale della vita equivale dunque a “imparare a morire, a saper morire, come dire vivere meglio”: è perseguimento dell’armonia tra esperienza e memoria, nel convincimento che il “suggerimento del vivere” sia da ricercare nelle forme esperenziali del passato. Armonizzandolo, il mutamento non sarà vissuto come perdita e dispersione, accumulazione e disgregazione.

Dice Sante, proustianamente: “non è facile recuperare così volontariamente il proprio passato, in genere non se ne trae un’immagine che risponde a ciò che desideriamo, non a quello che realmente è stato. Ci si crea gli alibi, i veli, i paradisi artificiali, le illusioni, col proprio passato”, un’eccedenza di vuoto che finirebbe per sancire un falso senso di consistenza. E Stefano, anch’egli in costante decodificazione dei segnali del ricordo: “Se abbiamo strappato a questi luoghi quello che di noi si erano trattenuti, ora finalmente ce ne siamo liberati”. E ancora: “il mondo si allarga intorno a noi quanto più si resta fedeli alle origini”. Più avanti, Sante, come una conferma: “se uno perde l’immagine della propria origine perde se stesso, finisce per nutrirsi di parvenze”: come dire osservare la propria nichilistica estraneità nei confronti del proprio passato, e la vita stessa come conflitto e inadempienza. Sante perviene a conclusioni quasi proustiane, nell’affermazione che una “sensazione fisica ne ripete una dimenticata”, conduce a qualcosa di ulteriore rispetto a uno sforzo volontario della memoria. Le sensazioni fisiche, pregnanti, “smuovono un ricordo interno, lo riportano dal profondo (…), dal mistero di ciò che l’ha registrato, più che mente, il corpo stesso del nostro essere”.

Un romanzo sul ritorno, una rivisitazione non indotta dalla nostalgia quanto da una volontà di investigare, nel tempo e nello spazio, soprattutto in sé stessi, e in vista della riconciliazione con la propria esperienza. In tal senso La morte del fiume è un romanzo di presenza, una quest “meridiana” sul senso del proprio vissuto, una continua tensione verso la definizione dell’esistere. La quale muta, con il tempo. Nessuna meditazione desolata sul tempo perduto e sulla tirannia del tempo insidia queste pagine di Petroni, quanto il consolidamento della propria identità attraverso la comprensione del mutamento: “tutto passa e tutto lascia traccia”, dice un grande cantore. La metafora assoluta del fiume è luogo di svelamento, di ricerca di significato nel trasmutare di quei segni situati tra l’oblio e il percorso obbligato della difesa. E non a caso Petroni sceglie un luogo eracliteo: il senso del libro slitta allora dallo storico, pur marcatamente declinato, alla temporalità, al sentimento del tempo, al tempo non più vissuto come assoggettamento all’estinzione. Vivere il tempo come kairòs, sembrerebbero dire i due protagonisti, in armonica continuità con il passato, non come chrünos, nel qual caso dovremo fare i conti con la nostra frustrazione per l’esperienza irrevocabilmente defunta. Scrive Moreno Montanari in La filosofia come cura: “la capacità di accettare l’irreversibilità del tempo che passa, ma non sparisce, può dare vita ad un nuovo inizio che dà slancio al futuro proprio in quanto sa redimere il passato”. Con la rimozione, le esperienze traumatiche che si tende ad eludere ritorneranno come adombramenti implacabili a condizionare negativamente il nostro tempo. Perché, scrive ancora Montanari, “siamo l’esito di quanto abbiamo vissuto, siamo ciò che ci è accaduto e il modo in cui lo abbiamo elaborato. Il nostro presente comprende tutto il nostro passato e ogni volta che diciamo di sì ad un solo istante della nostra vita la riaffermiamo nella sua interezza”, oltre, e aldilà, della coscienziale disseminazione dei vissuti.

E in La morte del fiume l’elemento liquido favorisce questa riacquisizione identitaria nel ricongiungimento a una temporalità ritornante ed effabile, che attraverserà anche il tempo a venire. (Da: "Pagina Tre", 8. XI. 2009)

 

Elisabetta Brizio


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