Lo scaffale di Tellus
Marco Cipollini. L’arte dell’imitazione (XIV): Le cimitière marin, Il cimitero sul mare di Paul Valéry
12 Dicembre 2009
 

Nemmeno azzardo un commento minimo perché troppo ci sarebbe da annotare su questo celebre carme, che già al suo apparire fu giudicato in patria tanto bello quanto oscuro; addirittura un certo colonnello Godchot ne fece una versione in francese (penosissima) per renderlo più fruibile. Solo una glossa: l’ultima parola, “focs”, cioè “fiocchi”, si riferisce a un tipo di vela, ed è quindi metonimica per barca a vela, che poi è analogica delle colombe che “marchent” sul tetto-mare… Basta così. Uno studio ramificato del Cimetière, che in un primo tempo era stato titolato Mare Nostrum, si trova – se si riesce a trovarlo – in un bel saggio-commento, ormai vecchiotto: Paul Valéry, Il Cimitero marino, a cura di M.T.Giaveri, ed. Il Saggiatore, 1984; ma la traduzione lascia perplessi. Per quanto poco possan valere certe asserzioni risolute, si può affermare che questo carme è forse l’ultima espressione compiutamente classica della poesia francese. Riguardo la traduzione, è risultato ovvio adottare l’eterno endecasillabo; che però tende a banalizzare il décasyllabe originario, il quale per Valéry fu invece una scelta metrica e ritmica peregrina. Ma per il poeta di Cette (oggi Sète) la nostra lingua costituiva, essendo sua madre italiana, un legame linguistico fortemente affettivo. (mc)

   

 

 

IL CIMITERO SUL MARE

         

                  Anima mia, vita non sognare immortale,

                      ma solo persegui opere perfettibili.

                                                Pindaro, Pitiche III

 

 

Quel tetto, calmo, ove incedon colombe,

palpita luce tra i pini e le tombe;

Mezzodì esatto compone di brace

lì il mare, il sempre rinascente mare!

La ricompensa, che segue al pensare,

è un lungo sguardo alla divina pace!

 

Che limio di lampi fini consuma

il gran diamante d’indistinta spuma,

e quanta calma qua si fa presenza!

Quando un sole riposa sull’abisso,

opere pure di un disegno fisso,

scintilla il Tempo e il Sogno è conoscenza.

 

Saldo scrigno, nudo tempio a Minerva,

blocco di quiete e nitida riserva,

acqua accigliata, Occhio che di fiamme

veli tanto sopore in te serbato,

mio silenzio!… Dentro me edificato,

ma Tetto d’oro là di mille squamme!

 

Tempio del Tempo, in un sospiro infuso,

salgo qua a un punto puro a cui mi aduso,

circondato dal mio sguardo sul mare…

Come agli Dei suprema di me offerta,

scintillazione serena a quest’erta

sparge semi di un sovrano sdegnare.

 

Come il frutto si scioglie in dolce essenza,

come in delizia cangia la sua assenza

in una bocca ove sua forma smuore,

qua il profumo del mio futuro odoro,

e all’anima svanita il cielo è un coro

di rive metamorfiche in clamore.

 

Bel cielo, vero cielo, trasfiguro!

Dopo tanto orgoglio, dopo un oscuro

ma turgido inagire, a questa ampiezza

splendente m’abbandono: da me scivola

sulle morte dimore l’ombra frivola,

e al suo labile transito mi avvezza.

 

L’anima esposta a torce di solstizio,

io ti resisto, luce di supplizio

che irradia una giustizia senza cuore!

Pura ti rendo allo spazio tuo arcano:

spècchiati in me!... Ma nel renderti emano,

quanta luce, metà di tenebrore.

 

Oh per me solo, solo a me, in me stesso,

alle sorgive del poema presso

un cuore, tra il vuoto e l’evento puro

io l’eco della mia grandezza interna

attendo, l’amara e oscura cisterna

che del vacuo risuona in me futuro!

 

Sai, falso prigioniero del fogliame,

golfo che rodi queste grate grame,

segreti ai chiusi occhi abbagliamenti,

che corpo a torpida fine mi spossa?

Che fronte a questa lo attrae terra d’ossa?

Una scintilla qui pensa ai miei assenti.

 

Sacro recinto, frammento di Terra

che una luce immateriale disserra,

questo luogo, su cui una torcia incombe,

mi piace, d’oro e di pietra, che vibra

luce di marmi che le ombre equilibra;

fedele il mare dorme alle mie tombe.

 

Scaccia cagnesco ogni pio seccatore!

Solo, con un sorriso da pastore,

pasco a lungo, montoni misteriosi,

il bianco gregge di mie quiete tombe:

tu allontana le guardinghe colombe,

i sogni vacui, gli angeli curiosi.

 

Giunto quassù, l’avvenire è torpore.

L’insetto raschia esatto l’alidore.

Disgregato, arso il tutto, assunto in aria

a non so quale più severa essenza…

La vita è vasta, ebbra com’è di assenza,

dolce è amarezza, ed è la mente chiara.

 

Stanno i morti nascosti giù nel nero

che li riscalda, ne secca il mistero.

Non ha lassù Mezzodì un movimento,

chiuso in sé, pensa a sé, luce suprema…

Testa completa e perfetto diadema,

io sono in te il segreto mutamento.

 

Me solo hai per serrare i tuoi timori!

I miei rimorsi, i dubbi, angustie, errori,

sono il difetto del tuo gran diamante…

Ma nel buio, dai marmi fatto peso,

vaga un popolo d’ombre, parte ha preso

per te alle barbe, adagio, delle piante.

 

Si son disciolti in una densa assenza,

rossa argilla ha succhiato bianca essenza,

ne è il vivere in quei fiori che hanno fremiti…

Dov’è dei morti il gergo familiare,

l’arte propria, l’anima singolare?

Fila una larva ove sgorgaron gemiti.

 

Gli strilli di fanciulle pizzicate,

gli occhi, i denti, le palpebre bagnate,

malioso il seno che gioca col fuoco,

le labbra rubinose che si arrendono,

i doni estremi, che dita difendono,

tutto va sottoterra e rientra in gioco.

 

E a un sogno, anima grande, ancor ti attardi

che più non abbia i colori bugiardi

che fanno a occhi carnali l’oro e l’onda?

E canterai, fatta ormai vaporosa?

Va! Tutto fugge! Presenza io porosa,

anche la santa impazienza sprofonda!

 

Scarna immortalità di nero e d’oro,

consolatrice con l’orrido alloro,

che della morte fai un grembo materno,

che bell’inganno, e che pietà astuta!

Chi non conosce, e chi non li rifiuta,

quel cranio vuoto e quel ridere eterno!

 

Padri profondi, teste inabitate,

che sotto il peso di tante palate,

siete la terra che i passi ci ambascia,

il verme vero, che rode fatale,

non è per voi nel sonno sepolcrale,

ma di vita esso vive, e non mi lascia!

 

Amore forse? Odio di me stesso?

Il suo dente segreto mi è sì appresso

che posson tutti i nomi stargli bene!

Che importa! Vede, vuole, tocca, sogna!

Anche nel sonno la mia carne agogna

questo vivente che vivo mi tiene!

 

Zenone d’Elea! Zenone spietato!

Con quel tuo dardo mi hai trafitto, alato,

che vibra, vola, e non si muove affatto!

Nasco al sibilo, e muoio! Ah, il gran sole…

Ombra di cheli nell’anima vuole

che corra Achille, corra e stia nell’atto!

 

No, no… In piedi, a un’èra ancor non sorta!

Spezza, mio corpo, questa forma assorta!

Bevi, mio petto, il nascere del vento!

Una freschezza, dal mare esalata,

mi rende l’anima… O forza salata!

All’onda! Guizza alla vita redento!

 

Sì! Mare, grande madre di delirio,

pelle di pardo e clamide al martirio

di mille e mille idoli solari,

della tua carne azzurra Idra bramosa,

coda ti mordi d’iride squamosa

in un tumulto che al silenzio è pari,

 

s’alza il vento!... Tentar bisogna vivere!

L’aria immensa apre e chiude questo scrivere!

Osa l’onda sprizzare da aspri blocchi!

Volate via, pagine abbacinate!

Onde, frangete, su, gioiose ondate,

quel tetto, calmo al beccheggiar dei fiocchi!

 

 

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