News di TellusFolio http://www.tellusfolio.it Giornale web della vatellina it Copyright: RETESI Alberto Figliolia. In memoria di Luis Suárez, detto Luisito Un architetto. Fabbricante di bel gioco. Celeberrimi i suoi lanci di 30 metri, se non 40, che in un lampo e con millimetrica precisione coprivano le distanze collocando la palla sul piede del compagno lanciato in contropiede o alla porta avversaria. Luis Suárez Miramontes, per tutti Luisito, nato a La Coruña il 2 maggio 1935 e morto a Milano il 9 luglio del corrente anno, colonna della Grande Inter, numero 10 per antonomasia. Classe, eleganza stile, visione di gioco superba, un piede meraviglioso e anche una discreta propensione al gol. Fantastico quello realizzato in un derby dell’aprile 1967, 4-0 per i nerazzurri, con una serie di finte a sbilanciare i poveri difensori rossoneri per poi concludere con un delizioso semi-pallonetto. Artefice di grandi successi per le squadre con cui aveva evoluito – Barcellona: due titoli nazionali, due Coppe di Spagna, due Coppe delle Fiere; Inter: tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due Intercontinentali; Spagna: un Campionato d’Europa. E anche la squadra della sua città d’origine e la Sampdoria, ultima équipe vissuta come giocatore. Una carriera lunga e di successo, iniziata nel 1953 e terminata ben vent’anni dopo, a ben 38 anni. In tutto questo anche un Pallone d’oro nel 1960, miglior calciatore d’Europa. Luisito aveva scelto l’Inter. E Milano, al punto tale che nella città ambrosiana si era fermato a vivere, dopo le varie parentesi come allenatore, fra cui ovviamente quelle con la Beneamata della quale infine era divenuto un eccellente osservatore. Lo sguardo era finissimo al pari dei piedi. Tanto milanese da azzardare, dalla base di un italiano perfetto con quel pizzico di esotismo dato da un residuo di accento iberico, battute anche nel dialetto meneghino. Calciatore sublime, personalità forte, Luisito era un uomo oltremodo interessante: simpatico, ironico, di piacevolissima compagnia, una miniera di storie e aneddoti. Ben più di una figurina. Luisito era un patrimonio non solo interista, ma del calcio mondiale, un’icona, uno dei massimi interpreti nel ruolo di regista. Ci mancherà. Ma di lui rimarranno il ricordo delle grandi gesta calcistiche e della incredibile carica umana. Alberto Figliolia http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=87&cmd=v&id=24621 Alberto Figliolia. Urania e LeBron Questa volta ne ha fatti solo 17 (4/8 da 3), con 6 assist, non sufficienti tuttavia a smantellare la corazza targata Treviglio. 19ª giornata del campionato di A2 di pallacanestro, girone verde, l’Urania Milano incontra i bergamaschi della Bassa, uno squadrone costruito per andare in serie A, nelle cui file militano cestisti approdati in Nazionale e con un palmarès impressionante: Luca Vitali, Bruno Cerella, Brian Sacchetti, assecondati da uno straniero di grandissima classe, Jason Clark (26 punti pesantissimi), e da una guardia italiana che ha saputo spaccare la partita, Pierpaolo Marini (26 anche per lui). Per tre quarti l’Urania ha retto, nonostante le gravissime assenze di Matteo Montano e Rei Pullazi. Alla fine 72-84 per Treviglio. C’era entusiasmo all’Allianz Cloud dopo che il sabato precedente il play dei meneghini, enfant du pays, aveva sotterrato la Fortitudo Agrigento con 41 punti, 15 assist, 10 falli subiti e 49 di valutazione. Una partita epocale terminata ai supplementari e una prestazione mostruosa di Amato. Quest’anno nessun italiano come lui: né in A2 né all’immediato piano superiore. Peraltro la sconfitta contro il team trevigliese non pregiudica il sogno playoff dell’Urania, ancora quinta in classifica. Una équipe capace di stupire per tenacia e coraggio. Da segnalare nei ranghi ambrosiani la crescita costante di Michele Ebeling, figlio d’arte (il padre John con J.J. Anderson costituì una coppia spettacolare in quel di Firenze): tecnica e atletismo, testa e cuore, per un 1999 dal grandissimo talento e completezza (le sue 3 stoppate contro Treviglio sono state da urlo, compresa quella contro il nume Cerella lanciato in contropiede). Una stagione in ogni caso, quella dell’Urania, già ampiamente positiva. E nuovi tifosi si aggiungono a quelli storici. Una società ben condotta, con un settore giovanile oltremodo curato. Virtuosità sul parquet e dietro la scrivania perfettamente commiste. Fra le cose del basket da citare l’eclatante record, l’ennesimo, firmato da quell’immenso giocatore di nome LeBron James, il quale ha sorpassato nella classifica dei marcatori all time nella regular season NBA tale Kareem Abdul-Jabbar, niente di meno che il re del gancio-cielo. Per lui 38390 punti (ampiamente aggiornabili, ovviamente) in una carriera che ha dell’incredibile, già leggendaria. Il primato di Jabbar pareva insuperabile, ma non si erano fatti i conti con il ragazzo di Akron che veleggiando verso i 39 sta ancora impartendo, emblema di dedizione e classe senza fine, lezioni di basket ai suoi più giovani colleghi. Non si contano più le sue vittorie e successi, individuali o di squadra. Detto del recentissimo record, come non ricordare i 4 titoli NBA con tre diverse franchigie – Miami Heat, Cleveland Cavaliers, Los Angeles Lakers – e gli ori olimpici (2)? Un giocatore senza punti deboli, come il suo idolo d’infanzia MJ, un predestinato sin dalle high school, uscito da una infanzia difficilissima (padre assente, fu cresciuto dalla mamma), agonismo, tiro, atletismo devastante, arte del passaggio, carisma e un non indifferente bagaglio d’intelligenza cestistica e non solo. LeBron ha deliziato tutti e a lungo e, nonostante l’età, potrebbe ben continuare a meravigliare le platee USA e del pianeta. Un’icona nel gioco e nel riaffermare ideali per battaglie di principio e di civiltà. Quando il campione non si nasconde fra le pieghe del successo mediatico, rinchiudendosi in una torre d’avorio... LeBron James è il degno erede di quel nobile giocatore che è stato e dell’uomo che è Kareem Abdul-Jabbar. Alberto Figliolia http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=147&cmd=v&id=24486 Alberto Figliolia. In memoria di John Fultz Uno dei primi Giganti del basket da me comprati aveva John Fultz in copertina. Kociss, già coi capelli lunghi, iconico. È stato davvero un grande giocatore e una persona oltremodo intelligente, originale, mai scontata, mai banale. John Leslie Fultz, nato a Boston il 20 ottobre 1948 e morto a Bologna, sua città adottiva, il 13 gennaio 2023. John, 199 cm, ala grande o ala piccola, tiratore e attaccante eccezionale, vincitore della classifica marcatori nel campionato italiano di serie A 1971-72 con la maglia dell’amata Virtus Bologna. Anche se in Italia era arrivato dapprima in Lombardia, dopo la carriera universitaria a Rhode Island Rams durante i cui anni aveva avuto modo di confrontarsi, mai sfigurando, con quel genio dell’atletismo che era Julius Erving, alias Doctor J (scusate se è poco!). Con i varesini John, tesserato come straniero di coppa, conquistò una Intercontinentale e giocò una finale di Coppa dei Campioni, in cui fu il miglior marcatore (22 punti), con il CSKA Mosca. Poi, come detto, quegli intensi brillantissimi anni a Bologna, da sempre Basket City. Tre anni all’ombra della Garisenda, nella Dotta e Grassa, predicando basket, bel gioco e non rinunciando al proprio patrimonio di idee e ideali. I suoi modi da hippy, la fascia a cingergli i lunghi capelli, un genere di vita alternativo, nel bene e anche in qualche eccesso, lo rendono un personaggio estremamente popolare. Ma lui è uno di quelli genuini, non artefatto. Ed è un campione sul parquet. Con i felsinei vince una Coppa Italia, ma dovrà emigrare prima al Viganello, in Elvezia, con cui vincerà una Coppa di Svizzera, poi all’Austria Vienna. Un breve ritorno in Italia, a Pordenone e, infine, l’esperienza in Portogallo con lo Sporting Lisbona, con cui conquista il massimo torneo lusitano. John ha accompagnato un pezzo della storia personale di noi ragazzi di quella generazione, per cui la gioia di poter giocare a basket, anche su un campo in terra battuta – polveroso o fangoso secondo il meteo – era impagabile. E in quelle interminabili partite cercavamo di imitare le gesta dei cestisti evocate da quel genio che era Aldo Giordani. John era un idolo ed era un uomo capace di andare oltre gli stereotipi. Praticava meditazione e yoga, aveva opinioni forti e libere. Un gran giocatore, un visionario di talento. Ho letto molti anni dopo la sua autobiografia, Mi chiamavano Kociss (Minerva Edizioni, 2011): onesta, sincera e coraggiosa. Come lui era. Sempre nel nostro cuore, John. Alberto Figliolia http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=147&cmd=v&id=24456 Alberto Figliolia. Il male oscuro dell’Olimpia Milano Il male oscuro che travaglia la Pallacanestro Olimpia Milano. Eppure è in testa alla classifica di serie A, nonostante la recente sconfitta ai supplementari contro Napoli. Il discorso scudetto pare ristretto alle due storiche contendenti, vale a dire la stessa Olimpia e i virtussini di Bologna. Troppe le sconfitte in Eurolega, a un certo punto nove di fila, poi un minifilotto di tre vittorie. Quindi ancora due capitomboli. Bruciante, per come maturata, la sconfitta, - 20 con soli 63 punti segnati e neanche il 20% nel tiro da 3, contro l’Alba Berlino, fanalino di coda prima di incontrare Milano, che ora giace in fondo alla graduatoria. Vero, la concorrenza in Eurolega è spietata: squadroni superattrezzati, con non meno storia dei milanesi (Real Madrid, Barcellona, Maccabi Tel Aviv), new entries ambiziose (Monaco), tutte le équipes, in ogni caso, ad alto tasso di rognosità tecnico-agonistica. Eppure a questa Olimpia nulla parrebbe mancare. La guida dalla panchina è eccelsa – come poter discutere Coach Messina? Lui per risultati e scienza cestistica è un guru, e certo non bollito – la proprietà solidissima, la squadra non è una mera collezione di figurine. Il roster è amplissimo e può ben compensare il panorama degli infortuni (anche se quella di Shavon Shields è un’assenza ultrapesante). Kyle Hines dalla ricchissima bacheca è un califfo, pivot bonsai ma statuario, tonicissimo nonostante l’età, un magazzino di esperienza e sapienza tecnica; Brandon Davies è un campione, movimenti perfetti, i suoi tiri escono splendidamente dalle mani anche in caso di alto coefficiente di complessità, intelligenza cestistica, versatilità; Nicolò Melli è uno dei migliori difensori d’Europa, carismatico e punti nelle mani; Billy Baron sa essere un tiratore mostruoso; Devon Hall è stile e classe; Pippo Ricci, Mister Utilità. Potremmo continuare con l’elogio dei singoli… Che manchi una quota e qualità di playmaking e leadership? La giusta tensione mentale che scema, talora addirittura scomparendo? Sono a ogni modo inspiegabili certi cali, quando non blackout, dei milanesi. Perché ormai non basta più primeggiare sui parquet del Bel Paese, Virtus permettendo o altri improbabili incomodi (la genuina commovente Derthona-Tortona, la pur profonda Venezia, questa forse la più accreditata terza forza del massimo torneo italico). Il palcoscenico su cui l’Olimpia di Giorgio Armani vorrebbe, soprattutto, esibirsi con successo è quello europeo. Ma, così facendo, l’itinerario pare oltremodo complicato, se non compromesso. Certo dispiace vedere alcuni italiani nelle file dell’EA7 giocare poco o nulla: Tonut, Biligha, Baldasso (ora ai box), Alviti. È il problema delle lunghissime rotazioni per una stagione incredibilmente lunga e faticosa. Innegabile che un male oscuro affligge i cestisti all’ombra della Madonnina. Eppure, con il recupero degli infortunati e sfruttando a proprio vantaggio la classifica corta, potrebbe bastar sistemare quelle due-tre tessere perché il puzzle continentale riesca. A Coach Messina, al prode Ettore, l’ardua sentenza. Alberto Figliolia http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=147&cmd=v&id=24447 Alberto Figliolia. Urania vs Latina, Campionato Basket A2 Urania, la musa dell’astronomia e della geometria. E siderale e precisa sino al 39-15, e anche un poco più in là, è stata l’Urania Milano nella quattordicesima giornata del campionato italiano di A2-Girone A contro la Benacquista Assicurazioni Latina. Davvero, per lunghi tratti della gara, un basket fluido e spettacolare per l’équipe di Coach Villa, che trova punti pesanti da Giddy Potts e da Andrea Amato, il quale alla fine accumulerà un minutaggio, il maggiore nell’ambito del suo team, di 35:07. Imprescindibili il talento e l’intelligenza del play meneghino. Con i due sopra citati nel quintetto base erano partiti Michele Ebeling, Rei Pullazi, solido, combattivo, tostissimo come sempre, e Kyndahl Hill: versatilità e atletismo in robuste quantità. E scorrono le trame e gli schemi dell’Urania di fronte a una Latina letteralmente annichilita. Poi le luci del Palalido (impianto gioiello) paiono spegnersi per i padroni di casa e Latina, alternando le difese – uomo, zona, zona press a tutto campo – chiude linee di passaggio e spezza i giochi dell’Urania. La varietà difensiva, asfissiante nei modi, toglie lucidità agli attacchi dei milanesi, i quali si fanno quasi riprendere. A dire il vero i laziali non riescono mai a mettere il naso avanti. Stringendo i denti, l’Urania rialimenta il vantaggio, che era stato persino di 27 punti, portando a casa dopo tre sconfitte consecutive una vittoria importantissima per la classifica (in quinta posizione, dietro alla gloriosa Cantù, Cremona, Treviglio e Torino) e per il morale. Punteggio finale 78-70. A fronte delle 21 perse che potevano costare parecchio all’Urania (solo 9 per Latina) vi sono i 42 rimbalzi (21 per i laziali) e i 21 assist (11 per gli avversari), oltre al 95% dalla lunetta, al 57,9% nei tiri da 2 e a un buon 39,1% da 3. E tanti i punti scaturiti anche dal contropiede milanese, 14, insieme con quelli provenienti dalla panchina, 21. Ottima la prova, nelle file dei locali, di Matteo Montano, cestista di sostanza e di stile: 14 punti, con il 71,4% da 2, il 50% da 3, il 100% ai liberi, 5 rimbalzi, 6 assist e 2 recuperi. L’Urania Basket può continuare ad alimentare l’idea della conquista dei playoff. Rimarchiamo quanto sia magnifico l’impianto di gioco milanese: un misto di altissima funzionalità in un’atmosfera intima a favorire un tifo intelligente, competente, corretto. Una casa perfetta per coltivare i propri sogni. Alberto Figliolia http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=147&cmd=v&id=24441 Alberto Figliolia. “Calciorama. I colori della passione” di Osvaldo Casanova, Gino Cervi e Gianni Sacco Osvaldo Casanova, Gino Cervi e Gianni Sacco Calciorama I colori della passione Hoepli, 2022, pp. 336, € 29,90 L’albiceleste va di moda. Una combinazione di colori molto riuscita per una maglia fascinosa indossata dai campioni del mondo argentini. Ancora dimora negli occhi l’epocale partita fra Argentina e Francia del 18 dicembre 2022: un 3-3 concentrato di pathos e di emozioni senza fine. Uno spettacolo da deliziare sensi e intelletto. Uno dei primi capitoli di Calciorama-I colori della passione – testi di Gino Cervi e Gianni Sacco, copertina e illustrazioni di Osvaldo Casanova – è dedicato al biancoleste: non solo Argentina tuttavia, ma anche Lazio con il suo deus ex machina Silvio Piola, fantastico centravanti le cui radici stavano fra Lomellina e Vercelli, recordman di reti nella storia calcistica del Bel Paese, campione del mondo 1938, ma mai uno scudetto in tasca. Sono 336 pagine che scorrono come un fiume: di colori e passione per l’appunto, sottotitolo perfettamente emblematico. Attraverso i colori delle più varie rappresentative, nazionali o club che siano, Cervi e Sacco hanno sviluppato una storia del calcio mondiale, all time, quanto mai originale, ricca di aneddoti e curiosità, con un impianto storico formidabile e un empito sentimentale preziosissimo. Si parte con l’arancione. E come non pensare all’Arancia meccanica che fu l’Olanda del 1974 (e, pur priva di Cruijff, quella del 1978), una équipe che rivoluzionò la concezione del gioco, dove tutti attaccavano e tutti difendevano, in un’occupazione degli spazi geniale, tecnica e atletismo al massimo grado (“Cruijff si muoveva agile e poi – swuososh! – faceva qualcosa di totalmente inaspettato. Poteva muoversi in un senso e di colpo cambiare completamente direzione”, David Winner). Ma la casacca arancione è anche della Pistoiese e di colui che nell’opinione generale viene considerato il più grande bidone nella storia del calcio italiano, tale Luis Silvio Danuello, dal Brasile alla Toscana a non miracol mostrare. Chissà da dove proveniva il buon vecchio Luis Silvio? Ma il calcio si nutre anche di figli di un dio minore... Dopo l’orange, nel dipanarsi del volume, è la volta dell’azzurro, del bianco, dell’anzidetto biancoceleste, del bianconero, del biancorosso, del blu, del giallo, del gialloblù, del giallorosso, del granata, del grigio, del nero, del neroazzurro, del rosso, del rossoblù, del rossonero, del verde, del viola, per finire con il multicolor. Una spettacolare carrellata, una discesa nei più bei meandri della storia del calcio attraverso l’iride. Nel capitolo dedicato all’azzurro fa giustamente la parte del leone il Napoli e con i partenopei il numero 10 per eccellenza, il sacro mancino che Diego Armando Maradona fu: ineffabile, sommo artista, quello de “La mano de Dios y el gol del siglo”. Quello, con buona pace di tutti, assieme a Pelé, la quintessenza del gioco. “Barrilete cosmico... de qué planeta veniste?”, urlava il telecronista argentino Victor Hugo (ah i nomi del Sud-America...) Morales. E azzurra è anche la nostra Nazionale, lascito dei Savoia – almeno questo ancora gradito. Una divisa sportiva che ha fatto sognare e disperare in egual misura. “Non ho motivo di scegliere. Per il Madrid non ci sono vittorie incompatibili, vogliamo tutto”, dixit Javier Marías. Il Real Madrid è, semplicemente, una leggenda, con 14 Coppe dei Campioni/Champions League in bacheca e, una sterminata galleria di campioni nel cinema della propria anima. Basti citare Alfredo Di Stéfano, la Saeta Rubia, secondo Brera il più gran footballer di ogni tempo, uno che giocava in ogni punto del campo e in ogni punto del campo era decisivo, il francese Kopa (nato Kopaszewski), Ferenc Puskás, il magiaro dal sinistro fatato, attaccante di un altro dei più grandi team della storia, l’Ungheria che perse inopinatamente contro la Germania Ovest il mondiale del 1954 dopo essere stata avanti 2-0. Una squadra che sembrava invincibile (giocava in rosso). E in bianco si schierano anche i brasiliani Santos (inscindibile dall’immagine di Pelé) e Corinthian FC, quello del Dottor Sócrates, che s’inventò un’autogestione dei calciatori denominata Democracia Corinthiana. Esperimento socio-calcistico senza eguali. In Italia il bianco è della Pro Vercelli, provinciale terribile (7 tricolori), del Padova (un terzo posto in serie A con Nereo Rocco negli anni Cinquanta). E ancora Inghilterra e Germania. Quando si dice bianconero inevitabilmente vien da pensare alla Juventus. Il capitolo si apre con il racconto dedicato a Carletto Parola e alla sua celeberrima rovesciata, icona e simbolo senza tempo: “Il capitano bianconero sembra in ritardo di posizione e sta per essere scavalcato dalla traiettoria alta del pallone. Mentre Pandolfini già pregusta d’involarsi libero, lui e la palla, verso la porta avversaria, Parola sorprende tutti con un gesto che, anche se nessuno all’epoca ancora se lo immagina, diventerà tra i più iconici nella storia del calcio. Destro d’appoggio, sinistro di slancio e richiamo ancora col destro a sforbiciare: il pallone viene colpito di collo pieno e rinviato lontano, dove non rappresenta più una minaccia per il proprio portiere”. Una sfida alla forza di gravità e alle leggi dell’equilibrio, istinto, atletismo e classe. Bellezza, in breve. Fra le squadre in bianconero citiamo anche il Cesena e l’Udinese, nelle cui file Zico deliziò. Doveroso, quando si parla di biancorosso, ricordare il Lanerossi Vicenza di Paolo Rossi. Pablito che vive nel cuore di tutti, uno dei principali artefici del trionfo mundial azzurro nell’anno del Signore MCMLXXXII. E una pagina è dedicata a quel gran talento, calcistico e soprattutto esistenziale, che fu Ezio Vendrame, poeta del pallone e non solo. In Spagna in biancorosso evoluisce l’Atletico Madrid: i colchoneros, alias materassai, sfortunatissimi protagonisti di finali di Coppa dei Campioni/Champions League, come quella che nel 1974 stavano vincendo 1-0 contro il Bayern Monaco, quando subirono allo scadere, al 120!, un gol su ciabattata da lontano dello stopper Hans-Georg Schwarzenbeck. Allora non si tiravano i rigori per decidere il vincitore. Nella ripetizione della partita i bavaresi di rosso bardati vinsero 4-0 iniziando in tal modo la propria dynasty. Per quel che concerne il blu si spazia dal Chelsea – e il suo Magic Box, tale Gianfranco Zola da Oliena – al Leicester che, magicamente condotto dal nostro Claudio Ranieri, ha vinto una Premier League, una delle maggiori imprese sportive mai verificatesi, all’Everton e al Rangers Glasgow. Per non parlare della Scozia. Decisamente il blu è gettonatissimo in Britannia e dintorni. Ma il blu è anche la couleur dei nostri cugini transalpini e di quella furia tecnico-agonistica di Kylian Mbappé. E lo fu della sepolta Jugoslavia. “La rivoluzione sociale in marcia si ferma meravigliata a vedere il signor Mané palleggiare e poi proseguire il cammino”, Vinícius de Moraes. Giallo oro (e verde) è il Brasile. Auriverde. Fútbol bailado. Una sequela di campioni mitici. Da Garrincha, una gamba molto più corta dell’altra e una finta diabolica, gioia del popolo, al sinistro del gatto magico Rivelino, inventore di quel raffinato gesto tecnico chiamato elastico. Lunga e ben articolata è la narrazione dedicata a Garrincha, figlio privilegiato dei numi del calcio e così sventurato poi nel suo lento implacabile declino umano. Gialloblù... Svezia, Verona (e l’incredibile scudetto 1985 con in panca Schopenhauer Bagnoli) e Boca Juniors, i genovesi di Buenos Aires. Giallorosso... Roma e il divino Falcão, il dribbling irresistibile di Bruno Conti, Fuffo Bernardini, in un’altra latitudine scopritore del Peppin Meazza, Agostino Di Bartolomei, il capitano silenzioso dal tiro proibito e dalla tragica fine. E Catanzaro, Messina, Galatasaray, Mechelen. Granata... La sola parola evoca la leggenda del Grande Torino, perito per intero a Superga nel 1949, l’aereo a schiantarsi fra pioggia e nebbia sulla collina contraddistinta dalla splendida basilica di Filippo Juvarra. Valentino Mazzola che si tirava su le maniche nel famoso quarto d’ora granata quando non si indulgeva più in alcun modo... “La tua faccia da operaio, mio Valentino! Mio Castigliano, Riga, Loik, e quel precisino di Gabetto, che faceva impazzire tutti con venti dribbling, e poi era già gol”, scriveva Giovanni Arpino. Pagine e pagine si dovrebbero scrivere sul Toro. “Rivera non era solo il Golden Boy (el Bambino de oro, tradotto in rocchiano) e l’Abatino. Era anche chiamato Nureyev per l’eleganza dei movimenti”. La bella descrizione è del compianto grandissimo Gianni Mura. Parliamo del grigio dell’Alessandria dove iniziò la sua meravigliosa carriera uno dei più forti calciatori di tutti i tempi e continenti. Una divisa bellissima quella dell’Alessandria, come la nebbia cha avvolge, ovatta e protegge quelle mura e quella pianura. Del nero celebriamo la maglia del Casale, con il suo bianco stellone. Campione d’Italia 1914, non dimentichiamolo. Nerazzurro vuol dire Inter. Vuol dire Meazza, vuol dire Ronaldo, vuol dire Grande, come l’Inter che dominò Italia-Europa-Mondo dal 1963 al 1966, e i suoi ultimi fuochi del 1971 e del 1972. Vuol dire Triplete (anno di grazia 2010). Al Fenomeno gli autori dedicano un amplissimo excursus e ben meritato. Mai s’era visto un attaccante con quella velocità abbinata a un controllo di palla splendido, con tutti i colpi del repertorio, finte e controfinte, dribbling ubriacanti, fortissimo fisicamente, capace di andare da porta a porta seminando difensori come birilli. La Beneamata, il Biscione è una delle squadre più amate in Italia e nel mondo. Pazza, fantasiosa, imprevedibile. Altre nerazzurre importanti sono Atalanta e Pisa. Ma ci piace citare anche Latina, Civitavecchia, Bisceglie, Imperia e, in Belgio, il Bruges. Rosso significa in primis Manchester United e quel mostro di classe e imago pop che era George Best – “Se non fossi stato cosi bello, non avreste mai sentito parlare di Pelé!”. Ma Eric Cantona pure è nell’empireo dell’immaginario calcistico: superclasse e una testa oltremodo pensante anche sui temi sociali più scomodi, evitati per il solito dalla banalizzazione strumentale del gioco. Il Liverpool in ogni caso non è da meno quanto ad appeal e vittorie. E che dire del Nottingham Forest? “Nel 1865 un gruppo di esuberanti ragazzotti decise di fondare il club e pensò di vestirsi con il Garibaldi Red in omaggio alla popolarità dell’Eroe dei Due Mondi che probabilmente per coraggio, patriottismo e spirito di ribellione da quelle parti ricordava il concittadino Robin Hood”. Altri rossi famosi: la Triestina, seconda nel 1947-48, e il Benfica di Eusebio; il Perugia del rivoluzionario Sollier, squadra capace di terminare imbattuta, sotto la guida di Ilario Castagner, il campionato 1978-79. Rossoblù... Il Bologna che tremare il mondo fa. E Biavati, Schiavio, Puricelli, Haller, Nielsen, Bulgarelli, Ezio Pascutti, di cui ancora si ricorda il celebre volo orizzontale a precedere la Roccia Burgnich per colpire di testa la sfera in un Bologna-Inter 3-2 nella stagione 1966-67. Il Bologna era la squadra per cui tifava PPP, appassionatissimo di calcio. Con questo binomio di colori giocano anche il Genoa, 9 scudetti, la più antica squadra squadra italiana, e il Cagliari di Giggirriva. Blaugrana è poi il Barcellona. Anche qui si dovrebbero spendere pagine e pagine di narrazione. Rossonero... “Saremo una squadra di diavoli. I nostri colori saranno il rosso come il fuoco e il nero come la paura che incuteremo negli avversari”, siffatto era il proposito di Herbert Kilpin, fondatore del Milan, l’altra squadra di Milano, altrettanto onusta di trofei e di gloria, alfiere il principesco Giannino Rivera. Ma anche i due Maldini, Mastro Liedholm, Franco Baresi, Marco van Basten, il cigno di Utrecht, una tecnica sopraffina, quasi irripetibile. E rossonero è il Foggia, ricordato per il bel gioco del profeta Zeman, cosi come il Flamengo. Verde... il Camerun di Roger Milla, la Nigeria, l’Irlanda, l’Avellino, il Saint-Étienne. Viola... La Fiorentina, specchio di una città che ha pochi eguali quanto a storia e bellezza, oltre che una passione sconfinata per il calcio. Per il bel calcio: Julinho, Antognoni, Roberto Baggio, Batistuta, Rui Costa... L’Anderlecht di Bruxelles. Lilla è il colore del Legnano. Poi ci sono le squadre multicolor. “Vedere giocare Sampdoria è come sentire bella musica”, Vujadin Boskov. Interessante il capitolo dedicato al St. Pauli di Amburgo, Zweite Liga tedesca: club che vuol coniugare agonismo e partecipazione, impegno sociale. Gli amburghesi godono di un tifo trasversale imponente. In definitiva Calciorama-I colori della passione (edito da Hoepli), del quale sono stati dati cenni e spunti, suggestioni, è un testo di vastissima portata. Un libro di calcio e, nel contempo, un volume di storia, scorrevolissimo e documentatissimo, fonte di innumerevoli e anche rare notizie. Un lavoro di ricerca davvero lungo, quello cui si sono sottoposti gli autori, che spazia accontentando e suscitando curiosità. Diviso in capitoli, sottocapitoli e schede, il libro ha il pregio di una ricchissima varietà e le tante illustrazioni, fra astrazione e precisione filologica, aggiungono pregio. Per ogni amante dello sport, della storia e della buona lettura un libro da conservare gelosamente nella propria biblioteca o da regalare. Alberto Figliolia http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=86&cmd=v&id=24417 Alberto Figliolia. Andrea Amato e Urania Basket Non chiamatela “la seconda squadra di Milano”, anche se milita nella serie A2. Per passione e serietà non è seconda ad alcuno e ha una storia lunga, che data dal 1952. Una lenta e bella scalata ai vertici del cestismo italiano, che forse non è ancora conclusa. L’Urania Milano gioca nella seconda versione del leggendario Palalido, luogo dove si è fatta tanta parte della storia della pallacanestro milanese, italiana e mondiale. E vi evoluisce con lo spirito di chi vuole onorare sempre il gioco. Il team, allenato da Davide Villa, ha un organico molto interessante, combattivo – in fondo sono dei Wildcats come quelli dell’Università del Kentucky – ed elegante: Giorgio Piunti; Matteo Montano; Rei Pullazi; Kyndahl Hill; Giddy Potts; Michele Ebeling; Matteo Cavallero; Matteo Chiapparini; Simone Valsecchi; Andrea Amato. Gli avversari con cui in questa stagione dovranno confrontarsi rispondono al nome di Pallacanestro Cantù (un colosso cestistico per storia e impatto), Cremona (due squadre), Treviglio, Torino, JB Monferrato, Agrigento, Latina, Piacenza, Rieti, Trapani, Stella Azzurra Roma, Piacenza. Un vero Grand Tour nel Bel Paese. L’atletismo di Hill. La devastante potenza fisica di Potts – 188 cm x 98 kg – non disgiunta da una tecnica di prim’ordine, campione d’Olanda 2021. La suggestione di Ebeling, versatile guardia-ala di 205 cm, figlio dell’indimenticabile John, che con J.J. Anderson fece sognare Firenze (una delle migliori coppie mai ammirate sui parquet d’Italia). E tutti gli altri che versano sudore e talento in quel gioiello del palazzetto di Piazza Stuparich. E, dulcis in fundo, Andrea Amato, 28 anni, 190 cm, il play della squadra che nel momento in cui scriviamo è sesta in classifica, con 5 vinte e 4 perse, reduce dall’aver espugnato il campo di Roma. Andrea Amato, milanese di Cesano Boscone, alle porte del capoluogo meneghino, scuola Olimpia e poi, nel suo curriculum, oltre all’Olimpia, Sangiorgese Basket, Junior Casale, Pistoia Basket, Vanoli Cremona, Scaligera Verona, Amici Pall. Udinese, Pallacanestro Varese, Nardò, Italia U18 e Italia Sperimentale. Un talento puro, fulgido, tecnicamente raffinatissimo, uno dei migliori giocatori italiani per classe. Un piacere per chi ama il bel gioco. Esteta della palla a spicchi e tremendamente efficace per visione di gioco, distribuzione assist e tiro risolutore. Quella che segue è l’intervista che gentilmente ci ha concesso. – Le origini cesanesi in una piccola società di periferia, fra metropoli e campagna periurbana. Com’è nata la tua vocazione alla palla a spicchi? La mia passione per la palla a spicchi è nata quando ero piccolo, grazie a mio papà, il quale mi ha trasmesso amore e dedizione a questo magnifico sport. Ricordo ancora i primi piccoli canestri in salotto e le sfide con lui con una palla di spugna per non fare troppo rumore… – Hai fatto tutta la trafila nelle giovanili Olimpia... All’Olimpia devo la mia crescita come sportivo, ma soprattutto come uomo. Le giovanili all’Olimpia sono un’esperienza di vita, che ti insegna i veri valori, il rispetto per l’avversario, il rispetto per sé stessi e l’accettare a sacrificarsi giorno dopo giorno per il miglioramento quotidiano. – Poi un gran girovagare per la penisola fra innumerevoli realtà... Ho girato tanto in questi anni, ho giocato e vissuto in moltissime città della penisola. Tutte esperienze bellissime, città con tradizioni, con costumi e usanze differenti. La pallacanestro viene vissuta in maniera differente in base alla città in cui ti trovi. In alcune è l’unica cosa che esiste, è la religione; in altre viene vissuta come il passatempo della domenica. La vittoria e la sconfitta vengono vissute anch’esse in maniera diversa, ma, nel dubbio, sempre meglio vincere. – Il playmaker, un ruolo oltremodo pensante… Nasco come playmaker, ma non disdegno di giocare insieme ad altri palleggiatori. Mi è sempre piaciuto mettere in ritmo i miei compagni. Non è facile sotto pressione, con la velocità del gioco e l’alternanza delle azioni tra attacco e difesa, saper scegliere lo schema giusto, il compagno da cui andare in un preciso momento della partita, l’essere sempre in contatto con l’allenatore. Mi considero una persona molto empatica, riesco a capire solo con uno sguardo l’emozione dei miei compagni, se sono felici o tristi, se vogliono la palla l’azione successiva o se preferiscono altro. Anche se a volte è difficile poter soddisfare tutti. – Parliamo un po’ dell’Urania, la tua attuale compagine: prospettive, dimensione societaria, ambizioni… L’Urania è una società sana, gestita da persone serie, competenti e vere. L’obiettivo di quest’anno è sicuramente il raggiungimento di una salvezza tranquilla, visto che ci saranno sei retrocessioni, ma penso che con il lavoro quotidiano e il miglioramento, alla lunga potremmo riuscire a raggiungere i playoff. – Talento o tenacia o entrambe per approdare ai livelli del professionismo e per restarci? Il talento è sicuramente importante, ma, se a quello non si aggiungono la tenacia, la voglia di lavorare e l’attitudine al sacrificarsi quotidianamente in palestra, non si arriva in alto. Un ragazzo può diventare un giocatore di serie A, “solo” con la tenacia e il lavoro. Al contrario, solo con il talento non si può. – Il tuo sogno nel cassetto? Il mio sogno nel cassetto è quello di riuscire a giocare più tempo possibile ad alto livello e, a fine carriera, voltarmi indietro e non avere rimpianti, sapendo di aver dato il massimo in ogni singolo momento. – Lo stato dei playmaker italiani? Playmaker italiani di qualità ci sono sempre stati, ma negli ultimi dieci anni si è preferito naturalizzare o andare a cercarli altrove. Sono contento che negli ultimi anni molti playmaker italiani abbiano sfruttato le loro occasioni per mettersi in mostra e guadagnare uno status importante. – Che cosa non va o che cosa deve essere migliorato nel movimento? Sicuramente i settori giovanili in Italia hanno avuto un calo drastico nella qualità del lavoro e nella capacità di sfornare giocatori in grado di giocare ad alti livelli sin da piccoli. Questo per me è il più grande problema attuale. Bisogna investire nei settori giovanili. – Il tuo ballhandling è eccezionale, il tiro può essere mortifero, la visione di gioco eccellente. Quanto ci hai lavorato e ci lavori? Ti ringrazio dei complimenti, ma si può sempre fare meglio. Palleggio e tiro sono le cose che alleno di più, da quando sono piccolo: tutti i giorni. Ore e ore passate in palestra, al campetto, in cameretta, a provare e riprovare. Il segreto è la costanza e la dedizione. – I tuoi beniamini cestistici? Il mio idolo cestistico, fin da quando ero piccolo, è Allen Iverson, giocatore dall’atletismo incredibile e dalla fantasia fuori dal comune. Ha inciso molto sul mio modo di giocare fino a quando sono arrivato a un momento della mia carriera in cui ho dovuto decidere se inseguire il suo modello oppure avvicinarmi a giocatori dallo stile meno elegante e spettacolare, ma magari più concreti e solidi, come Spanoulis o Diamantidis. – E in altri sport? Sono anni che non pratico altri sport per la paura magari di farmi male o infortunarmi. Meglio concentrarmi sul basket, finché potrò. – Hai ereditato i geni della fantasia e della creatività anche da tuo padre Domenico, grande pittore? Mio papà è un pittore incredibile e sicuramente essergli stato di fianco per tutta la vita mi ha aiutato ad alimentare creatività e fantasia. Ma è anche un cestista (seppure amatoriale) dalla grande visione di gioco e dall’estro importante. Ricordo che iniziai a provare i primi passaggi no-look dopo averglieli visti fare al campetto di Via Trento di Cesano Boscone, in cui passavo moltissime ore nelle mie estati giovanili. – I tuoi compagni e il tuo quintetto ideali? Ho avuto la fortuna di giocare con compagni fortissimi (e sempre brave persone). Se dovessi fare un quintetto dei compagni più forti con cui ho giocato o comunque con cui mi sono trovato meglio direi: Phil Green (Verona), Alessandro Gentile (Milano), Mattia Udom (Verona), Gerla Beverly (Udine). Ovviamente playmaker io (ride, nda). – Un messaggio ai tifosi dell’Urania e a quelli del basket in generale… Un messaggio che mi sento di mandare ai tifosi dell’Urania è quello di supportarci e di venire numerosi all’Allianz Cloud (il Palalido, nda), perché abbiamo veramente bisogno di essere trascinati dal pubblico milanese, un pubblico competente, che capisce di basket e che è capace di dare calore e amore ai propri giocatori. Vi aspettiamo numerosi! Chi scrive può confermare quanto sia appassionante assistere alle partite dell’Urania: un clima professionale e, nel contempo, di familiarità. Una società sana, con un bel panorama di giovani e giovanissimi cestisti alle spalle, pronti a entusiasmarsi per le gesta dei protagonisti in prima squadra e, magari nel tempo, con il giusto spirito a emularli. Alberto Figliolia http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=147&cmd=v&id=24389 Gordiano Lupi. “Tifosi interisti per sempre” a cura di Alberto Figliolia AA.VV., a cura di Alberto Figliolia Tifosi interisti per sempre Il grande racconto della passione nerazzurra Edizioni della Sera, 2022, pp. 160, € 14,00 Alberto Figliolia raduna attorno a sé un gruppo di scrittori innamorati della grande Inter, praticamente due squadre al completo, ben 22 autori, oltre lui stesso nelle vesti di allenatore - giocatore. Tra gli autori dei racconti citiamo Claudio Agostini, Federico Zanda, Giovanni Marrucci, Nicola Colombo, Lorenzo Meyer, Francesco Rota, Giulio Ervino, Albert Borsalino e un grande prefatore come il centravanti Renato Cappellini. Luigi Garlando scrive: “È dallo stile, dall’eleganza del cuore che si riconoscono gli interisti. Noi interisti siamo artisti pazzi, nati sotto la luna piena di marzo, ma il nostro cuore è una spugna immersa nel coraggio”. Come posso non dargli ragione? Sono interista da un lontano giorno del 1966 quando mio padre era in poltrona e bestemmiava per colpa d’un dentista che eliminava l’Italia dai mondiali d’Inghilterra. Sono interista dai tempi del mago Helenio Herrera che vinceva campionati e coppe, al cinema gli facevano la parodia sia Franco Franchi che Alberto Sordi, ma in campo non ce n’era per nessuno, altro che Mouriño! Sono interista da quando scalpitavo sin dal venerdì sera per andare la domenica con mio padre, pronto prima dell’alba in attesa del treno, a Firenze o a Roma per veder giocare Mazzola, Suarez, Jair e Vieri. Sono interista da sempre, anche se perdiamo con il Bologna per colpa d’un portiere che non raccoglie un passaggio, anche se non vinciamo campionati per anni, insomma, non sono juventino, il nerazzurro è una fede. Pure la squadra della mia città (Atletico Piombino) indossa identica maglia e fa parte - proprio come l’Internazionale di Milano - dei miei amori inossidabili. Il libro è una raccolta di racconti, l’impostazione è sentimentale, si viaggia sulle ali del ricordo, con un pensiero unico espresso a più voci, guidate da un direttore d’orchestra come Alberto Figliolia, che lega i ricordi con il filo sottile della nostalgia. Renato Cappellini firma l’introduzione, la sua figurina Panini è una mia personale madeleine, me lo ricordo con la maglia della Roma, del Varese, persino del Como e della Fiorentina, ero un bimbo quando segnò un gol al Real Madrid, vestito di nerazzurro, in Coppa dei Campioni. Alberto Figliolia lo conosco come esperto di calcio e di basket, critico letterario, giornalista sportivo, persino poeta (ottime le sue liriche nel mondo dello sport), ma in questo lavoro è anche ottimo selezionatore di talenti. I racconti ci portano a spasso nel tempo, fanno conoscere stagioni diverse della nostra Inter, ci ricordano che ha vestito la gloriosa maglia anche Vastola, non solo Meazza, Skoglund, Facchetti, Sarti, Burgnich, Lorenzi … Tifosi interisti per sempre è un libro che non può mancare nella biblioteca del tifoso nerazzurro, bello sin dalla copertina a colori che raffigura Spillo Altobelli, palla al piede, pubblico in dissolvenza, il centravanti che mi porta indietro nel tempo alla riscoperta della giovinezza. Gordiano Lupi http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=86&cmd=v&id=24369 Alberto Figliolia. Mario Bertini, umile e possente mediano Mario Bertini, classe 1944, pratese. O l’umile mestiere del mediano, elevato tuttavia all’ennesima potenza. Un centrocampista dal fisico robusto, con un’indubbia predisposizione al sacrificio, corsa e abilità nel contrasto, ma anche qualità tecnica e nella costruzione e un gran tiro con cui sovente poteva risolvere situazioni intricate. Prato, Empoli, Fiorentina, Inter, Rimini, le squadre della sua carriera. Nel suo palmarès una Mitropa e una Coppa Italia con la maglia viola nel 1966 – risolta, quest’ultima, da un suo rigore alla fine dei tempi supplementari contro il sorprendente Catanzaro che militava nella serie cadetta – e un campionato italiano con l’Inter nel 1971 – fu lo scudetto del sorpasso ai danni dei cugini rossoneri dopo una trionfale cavalcata di Mazzola, Corso, Facchetti, Burgnich e compagnia calciante. Bertini fu anche vicecampione del mondo a Messico e nuvole ’70, colonna di quella équipe azzurra che fece sognare con Italia-Germania 4-3 all’Azteca, anche se nulla poté, nella finale persa 4-1, contro il Brasile dei cinque numeri 10 in campo contemporaneamente. È il periodo d’oro di Mario che con l’Inter l’anno dopo si sarebbe, per l’appunto, laureato campione d’Italia in conseguenza della grande rimonta ai danni del Milan, gli ultimi fuochi di quella che era stato il grande team degli anni Sessanta. Anche se in quest’ultimo il Bertini dai basettoni stile Sgt. Pepper’s non aveva mai giocato evoluendo in quegli anni in Toscana. Mario da ragazzino giocava per strada – si poteva ancora fare – dove fu notato da un allenatore pratese. Pare che il ragazzo non avesse neppure un paio di scarpe da calcio; rimediò portando a un calzolaio un altro paio di vecchie scarpe in cui fece piantare sulla suola dei chiodi a mo’ di tacchetti. I piedi forse gli sanguinavano con quelle calzature di fortuna, ma il sacrificio sarebbe andato a buon fine... dalla strada alla serie C; da qui alla Fiorentina, con Uccellino Kurt Hamrin, lo svedese mediterraneo, Humberto Maschio, quello del trio de los ángeles con la cara sucia (gli altri due erano Sivori e Angelillo), e il carioca iridato 1962 Amarildo. Quindi l’inopinato trasferimento dai viola, perdendo così il treno del secondo scudetto in riva all’Arno (1969), all’Inter dove tuttavia ebbe modo anch’egli di attaccare il tricolore alla maglia. Dalla strada a Pelé il passo, come visto, fu relativamente breve... all’ultimo atto del Mondiale 1970 Mario Bertini se la dovette vedere niente di meno che con Edson Arantes do Nascimento, O Rei, ispiratore di quel meraviglioso Brasile. Il compito dell’impossibile marcatura era suddiviso fra lui e Tarcisio Burgnich (e fu la Roccia del Friuli a patire il pazzesco colpo di testa dell’1-0 firmato dal genio verdeoro). L’umile e possente mediano, appese le scarpette al chiodo, aveva accumulato un bottino di ben 44 reti in 307 gare nella massima divisione e 25 maglie e 2 gol in azzurro. Anche lui ha il suo spazio nella storia del calcio nazionale e non solo. Una cara figurina, e di più, poiché le figurine di quegli anni sapevano restituire il calciatore e, insieme, emanare una grande umanità. Alberto Figliolia http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=87&cmd=v&id=24362 Alberto Figliolia. Bruno Arcari, le cicatrici portate con orgoglio Il 1942, terzo anno di infausta guerra, si apre ad Atina, nel frusinate, con un lieto evento: la nascita di Bruno Arcari, che diverrà una delle glorie dello sport italiano. Pugilatore, 165 cm di tecnica, combattività, coraggio. La boxe potrà non piacere a tutti, susciterà remore disparate, ma non vi è alcun dubbio che i boxeurs non hanno mai storie banali. 73 incontri disputati, di cui ben 70 vinti (38 prima del limite), 2 soli perduti (mai per KO), 1 pareggiato a fine carriera contro il fortissimo Rocky Mattioli, futuro campione del mondo, un big a propria volta. Superleggero, welter junior e welter. Campione italiano, europeo e mondiale. Un unico punto debole: le arcate sopraccigliari, alle quali gli avversari miravano e contro cui tentavano di accanirsi. Inutilmente, a parte il primo combattimento e il dodicesimo della sua carriera, poiché per Bruno, prese misure e precauzioni, fu da qui in poi una striscia ininterrotta di successi, escluso il pari sopra detto. Il titolo iridato sarebbe arrivato nel ’70 contro il filippino Pedro the rugged (il ruvido) Adigue. Cintura poi difesa per 9 volte consecutive. Un match durissimo per entrambi. Bruno aveva in sé anche la rara virtù di saper soffrire, buttando il cuore oltre ogni ostacolo. Sostanzialmente un imbattibile. Senza tirarsela mai. Schivo di carattere, mai spaccone, non amava abbandonarsi a dichiarazioni o sceneggiate di sorta, strane coreografie o comportamenti bizzarri ed eccentrici. Semplicemente combatteva: preciso, serio, lineare, intelligente. Ardente e sapiente. Onesto. Un sinistro micidiale. Spietato, ma senza odio. Abile in tutte le fasi della noble art. Un fighter senza paura, le cicatrici portate con orgoglio, come una prova della durezza dell’esistere e della resilienza necessaria. Se la critica non lo amava del tutto, Bruno, il ciociaro adottato dalla magnifica Genova, era adorato dal pubblico. Nessun suo match lasciava delusi. Alcuni sostengono che egli sia stato il miglior pugile italiano. Più di Nino Benvenuti, tanto per dire, di cui non aveva il senso dello spettacolo (soprattutto fuori dalle corde del ring), la brillantezza della parlantina e lo splendore fotogenico, o di Duilio Loi o di Cleto Locatelli o di Primo Carnera. Invero tutti grandissimi, difficile fare una graduatoria. Di certo Brunetto sta nell’empireo. Fenomenale pugile e uomo, in tutta la sua umiltà, di formidabile spessore. Ha virato la boa degli 80 Arcari, un gran bel traguardo. A lui un posto di assoluto riguardo nella memoria e nella Hall of Fame dello sport del Bel Paese e mondiale. Alberto Figliolia http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=87&cmd=v&id=24332 Alberto Figliolia. L’implacabile “iradiddio” Bob Morse Nasce il 4 gennaio 1951 a Philadelphia, la città dell’amore fraterno, negli States, Robert Bob Morse. Biondo. Serio. Implacabile. Il più grande tiratore che abbia mai calcato i parquet della serie A di basket. Con buona pace del pur immenso Oscar, il brasileiro-casertano dalla mano torrida. Il fatto è che Bob tirava senza mai monopolizzare il gioco, e con percentuali stratosferiche. Nell’era del basket che non contemplava ancora il tiro da 3 lui la metteva dentro da distanze comunque siderali. E senza forzature: mai sotto il 50% di realizzazione, neppure quando negli ultimi anni nostrani, a Reggio Emilia, poté infine confrontarsi con il tiro da oltre l’arco. Un’iradiddio. Ma gentile. Uno dei rarissimi atleti che poteva e sapeva coniugare garbo con forza, educazione con spietatezza agonistica. Un giocatore completo in quanto capace di andare in doppia cifra, o di avvicinarvisi, anche nei rimbalzi. Usciva dai blocchi ed era una sentenza. Lento? Balle! Semmai uno scienziato nella gestione dei tempi e del rilascio della sfera a spicchi. Intelligente sino al punto di acquisire una tale padronanza della nostra lingua da poter insegnarla, nella sua vita post cestistica, in un college USA. Mai nella NBA, ma poco importa. Neanche là avevano tiratori di tal fatta. All’inizio della sua avventura i tifosi della valanga gialloblù varesina (allora dominante nei confini patri e continentali) non ne erano troppo convinti. Anche perché avrebbe dovuto sostituire in campionato l’azteco volante, vale a dire Manuel Raga, incontrastato idolo delle folle. Fino a che nel secondo tempo di un’amichevole non piazzò un incredibile (ma non per lui) 10/10. Alla fine della stagione 1972-73 l’Ignis Varese, con Morse in campo, avrebbe collocato in bacheca l’ennesimo scudetto + Coppa Italia + Coppa dei Campioni + Intercontinentale. Inimitabile. Magister! Nella nostra memoria, nei nostri cuori, per sempre. Alberto Figliolia http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=147&cmd=v&id=24309