News di TellusFolio http://www.tellusfolio.it Giornale web della vatellina it Copyright: RETESI Gianfranco Cercone. “Sotto le foglie” di François Ozon L’umorismo nero riesce a volte a farci ridere o sorridere su un argomento tragico come la morte, quando, per esempio, quella morte, più che una disgrazia reale, è un evento desiderato (perché può capitare a qualcuno di desiderare in cuor suo la morte di qualcun altro). E una trovata, appunto umoristica e surreale, realizza all’improvviso, inopinatamente, quel desiderio segreto. Una raffinata variante francese di umorismo nero così inteso - che si ritrova più spesso nel cinema inglese - è l’ultimo film di François Ozon, che esce in Italia con il titolo “Sotto le foglie”, ma il cui titolo originale è: Quand vient l’automne. L’autunno corrisponde qui all’età della protagonista, oltreché al paesaggio intorno a lei. È una signora anziana che vive, sola, in una cittadina francese. È una donna vivace, sensibile, soggetta ad accessi di malinconia. Le sue giornate sono ravvivate dalla compagnia di una sua vecchia amica, ma soprattutto dalla presenza di suo nipote, il figlio ancora bambino di sua figlia, che vive con la madre a Parigi, ma che va a trovarla, insieme alla madre, anche per passare le vacanze con lei. Esaltato dalla solitudine, quel rapporto con il nipote assume per la nonna le caratteristiche di una passione amorosa, suscitando in lei ondate alterne di euforia e di tristezza al momento della separazione. E come spesso capita alle passioni, si trova a combattere contro un ostacolo, in questo caso costituito dalla madre del bambino, la quale nutre un vecchio rancore nei confronti di sua madre, perché costei in gioventù, a Parigi, si era guadagnata da vivere attraverso la prostituzione, e adesso per questo la figlia non la ritiene una compagnia adeguata per il suo bambino. Ora: sarà che tale pregiudizio moralistico può apparirci ingiustificato, sarà che nel film la figlia è raccontata come un’ingrata, sarà che presa com’è da un eterno malumore risulta antipatica: fatto sta che il desiderio della nonna di farla fuori per accaparrarsi il nipotino, mentre siamo irretiti dalla visione del film, non ci sembra del tutto da biasimare. Tanto più che fra nonna e nipote si crea un’intesa ideale tanto piacevole a vedersi; e che il desiderio della nonna si fa strada nella realtà per vie tortuose e indirette, come un’amnesia o un gesto distratto, per esempio un fungo velenoso aggiunto per sbaglio a una pietanza. Il delitto avverrà in effetti in modo più complicato, tale da configurarsi come un delitto perfetto, raccontato nel film in equilibrio fra realtà e desiderio, verosimiglianza e assurdità surrealistica. E a tal punto l’autore ci coinvolge nel suo gioco, umoristicamente immorale, che ci induce perfino a guardare con simpatia il giovane criminale che sarà il “braccio armato” della nonna. Si tratta di un film forse minore di Ozon, ma, nei suoi limiti, cesellato a perfezione, anche grazie al contributo di attori tutti ottimi, tra i quali spicca la nonna interpretata da Hélène Vincent. Gianfranco Cercone (Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema” trasmessa da Radio Radicale il 19 aprile 2025 »» QUI la scheda audio) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=85&cmd=v&id=25064 Velletri. “Il Suono di Liszt a Villa d’Este”|Con la serie di concerti del solo mese di marzo 2025 si riconferma l’alto livello artistico della rassegna Una conferma forse scontata, comunque sempre da rimarcare, è quella del notevole valore espresso nella programmazione di questa rassegna concertistica, come tiene sempre a precisare il presentatore e curatore dei concerti matinée Giancarlo Tammaro, nata ormai 14 anni fa nella celebre Villa di Tivoli per il bicentenario della nascita di Liszt, e che per questo si è voluto mantenerla con il nome originario pur avendo cambiato sede più volte, ma sempre nell’ambito della provincia di Roma. La rassegna, organizzata dall’Associazione Colle Ionci con il contributo quest’anno della Regione Lazio, ha proposto nel solo mese di marzo 2025 ben quattro concerti: tre matinée nella Casa delle Culture e della Musica di Velletri e uno pomeridiano nella Sala delle Armi del Palazzo Sforza-Cesarini di Genzano. Domenica 2 marzo in mattinata si esibiva all’Auditorium “Romina Trenta” di Velletri il duo pianistico di levatura internazionale, composto da Irene Veneziano ed Eliana Grasso, che utilizzavano assieme al tradizionale pianoforte Erard del 1879, protagonista della rassegna, il pianoforte Pleyel del 1998: una combinazione di strumenti eccezionale, sia per l’originalità dell’abbinamento che per la magnifica resa sonora di amplissima varietà timbrica. Il concerto Il Carnevale di Carnevale, titolo quanto mai adeguato a quella domenica carnevalesca, prevedeva il “classico” Carnevale degli animali di Saint-Saëns, nella versione per due soli pianoforti, seguito dai Tre pezzi in forma di pera, titolo enigmatico del notoriamente buontempone e sarcastico Erik Satie, eseguito a quattro mani sul pianoforte antico. Nella seconda parte, un omaggio a Ravel nel 150° anniversario della nascita (Ciboure, 7 marzo 1875 – Parigi, 28 dicembre 1937) con Ma Mère l’Oye, ancora a quattro mani ma sul Pleyel moderno, mentre di nuovo eseguito a due pianoforti era Scaramouche di Darius Milhaud, che concludeva il programma con il brio e la vitalità espressi nel suo ultimo movimento Brasileira, brano che richiamava ancora il Carnevale, questa volta quello di Rio. Le due interpreti hanno entusiasmato il pubblico, passando con disinvoltura, bravura ed energia da una tastiera all’altra, riscuotendo prolungati applausi ai quali alla fine, esaurito il programma ufficiale, hanno risposto concedendo un fuori programma degno dell’occasione: una scatenata Danza delle spade di Aram Khachaturian che ha nuovamente acceso l’entusiasmo del pubblico e concluso in modo particolarmente brillante questo concerto dedicato al Carnevale. La mattina del 16 marzo era la volta del pianista e compositore Jacopo Petrucci, il quale proponeva un programma dedicato a Prokofiev con nel mezzo un omaggio a Gabriel Fauré per concludere il centenario della sua scomparsa, celebrato qui con particolare attenzione poiché Fauré era proprietario di un coda Erard uguale a quello di questa rassegna concertistica. Il giovane Petrucci, con composta sicurezza, interpretava efficacemente alla tastiera dell’Erard d’epoca i brani di Fauré: il corposo Tema e variazioni op. 73 e poi il Preludio e la giustamente celebre e bellissima Siciliana dalle musiche di scena per Pelléas et Mélisande. Fin qui nulla di sorprendente, essendo stato l’Erard anche il pianoforte di Fauré: il motivo di maggior interesse era scoprire la resa del pianoforte antico nei brani del più moderno Sergej Prokofiev, del quale si voleva far conoscere al pubblico un tratto meno noto della sua personalità artistica con i giovanili e poco conosciuti Racconti della nonna e la splendida Suite pianistica dal balletto Romeo e Giulietta, piena di momenti suggestivi, ora d’ambiente, ora maestosi, ma anche lirici e appassionati, come il commovente addio di Romeo e Giulietta che chiude la suite. L’interprete riusciva a far risaltare le pregevoli caratteristiche timbriche dello strumento d’epoca anche nei brani di Prokofiev, mostrandone egli stesso una notevole soddisfazione pure nella virtuosistica e scatenata Toccata che chiudeva la scaletta nello stile percussivo e futurista che di solito si associa a questo autore. Ai convinti e calorosi applausi che salutavano la fine del concerto il pianista bissava Montecchi e Capuleti, il pezzo sicuramente più celebre e citato della Suite dal balletto e nel quale l’Erard ha mostrato di rendere particolarmente bene la trascrizione dall’originale per orchestra. Nel pomeriggio-sera dello stesso 16 marzo, a Genzano nel palazzo Sforza Cesarini, era la volta di un concerto per tiorba: strumento simile al liuto ma dotato di un manico supplementare più lungo, che monta diverse corde aggiuntive che però suonano solo note fisse, non essendoci i tasti come avviene invece per le corde montate sul manico corto principale. Così spiegava nell’introduzione il presentatore, per rendere edotti gli spettatori che non avessero familiarità con gli strumenti antichi del periodo rinascimentale. Protagonista era la bravissima liutista russa Marina Belova, la quale da diversi anni frequenta l’ambiente musicale italiano, e che per l’occasione proponeva un programma decisamente vario: musiche originali per tiorba dal tardo ‘500 a metà ‘600 italiane, trascrizioni dal violoncello e dalla viola da gamba di autori tedeschi di fine ‘600 primo ‘700 (tra i quali J. S. Bach) e una parte finale con musiche francesi tra ‘600 e metà ‘700, sia originali che in trascrizioni dalla viola da gamba e dal clavicembalo. Tra gli autori italiani spiccavano il veneziano Girolamo Kapsperger, di madre veneziana e padre austriaco ma che visse lungamente a Roma, alla corte di papa Urbano VIII Barberini, e Alessandro Piccinini, di ambiente bolognese, ritenuto tra l’altro l’inventore stesso della tiorba; tra i francesi il liutista Robert de Visée e il clavicembalista François Couperin. Al termine di un concerto così vario ed articolato, gli applausi di un pubblico particolarmente interessato richiedevano un bis, concesso dalla Belova ripetendo la bellissima Toccata arpeggiata di Kapsperger, sicuramente il brano più famoso di questo autore e di per sé uno dei più affascinanti dell’intero programma. Ultimo concerto per il mese di marzo, la domenica 30 mattina, di nuovo nell’Auditorium Romina Trenta di Velletri, con un formidabile pianista italiano, Scipione Sangiovanni, decisamente eclettico nel repertorio e nello stile, che proponeva un mix delle Quattro Stagioni di Vivaldi con le Cuatro Estaciones Porteñas (Quattro Stagioni di Buenos Aires) di Piazzolla. Una particolarità del concerto era che tutti i brani, nati per organici strumentali diversi – orchestra d’archi per Vivaldi e quintetto con bandoneon e altri strumenti per Piazzolla – venivano presentati nelle trasposizioni puramente pianistiche fatte dallo stesso interprete, il quale per l’occasione usava l’Erard del 1879, diverso dal pianoforte moderno su cui egli stesso le aveva concepite. L’esecuzione era articolata in quattro blocchi, ognuno con le due stagioni omonime: Primavera di Vivaldi con Primavera di Piazzolla poi Estate con Estate e così via fino all’Inverno. Come spiegato nella brochure della rassegna, il titolo del concerto “Le otto stagioni: di qua e di là dell’Oceano, dei Tropici… e del tempo” si riferiva al fatto che in ognuno dei quattro periodi dell’anno ci sono due stagioni opposte, Primavera al nord e Autunno nell’emisfero sud e così via, quindi le stagioni nell’anno sono veramente otto e non solo quattro; ma poi in ogni blocco esecutivo si passava da una parte all’altra del Globo e con un salto di due secoli e mezzo per gli autori e di sei mesi tra le stagioni stesse, in quanto le medesime stagioni in Italia e in Argentina si presentano nei periodi opposti dell’anno. Le interpretazioni di Scipione Sangiovanni hanno riscosso applausi calorosissimi, soprattutto l’ultima coppia degli Inverni, ritenuti unanimemente i più belli delle rispettive raccolte. Prima di passare al richiesto bis, l’interprete sottolineava di aver apprezzato molto l’esperienza di suonare per la prima volta tali brani su questo Erard d’epoca, il quale gli aveva donato sensazioni veramente interessanti, ed ha annunciato di voler proporre come fuori programma un ulteriore esperimento, con una sua elaborazione in stile jazzistico del brano iniziale dei Carmina Burana di Carl Orff “O Fortuna…”. La resa è stata ugualmente fantastica ed ha ulteriormente entusiasmato il pubblico, suggellando alla grande questo concerto ed anche una programmazione mensile veramente speciale. Accademia di Alto Perfezionamento Musicale "Roma Castelli" (12/04/2025) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=83&cmd=v&id=25061 Gianfranco Cercone. “Il ragazzo dai pantaloni rosa” di Margherita Ferri La settimana scorsa, a proposito di un bel film tedesco Berlino Estate 42, ho avuto occasione di accennare alle difficoltà artistiche di raccontare il personaggio di un eroe. Difficoltà analoghe possono esserci a raccontare il personaggio di una vittima: nel senso che l’autore può essere indotto a esaltare la sua purezza, la sua innocenza, con il risultato di farne una figurina angelica e irreale. È un rischio che si è trovata ad affrontare la regista Margherita Ferri rievocando in un film di finzione la nota vicenda, realmente accaduta, di Andrea Spezzacatena, uno studente delle scuole superiori che si è suicidato essendo stato vittima di bullismo omofobo, anche attraverso i social network, da parte di un gruppo di suoi compagni di scuola. Ora, nel personaggio che racconta l’autrice del film emergono indubbiamente alcune qualità positive: per esempio si tratta di uno studente brillante, sensibile all’arte, alla musica (canta, bene, nel coro della scuola), ma anche alla letteratura e al cinema. Ma l’autrice ha anche avuto il coraggio e l’intelligenza di mostrarci come il male di cui sarà vittima abbia origine anche dentro di lui. Quel male ha un nome che nel film pronuncia in parte il protagonista stesso, in un commento fuori campo, quando si riferisce al “sadismo” di un suo compagno di classe. Non nomina però l’aspetto complementare di quel sadismo, e cioè il suo proprio masochismo, che però manifesta attraverso i comportamenti e le decisioni che assume. Quel compagno va male a scuola, ma è bravo nello sport. La sua dote più evidente è la bellezza fisica, di cui è chiaramente orgoglioso, come del fascino che esercita sul protagonista. Così quando quel “bello” gli manifesta amicizia, apparentemente con lo scopo di farsi aiutare nei compiti a casa e durante le verifiche in classe, il protagonista è entusiasta, come se un suo sogno si realizzasse. E quando quella supposta amicizia svela il suo aspetto oscuro, quando quel compagno gli rivolge insulti feroci, lo sottopone a pubbliche umiliazioni, l’altro, pur restandone ferito, è disposto troppo facilmente a perdonarlo appena viene da lui di nuovo blandito, a riprendere la relazione con lui. In un rapporto in cui il sesso è latente, accennato da certi sottintesi, da gesti trattenuti e impacciati, anche forse per la giovanissima età dei personaggi, si crea tuttavia fra loro una spirale propriamente sadomasochistica, nel senso che all’acquiescenza della vittima corrisponde il progressivo accanimento del carnefice. È una spirale a cui il protagonista cercherà di sfuggire, per esempio attraverso l’amicizia con una sua compagna di classe a cui lo accomuna lo stesso senso di inferiorità, la stessa idealizzazione di quel compagno; ma a cui poi non riesce a resistere, fino alle estreme conseguenze. Tale introspezione nel personaggio della vittima ha l’effetto di rendere la sua storia tanto più coinvolgente e commovente. Il film si fa portatore di una denuncia sottile, che non riguarda soltanto le possibili conseguenze tragiche del bullismo e del cyberbullismo. Si percepisce, intorno al personaggio, la mancanza di qualcuno a scuola o in famiglia - malgrado una madre amorevole, ma in quella circostanza come cieca - che non soltanto lo difenda e lo protegga, ma che anche lo aiuti a comprendere se stesso e ad agire di conseguenza. Si tratta di un film molto interessante, che a mio parere ha meritato il successo popolare che ha raccolto quando è uscito nelle sale. Era stato presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, ed è riproposto da qualche giorno su Netflix. Gianfranco Cercone (Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema” trasmessa da Radio Radicale il 29 marzo 2025 »» QUI la scheda audio) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=85&cmd=v&id=25049 “Il Suono di Liszt a Villa d’Este”| Inaugurata nelle due sedi di Genzano e Velletri (Roma) la XIII edizione della prestigiosa rassegna concertistica organizzata dall’Ass. Cult. Colle Ionci “Con l’antico riscopriamo anche il moderno” Lo scorso sabato 8 Febbraio 2025 nel pomeriggio, con il bellissimo concerto, raffinato e ricercato, della liutista Evangelina Mascardi, si è inaugurata anche nella sede di Genzano – nella suggestiva Sala delle Armi del Palazzo Sforza-Cesarini – la XIII Edizione della rassegna concertistica Il Suono di Liszt a Villa d’Este organizzata dall’Associazione culturale Colle Ionci che si svolge attualmente nelle due sedi di Genzano e Velletri ma ha voluto mantenere per tradizione il nome con cui era nata ben 14 anni fa, proprio nella Villa d’Este di Tivoli, per il bicentenario della nascita di Franz Liszt. Il concerto ha visto dunque una valentissima Evangelina Mascardi – liutista docente presso il Conservatorio S. Cecilia di Roma e che si è conquistata una notevole fama internazionale anche con la recente incisione di tutte le composizioni originali per liuto di J. S. Bach – prodursi in una selezione di composizioni di Sylvius Leopold Weiss, musicista contemporaneo di Bach e forse il più grande liutista non soltanto della sua epoca. Di Weiss la Mascardi sta appunto intraprendendo l’incisione di molte sue opere e in quest’occasione ha proposto una Fantasia e Rondò, una Suite in Do maggiore, il Tombeau sur la mort du Mr. Logy (grande liutista e maestro di Weiss) e infine Preludio, Fuga e Ciaccona. La concertista incantava il numeroso pubblico oltre che col suono, con la vista delle mani che si muovevano agili e sicure sulle ben 24 corde – 11 doppie (dette “cori”) e 2 singole, come veniva spiegato dal presentatore – dello strumento, una magnifica copia di un liuto del ‘700. Ai lunghissimi e ripetuti applausi di una sala piena, alla fine del concerto, Evangelina Mascardi concedeva un delicato e graditissimo bis: una trascrizione per liuto della celebre Aria della Suite n.3 di Bach, comunemente chiamata Aria sulla quarta corda. Il concerto terminava quindi in bellezza e con un arrivederci a domenica 16 Febbraio alle 17:30 nella stessa sala di Genzano, ma prima ancora, sempre domenica 16 Febbraio alle 11:15 di mattina, nel bell’Auditorium “Romina Trenta” della Casa delle Culture e della Musica di Velletri, con il concerto inaugurale della parte più tradizionale della Rassegna: “concerti matinée” col pianoforte Erard come quello che aveva Liszt nella Villa d’Este. Veniva annunciato anche l’interessante programma, con un Concerto Brandeburghese di Bach e poi il pezzo forte: il Concerto per pianoforte e orchestra K595 di Mozart, l’ultimo dei suoi Concerti, terminato appena pochi mesi prima della sua assai prematura scomparsa; infine un brano, sempre per piano e orchestra, in prima esecuzione assoluta, composto dallo stesso direttore dell’orchestra: un pezzo modernissimo, per rispettare il tema di questa XIII edizione: “Con l’antico riscopriamo anche il moderno”, che intende quindi far ascoltare l’effetto di suonare pezzi moderni sullo strumento antico. (G.T.) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=83&cmd=v&id=25029 Gianfranco Cercone. “The brutalist” di Brady Corbet Forse il realismo è una questione di equilibrio. Una rappresentazione della realtà ci apparirà realistica se riuscirà a bilanciare luci e ombre, virtù e vizi, la tendenza al bene e la tendenza al male. Se i termini positivi saranno eccessivamente preponderanti, quella rappresentazione della realtà risulterà probabilmente edulcorata; se i termini negativi saranno maggioritari o esclusivi, potrà apparire caricaturale o esasperata (il che, però, beninteso, da un punto di vista artistico non è sempre un difetto). Tale premessa vale solo per dire che il film americano The brutalist di Brady Corbet, mantiene per buona parte della sua lunga durata (circa tre ore e mezzo) un equilibrio realistico. Ma poi opta per tinte forti, esasperatamente crudeli o melodrammatiche, che contrastano con i toni precedenti, danno un senso di inverosimiglianza, e possono far rimpiangere la finezza di cui il racconto aveva dato prova fino a quel momento. The brutalist racconta il drammatico rapporto fra un architetto ebreo ungherese, fuggito da un campo di concentramento nazista ed emigrato negli Stati Uniti, e una famiglia di magnati americani che decide di commissionargli dei progetti: prima una libreria in una residenza di campagna, poi un’opera più ambiziosa, una costruzione che sia allo stesso tempo una biblioteca, una sala da riunioni e una chiesa. Quel rapporto è drammatico perché, se il capo di quella famiglia di magnati nutre una vera ammirazione per il talento artistico dell’architetto, si sente anche umiliato dalla propria inferiorità rispetto a lui, e per rivalsa gli fa pesare il proprio potere e la propria ricchezza. Da parte sua, l’architetto è grato per la fiducia che gli viene accordata, comprende bene che quelle insperate commissioni sono una svolta nella sua carriera, che l’alternativa è forse una vita di povertà e di stenti, che la sua condizione di perseguitato non gli permette di respingere chi comunque gli dimostra benevolenza ed è dunque disposto a sopportare un certo grado di umiliazione. Ma poi insorge in lui l’orgoglio, l’esigenza di mantenere salda la propria dignità, e anche lui per rivalsa sfoga la sua rabbia anche sui suoi collaboratori più cari. Lo stile architettonico che lui adotta, il brutalismo appunto, che impiega nudi blocchi grigiastri di cemento o di marmo, sembra alludere nel suo caso a una condizione umana desolata, in cui la sopraffazione imperversa ovunque, nei campi di concentramento nazisti, ma anche, in forme diverse, nei rapporti di lavoro in società democratiche. Questa idea di fondo è più convincente quando è suggerita da una drammaturgia sottile, che orchestra quell’ambivalenza di sentimenti reciproci tra l’artista e il suo mentore, a cui ho accennato. Quando il racconto sfocia in violenze più esplicite ed efferate, dirette all’architetto ma che lambiscono anche sua moglie e sua figlia, si ha l’impressione di una forzatura ideologica, che l’esigenza di dimostrare una tesi abbia preso la mano all’autore. Si tratta comunque nel complesso di un bel film sostenuto da notevolissime interpretazioni: come quella di Guy Pearce nel ruolo del magnate, o quella di Adrien Brody nel ruolo dell’architetto, imperniata quest’ultima intorno al sentimento di una violazione intima subita dal personaggio, nei lager nazisti, ma destinata a riprodursi come una maledizione per tutto il corso della sua vita, nonostante i suoi successi. Gianfranco Cercone (Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema” trasmessa da Radio Radicale il 22 febbraio 2025 »» QUI la scheda audio) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=85&cmd=v&id=25026 Annagloria Del Piano. “No other Land – Nessun’altra Terra”|Il film israelo-palestinese che racconta la vita in un villaggio della Cisgiordania occuopata Vedere questo film è letteralmente essere condotti all’interno del villaggio palestinese di Masafer Yatta e delle vite dei suoi abitanti. Due giovani, Basel Adra, palestinese, e Yuval Abraham, israeliano attivista per i diritti umani, per oltre cinque anni riprendono ogni scena con la telecamera domestica del primo, sfidando i divieti e le prevaricazioni di soldati e coloni israeliani. E lo spettatore, grazie alla ripresa diretta, è lì con loro. Un docufilm, dunque, che non può evitare di dare un colpo allo stomaco anche a noi che assistiamo dalle poltrone di un cinema alle quotidiane angherie di un esercito armato e impunito che aggredisce, penetra anche nottetempo nelle abitazioni dei palestinesi e le distrugge in un attimo, sbriciolandole e mandando in fumo ogni cosa, suppellettili e animali compresi. Il tutto, appellandosi alla Legge, la legge dei coloni!, viene risposto loro da chi alza la voce, come unica arma di difesa possibile. Impressiona vedere coi nostri occhi la protervia, la crudeltà dei soldati, dei coloni, che non si fermano davanti a nulla, nessuna accorata richiesta li scalfisce, nessuna umanità. C’è una donna che sta male, lasciateci l’auto per portarla dal medico, sentiamo dire, ma non serve, la macchina viene confiscata. Un ragazzo trattiene un generatore di corrente, indispensabile… lui ha peggior destino: un soldato gli spara ferendolo gravemente. Doha è una piccola bambina bellissima e dai capelli biondi; osserva tutto, attonita, per poi stringersi alla madre. Ecco, anche questo: tutto avviene davanti agli occhi dei bambini, il trauma di questi crimini li accompagnerà a vita. Basel riprende con coraggio e attenzione; è da quando è bambino che lo fa. Il padre, i genitori, sono attivisti. La sua famiglia ha sempre accolto persone che lottassero per la pace, per i diritti. Questo padre, come tutti i palestinesi fin da giovanissimi, ha conosciuto l’esperienza del carcere (anche in queste riprese sarà oggetto di un arresto), ma non lo vediamo mai senza un sorriso sul viso, senza una parola amorevole per il suo villaggio, la sua Terra, i suoi figli… ai quali dice: «Non abbiate paura di loro. Noi abbiamo un superpotere, nessuno ci potrà scacciare!». «Mi spaventa finire come lui», confida Basel a un certo punto del docufilm a Yuval. «Non ho la sua energia. È difficile… a volte mi sento sopraffatto». Nel villaggio di Masafer Yatta, come avviene in infiniti altri villaggi in Cisgiordania, è tutto un abbattere e ricostruire. Sì, perché l’esercito israeliano rivendica il terreno come zona di addestramento militare (salvo poi costruirci sopra i settlements) e accusa gli abitanti, che sono lì dal 1830 di aver costruito illegalmente. Masafer Yatta è su tutte le mappe, ma gli Israeliani dicono che non esistiamo. La madre di Basel può dire con soddisfazione di essere lei l’artefice del miglior stratagemma che per un po’ ha permesso agli abitanti di riavere un tetto sulle loro teste: l’idea di far costruire le piccole abitazioni (perché di questo si parla: un perimetro di mattoni, una tenda con un bagno a fianco/ qualche mattone ad alzare qualche muro a ridosso delle grotte, che caratterizzano quel luogo) dalle donne e dalle ragazze, di giorno - che vengono a volte tollerate un po’ di più dai soldati - e di notte dagli uomini e dai giovani. Per poi resistere ancora un poco, fino alla successiva incursione armata. I due giovani registi hanno ben chiaro che queste loro riprese, condotte per lunghi mesi a coprire anni interi, devono raggiungere il maggior numero di persone: su Instagram, in qualche programma della televisione israeliana… E ci riescono. Li vediamo complimentarsi per gli accessi, per i like. Vediamo Yuval alle prese in dibattiti con coloni ortodossi che lo insultano, sostenendo il loro diritto messianico di proprietà di tutta quei Territori. È difficile, infatti, la sua posizione, delle volte anche nel villaggio dove viene percepito come amico di Basel, come attivista, contrario sì all’agito del suo Paese, tuttavia appartenendovi, e perciò lo vediamo impegnato a volte in discussioni politiche più o meno accese con chi gli contesta che un suo fratello, un suo parente, potrebbe un giorno essere fra le fila di coloro che colpiscono, che arrestano, umiliano, uccidono… No other Land è un film potente, anche nel suo parlare delle relazioni. Basel e Yuval stringono un’amicizia forte e indissolubile, pur nella divisione di un mondo che li vuole separati per la loro stessa essenza. In un intenso dialogo Yuval incoraggia l’amico palestinese: – Sei laureato in legge, è una grande cosa! – Tu dici? Con quella laurea io comunque posso pensare solo di trovar lavoro in Israele, ma a fare l’operaio, il muratore… Io non ho il permesso di lasciare questo posto. Tu puoi viaggiare, spostarti, tu ogni sera se lo vuoi puoi tornare a casa… L’autenticità di questo docufilm è sottolineata però anche da momenti di gioiosa positività, nonostante tutto: vediamo qualche scena con Elias, il piccolino del villaggio, intimorito da Yuval, ma incuriosito, mentre il nonno lo spinge a condividere i datteri con l’ospite, oppure ci colpisce la battuta dolce-amara della madre di Basel che dice al figlio, che ricercato dai soldati è stato via tutta la notte nascosto e ora tenta di dormire un po’, ti lavo i vestiti così se ti arrestano avrai la borsa pronta. Non c’è ombra di resistenza armata, in questo girato, al villaggio di Masafer Yatta. C’è la forza dell’amore per la propria Terra, la decisione continua e reiterata dopo ogni assalto di resistere, la consapevolezza che una goccia è poca cosa, ma goccia dopo goccia produrremo il cambiamento, come afferma Basel in una scena. Come quando, all’indomani della distruzione dell’unica scuola elementare del villaggio, Tony Blair andò a far visita a quei palestinesi che già si erano rimboccati le maniche e lottavano per ricostruirla: la mansuetudine opposta alla violenza. E questa storia di potere, come definita dai registi, riportandola, ebbe come risultato la cancellazione della demolizione di scuole, almeno per un bel po’ di tempo. Il tutto, con sette minuti di visita di un Capo di Stato sul posto… Cambiare lo stato delle cose si potrebbe. Basel e Yuval ne sono convinti. E con loro, Rachel Szor e Hamdan Ballal; insieme hanno costituito il collettivo che ha saputo creare questo documentario autoprodotto. Un’opera di grande importanza sociale, “fatta in casa”, ma con una tale forza da arrivare a essere candidata agli Oscar per il miglior film straniero e a vincere tantissimi Premi cinematografici importanti. Occorre che il mondo comprenda come fare la differenza. Non solo commuovendosi per un attimo dopo un video, ma con l’impegno, ci ricordano nel finale. E Basel, in un’intervista aggiunge: «Molti degli spettatori in tutto il mondo non sono poi così lontani da questa realtà, come potrebbero pensare. Anche loro hanno una parte di responsabilità. Senza il supporto dei loro governi, la copertura diplomatica e l’aiuto economico e militare incondizionato, Israele non avrebbe potuto sistematicamente farsi beffe del diritto!». Possiamo quindi imparare da questo popolo che ci dice: Sapete perché Masafer Yatta esiste ancora? Perché ci aggrappiamo alla Vita! Annagloria Del Piano NO OTHER LAND, grazie alla partecipazione numerosissima di pubblico (tutto esaurito!) e alla sua grande valenza sociale verrà riproposto al Cinema Excelsior di Sondrio giovedì prossimo, 27 febbraio. Si ringraziano l’Associazione Assopace Palestina, promotrice dell’evento, e le associazioni aderenti: Amnesty International Morbegno e GIT Banca Etica. ULTIME NEWS: Il 25 gennaio scorso un gruppo di coloni mascherati hanno attaccato il villaggio di Tuba, sull’altopiano di Masafer Yatta, incendiando l’unica jeep che porta i bambini a scuola e le persone malate a ricevere soccorso, hanno rotto finestre, saccheggiato e distrutto il mangime necessario per un mese, per gli animali allevati dalle dodici famiglie del villaggio. Il tutto per 34.000 euro di danni. Hanno inoltre ferito una bambina del paese… Chiunque voglia aderire all’iniziativa di raccolta fondi solidale promossa da Assopace Palestina può fare una donazione tramite queste coordinate: BPER BANCA Iban: IT93M0538774610000035162686 Causale: Raccolta solidale per Tuba. Per info: progetti.assopace@gmail.com http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=85&cmd=v&id=25025 Bellezza Orsini. La costruzione di una strega|di Alberto Figliolia Si chiamava Bellezza. Bellezza Orsini, figlia di Pietro Angelo e al servizio della famiglia Orsini, feudataria di Monterotondo in Lazio. Gli atti di un processo del 1528, celebrato a Fiano Romano, dicono che fosse una strega. Sottoposta a tortura per dodici volte – la terribile corda, che slogava e distruggeva articolazioni e muscoli, ma con ogni probabilità non solo questo strumento di afflizione – confessò quello che non era: una strega intrattenutasi anche in rapporti carnali con il diavolo intorno al famigerato noce di Benevento. Sapeva leggere Bellezza e scrivere, fatto non scontato per una donna e per i tempi che correvano, tanto da lasciare una breve testimonianza di suo pugno, stilata nel proprio dialetto e inserita e ampliata in una più ampia relazione ufficiale di quaranta pagine. Sapiente conoscitrice di erbe e guaritrice, soprattutto curiosa dei segreti naturali e innamorata della conoscenza: per migliorare certo le proprie condizioni materiali, ma anche per un sincero moto intellettivo e dell’anima. Ragione, cognizioni scientifiche seppur con un quid di empirismo e desiderio d’indipendenza contro arbitrio, ignoranza, superstizione e l’oscurità del potere religioso-secolare nella sua peggior accezione. È rivissuta questa emblematica, tragica, vicenda, con il suo afflato e con il martirio concluso da un suicidio tramite chiodo in gola (sottraendosi in tal modo al rogo e, paradossalmente, salvando anche il proprio scritto autografo), sul palcoscenico del Teatro Gerolamo. Sabato 25 e domenica 26 gennaio è andata in scena Bellezza Orsini. La costruzione di una strega (produzione Centro Teatrale Artigiano) con l’interpretazione più che intensa, una immedesimazione magistrale da parte di Maria Cristina Gionta. 70’ (senza intervallo) che inchiodano con la tensione delle parole e degli eventi, commuovendo e sconvolgendo. Il testo di Michele De Sivo è assolutamente rispettoso dal punto di vista filologico immergendoci in un flusso linguistico affascinante e consentendo di ricostruire quella temperie culturale ed esistenziale, nonché storica (il Sacco di Roma dei Lanzichenecchi di Carlo V era ancora lì, a gravare), la drammaturgia e la regia di Silvio Giordani risultando altrettanto perfette. Completano il cast i brevissimi Luca Negroni ed Emiliano Ottaviani, quest’ultimo esecutore dal vivo anche delle suggestive musiche. Il Teatro Gerolamo è una meravigliosa architettura, una sorta di Piccola Scala, dalla ricca e straordinaria programmazione. Fra i prossimi spettacoli Capinera, venerdì 31 gennaio, ispirato al romanzo di Giovanni Verga, di e con Rosy Bonfiglio e musiche di Angelo Vitaliano, e un concerto di musica barocca, sabato 1° febbraio, con l’ensemble laBarocca (dirige il Maestro Ruben Jais). E, a seguire, uno spettacolo sulla Duse, le marionette dei Colla, il Circoteatro, Charlie Parker, un lavoro su Luigi Tenco, Achille Campanile, un concerto di mandolini e pièces varie. Un tempio della cultura che diverte, appaga e forma. Teatro Gerolamo, Piazza Cesare Beccaria 8 (M1 Duomo), Milano. Info e prenotazioni: uffici tel. 0236590120/122 (da lun a ven 10-18,30), biglietteria tel. 0245388221 (nei giorni di spettacolo a partire da 4 ore prima), WhatsApp 3456990726, e-mail info@teatrogerolamo.it, sito Internet www.teatrogerolamo.it. http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=83&cmd=v&id=25009 Gianfranco Cercone. “Here” di Robert Zemeckis Capita, assistendo a certi film, di intuire che c’è un nesso, un significato sotterraneo, che collega tra loro gli episodi che ci vengono raccontati, ma poi quel nesso ci sfugge, perché non è presentato in una forma esplicita, come abitualmente avviene nei film, almeno nei più popolari. Una sensazione simile può accompagnare gran parte della visione dell’ultimo film di Robert Zemeckis, Here, tratto da un romanzo a fumetti di Richard McGuire. Il luogo a cui sembra alludere il titolo, è la stanza di un appartamento, nella quale il racconto si svolge quasi per intero. Ma quella stanza via via si riempie di arredamenti diversi, a seconda dei personaggi che la abitano e delle epoche in cui sono collocati. E se a volte il racconto sembra trasferirsi in un esterno, è soltanto perché risale ai tempi in cui la casa, cui quella stanza appartiene, non era ancora stata costruita, e il suo spazio era ancora un ambiente naturale, perfino preistorico. Va anche detto che il racconto non segue un percorso cronologico, ma interseca liberamente i suoi episodi, senza che tuttavia ci dia l’impressione di procedere a casaccio. C’è un momento in cui ci può sembrare di cogliere la sua logica segreta. Quella stanza è sempre vista da una stessa angolazione, di lato e a una tale distanza per cui con un colpo d’occhio la si può abbracciare per intero: grosso modo come se ci trovassimo in un teatro, seduti in una poltrona delle prime file, davanti a un palcoscenico. In tale inquadratura risalta un particolare architettonico: le finestre del balcone coperto in fondo al salotto, dalle quali si può osservare, in lontananza, un incantevole paesaggio, innevato d’inverno o soleggiato in primavera. M a ciò che più importa è che l’intelaiatura di quelle finestre dà l’impressione di una gabbia che separa da quel paesaggio i personaggi della storia. Ecco allora che nelle varie descrizioni di vite matrimoniali e familiari che si succedono sullo schermo - e che hanno spesso un tono indulgente, umoristico, magari con punte di umorismo nero - spicca il tema della costrizione. Ci sono prima di tutto le costrizioni economiche, quelle per cui un padre di famiglia deve rinunciare alle proprie aspirazioni, ai sogni giovanili, per trovarsi un mestiere con cui provvedere alla moglie e ai figli; o per cui una giovane coppia di sposi non può comprarsi una casa nuova tutta per sé, e deve adattarsi a convivere per anni con i suoceri. E poi le costrizioni culturali, per cui una donna, una volta sposata, doveva abbandonare o limitare le proprie ambizioni professionali. E altre costrizioni sociali, quelle per esempio dovute al razzismo: uno dei brani più impressionanti del film riferisce la lunga ammonizione di un padre nero al figlio, che adesso guida un’automobile, in cui gli prescrive i singoli gesti che deve compiere se viene fermato a un posto di blocco, per evitare che un poliziotto gli spari. A fronte di tali episodi, le immagini di un tempo degli amori di una coppia di Indiani all’aria aperta esprimono forse l’aspirazione a una vita più naturale, libera dai tanti disagi, o dai mali, della civilizzazione americana. Se tuttavia nel film non prevale la rabbia della contestazione è perché, nonostante tutto, l’amore familiare, in particolare tra moglie e marito, attutisce alla fine ogni conflitto. E un cambio conclusivo dell’angolazione dell’inquadratura mostra che dopo tutto le sbarre di quella prigione domestica sono soltanto la struttura di un delizioso bovindo, ora visto dall’esterno. Se il sentimentalismo è il suo limite, il film resta comunque notevole per la qualità impeccabile della messa in scena, cui contribuiscono in modo determinante la scenografia e i costumi, e per la precisione dell’intepretazione, coadiuvata dall’intelligenza artificiale che ringiovanisce gli attori; e per il modo fine, discreto, con cui il significato del racconto (o almeno uno dei significati possibili) è suggerito allo spettatore. Gianfranco Cercone (Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema” trasmessa da Radio Radicale il 18 gennaio 2025 »» QUI la scheda audio) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=85&cmd=v&id=25003 Alberto Figliolia. “Ricordati il bonsai” dei Legnanesi Non tradiscono mai. I Legnanesi sono una garanzia assoluta: di comicità ricca e spontanea, dove felicemente convivono organizzazione, professionalità e capacità, sempre sorprendente, di improvvisazione. Tradizione e talento per il massimo divertimento della platea. Il loro ultimo spettacolo – Ricordati il bonsai – sarà in scena sino al 16 febbraio 2025 al Teatro Repower di Assago. Ancora una volta il fantastico trio della Teresa (Antonio Provasio), del Giovanni (Italo Giglioli) e della Mabilia (Enrico Dalceri), con tutto il contorno del cortile, deliziano il pubblico con un fuoco di fila di gag e trovate, nel loro meraviglioso pastiche linguistico che porteranno dalla Lombardia sino al… Giappone. Il Giappone ha una storia millenaria, ma al contempo è all'avanguardia nella tecnologia e nella cultura contemporanea – spiega Mitia Del Brocco, autrice dei testi. – Per me I Legnanesi rappresentano proprio questo dualismo: la famiglia Colombo incarna la tradizione popolare, ma con una modernità che li rende sempre attuali e riconoscibili anche nel mondo di oggi. Il motivo della partenza dell’allegra famigliola lombarda è un’eredità da riscuotere dopo avere accudito un ricco signore del Paese del Sol Levante. Un “pretesto” per scatenare il fantastico benevolo sabba di gag, l’inarrestabile costellazione di battute, la ridda di situazioni comiche, che accompagnano gli spettatori in un panorama di piacevolissimo e catartico godimento. “La scelta del Giappone è quindi una metafora: un viaggio tra opposti che si completano, in cui vecchio e nuovo trovano armonia e ironia”. Il risultato, come detto, è esilarante – eccellente, oltre a quella dei tre big ça va sans dire, la prestazione attoriale degli interpreti “nipponici” – ed è davvero difficile non sganasciarsi per tutta la durata della commedia (con i consueti frizzanti intermezzi musicali da rivista). “Ce la faranno i nostri eroi a rimanere a vivere in una terra così distante e diversa dalla loro o alla fine l’amore per le proprie origini e tradizioni li riporterà a casa?” La regia di Antonio Provasio e le musiche di Enrico Dalceri, artefice anche dei costumi e delle scenografie, assecondano il riuscito testo di Mitia Del Brocco. Splendidi animali da palcoscenico sono I Legnanesi, stupefacenti interpreti del teatro en travesti, perpetuando una storia partita oltre tre quarti di secolo fa (fondatori, nel 1949, Felice Musazzi e Tony Barlocco), un fenomeno capace di valicare gli stessi confini nazionali. Dopo Assago, infatti, la compagnia sarà attesa in una tournée in tutta Italia che la porterà ad accumulare ben 150 date, che consentirà, presumibilmente, di superare la cifra di oltre 160.000 spettatori (l’anno scorso fra i tre più visti in Italia) accorsi nella precedente stagione (sito web: https://ilegnanesi.it; Facebook: I Legnanesi; pagina ufficiale Instagram: @i_legnanesi_official). Concludiamo, poiché davvero ne vale la pena, citando la motivazione con cui il Comune di Milano ha premiato I Legnanesi con l’Ambrogino d’Oro, massima onorificenza cittadina: «Nella stagione 2024/2025 la Compagnia celebrerà 75 anni di carriera, un percorso costellato di prestigiosi riconoscimenti. Tra i più significativi, nel 2008 il Comune di Milano conferisce loro l’AMBROGINO D’ORO, sottolineando l’importanza della diffusione del patrimonio culturale e locale e il loro impegno nel proporre il teatro comico popolare con rigore scenico e filologico. Queste le parole con cui il Comune di Milano ha accompagnato l’onorevole riconoscimento: “Una delle più attrezzate compagnie teatrali italiane, che dal 1949 porta in scena con impareggiabile ironia le evoluzioni sociali e del costume della nostra regione. Attraverso l’uso scenico del dialetto lombardo occidentale ha contribuito alla diffusione di un patrimonio culturale unico, che fonda l’identità di una parte cospicua del nostro territorio. In sessant’anni di teatro la compagnia ha proposto il teatro comico popolare lombardo, nel Paese e nel mondo, con assoluto rigore scenico e filologico. Sono oggi una parte viva dell’identità culturale lombarda: la loro passione fa onore ad una idea di cultura diffusa e coinvolgente, ed è premiata da un successo che non conosce interruzioni”». Tutto vero e sacrosanto. I Legnanesi… unici, impagabili! Alberto Figliolia Ricordati il bonsai, Teatro Repower, via G. Di Vittorio 6, Assago (M2 linea verde-fermata Milanofiori Forum). Fino al 16 febbraio 2025. Orari: da mercoledì a sabato 20:30; domenica 15:30. Biglietti: da 28 € a 59 € in tutti i punti vendita TicketOne, on line su www.ticketone.it e telefonicamente al numero unico nazionale 892.101 (numero a pagamento). Info: e-mail ufficiogruppi@teatrorepower.com (per gruppi), tel. 02 48857.333 e 02 48857.7516, siti Internet www.teatrorepower.com e ilegnanesi.it. I protagonisti «Teresa: capofamiglia indiscussa, è la tipica donna di cortile, dal carattere forte e dominante. A tratti un po' bisbetica e severa, ha però un cuore grande e generoso, sempre pronta ad aiutare le donne del suo cortile. Alle prese con un marito “avvinazzato e pigro” e una figlia “zitella e sognatrice”, Teresa è una donna che, nonostante le difficoltà, riesce sempre e comunque a tenere la famiglia unita e sulla retta via». «Mabilia: figlia zitella di Teresa, incarna il cliché di un certo mondo femminile di provincia, dove l’apparenza è tutto. È una ragazza che sogna di emergere e diventare una soubrette, sempre al di sopra delle sue possibilità, ma incapace di staccarsi da mamma e papà. Mabilia, con la sua vanità e i suoi sogni di gloria, è un personaggio esilarante che strizza l’occhio al pubblico più giovane, rappresentando l’eterna lotta tra aspirazioni e realtà». «Giovanni: unico uomo del cortile, è costantemente ignorato e poco considerato sia dalla moglie che dalla figlia. La sua vita si divide tra casa, lavoro e osteria. Di poche parole, Giovanni è un personaggio inconfondibile, con il naso perennemente rosso e una camminata incerta, tipica di chi alza un po’ troppo il gomito. Con la sua semplicità e la sua ironia sottile, Giovanni è il simbolo dell’uomo comune, pacato e senza pretese». http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=83&cmd=v&id=25000 Gianfranco Cercone. “La stanza accanto” di Pedro Almodóvar C’è un cinema che vorrebbe mostrarci la vita così com’è, anche in tutte le sue negatività; e un cinema che preferisce raccontare la vita come si vorrebbe che fosse, come piace sognarla. L’ultimo film di Almodóvar, La stanza accanto, mi sembra una singolare commistione fra questi due tipi di cinema. Le sue immagini sempre molto colorate, le sue visioni di una Manhattan più bella del vero e che sembrano filtrate dal ricordo di altri film, le sue eroine quasi statuarie, che riescono a essere moralmente forti e positive anche a fronte delle circostanze più tragiche, sono elementi che sembrerebbero appartenere a un cinema che tende a idealizzare la realtà. Eppure il tema che affronta nel suo film è di quelli che dovrebbero essere esclusi da un cinema di evasione: la malattia mortale, un tumore che resiste ai tentativi di cura più sperimentali. È vero che c’è un cinema melodrammatico che utilizza la malattia come un termine antagonistico all’amore, che cioè ostacola l’amore, lo conclude prematuramente. Ma la malattia serve allora in effetti a idealizzare l’amore, a preservarlo dall’usura della vita quotidiana, a conservarlo come un ricordo soltanto dolce, incontaminato, per cui lo spettatore può facilmente commuoversi. Ma nel film di Almodóvar tutto questo non avviene. Nella vita della donna destinata a morire, l’amore sembra già appartenere al passato. Ciò che le resta è una maternità problematica e l’amicizia con un’altra donna. Quell’amicizia non è durata tutta la vita. Le due donne si erano perse a lungo di vista e si sono ritrovate in ospedale in occasione di quella malattia. Si tratta dunque di un rapporto precario, inadatto a costruire un melodramma. La morte non serve qui insomma a enfatizzare il sentimento che unisce le due donne. Nel film il vero oggetto dell’idealizzazione, piuttosto che l’amore o l’amicizia, sarà allora la morte stessa. Almodóvar avrebbe insomma inteso raccontare quale sarebbe il modo ideale per morire dopo aver ricevuto la diagnosi di una malattia mortale che si dimostra incurabile. Di qui allora la particolare scelta del luogo in cui morire: una splendida casa immersa in un bosco; le occupazioni scelte prima della morte, come rivedere in compagnia i film più amati della storia del cinema, conversare di arte, acquistare qualche buon libro. Ma soprattutto: sottrarsi a cure che si sono dimostrate inutili e, si dice, simili a torture, e scegliere il suicidio attraverso una pillola che consente una morte indolore, quando e dove si preferisce. È allora che la descrizione di questa descrizione di una morte idealizzata rivela un aspetto polemico ed evidentemente politico. Quella pillola è stata acquistata clandestinamente su Internet, perché è illegale; la complicità dell’amica, che in effetti non deve somministrargliela, ma soltanto tenerle compagnia, dormire nella stanza accanto alla sua, può essere criminalizzata; un poliziotto, fervente cattolico, cercherà di inquisirla, di inchiodarla alla sua colpa presunta. Così ciò che nel racconto era apparso simile a un sogno, alla fine è rivendicato come un diritto individuale. La stanza accanto è un film politicamente impegnato, senza che l’autore rinunci mai, in nome dell’impegno, al suo stile del tutto originale, alla sua personale idea di cinema. Julianne Moore e Tilda Swinton sono le due magnifiche interpreti principali del film. Senz’altro da vedere. Gianfranco Cercone (Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema” trasmessa da Radio Radicale il 14 dicembre 2024 »» QUI la scheda audio) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=85&cmd=v&id=24986 Gianfranco Cercone. “Giurato numero 2” di Clint Eastwood Alcuni film possono suscitare la nostra simpatia perché illustrano con una chiarezza quasi didattica alcuni principi in cui crediamo e che ci interessa che siano divulgati. Uno di questi principi, almeno per quanto mi riguarda, è che nel giudizio sugli altri non dovremmo mai lasciarci trascinare dai pregiudizi consci o inconsci che nutriamo, specie poi se quel giudizio è una condanna. Una debolezza tanto più grave se si verifica nel luogo istitutizionale di quel giudizio, nell’aula di un tribunale. L’ultimo film di Clint Eastwood - che, a quanto pare, sarà proprio l’ultimo della sua ormai lunga filmografia di regista, che riprende lo spunto di un classico del cinema americano, La parola ai giurati di Sydney Lumet - si svolge in buona parte nella stanza di un tribunale in cui si riunisce la giuria popolare al termine di un processo. L’imputato è un uomo accusato di aver ucciso la fidanzata dopo un litigio. L’uomo ha fama di delinquente, alcuni maltrattamenti nei confronti della ragazza sono certamente avvenuti, il suo aspetto torvo non depone a suo favore, la violenza contro le donne è oggi percepita, come è giusto, particolarmente odiosa. Questo complesso di fattori indurrebbe la giuria, almeno la sua stragrande maggioranza, a concludere in fretta la discussione, a pronunciarsi senz’altro per un verdetto di colpevolezza, malgrado le prove contro l’imputato siano tutt’altro che decisive. Sarà uno dei giurati - appunto, il “giurato numero 2” del titolo - un giovane padre, di evidente bellezza, che sembra quasi incarnare l’ideale della giustizia, esprimere già con il suo aspetto fisico la purezza del giudizio, che avanzerà dei dubbi su quella generale e sbrigativa convinzione, evidenziando allo stesso tempo i pregiudizi, i partiti presi di quei giurati meno disposti a cambiare opinione, o i presupposti sbagliati della loro convinzione: quella per esempio per cui dovrebbe essere l’imputato a provare la propria innocenza, e non l’accusa a provare la sua colpevolezza. Ma a questa parabola didattica sul corretto giudizio e sul giusto processo, si intreccia, per tutta la durata del racconto, un secondo filo narrativo, su un tema questa volta introspettivo, ma condotto con la stessa chiarezza del primo. Quel giurato dall’aspetto quasi angelico, nasconde in sé un demone. Sospetta infatti, ma è un sospetto che via via si avvalora, di essere stato lui stesso, involontariamente, l’autore di quell’omicidio. Si accresce allora in lui la convinzione dell’innocenza di quell’imputato e il suo impegno per scagionarlo. Ma è in agguato la tentazione opposta, favorire la condanna dell’altro per salvare se stesso. Ma potrà vivere tranquillo, in pace con se stesso, sapendo che un innocente sconta una terribile condanna al suo posto? Si tratta di una domanda del tutto retorica, perché il film di Clint Eastwood è di quelli che, piuttosto che suscitare dubbi, esprimono solide convinzioni, ma di quelle maturate nel tempo, frutto di una personale saggezza. I significati del film sono netti, non si prestano a difficoltà di interpretazione. I personaggi sono scolpiti in modo tale da essere immediatamente riconoscibili nei loro caratteri fondamentali e, se ammettono chiaroscuri, sono anch’essi del tutto leggibili (a parte il protagonista, quella pubblica accusa per esempio, rivestita da una donna che sembra indurita dal cinismo, ma che via via visibilmente, in cuor suo, si fa prendere dai dubbi sulla colpevolezza dell’imputato). Malgrado una certa schematicità, il racconto è coinvolgente, riuscendo ad essere allo stesso tempo nobilmente edificante. Gianfranco Cercone (Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema” trasmessa da Radio Radicale il 23 novembre 2024 »» QUI la scheda audio) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=85&cmd=v&id=24971