News di TellusFolio http://www.tellusfolio.it Giornale web della vatellina it Copyright: RETESI Marisa Cecchetti. “Il ragazzo che fu Pinocchio” di Mario Bernardi Guardi Mario Bernardi Guardi Il ragazzo che fu Pinocchio Mauro Pagliai Editore, 2025, pp. 120, € 12,00 Si legge Pinocchio da bambini, ovvero qualcuno ce lo legge quando non abbiamo dimestichezza con la lettura, o ce lo racconta nei suoi punti salienti; capita poi che siamo noi a leggerlo ai bambini, in un turn over che non smette mai. Il naso che si allunga se si dice una bugia è ormai un luogo comune, uno strumento quasi sadico di educazione. Leggere Il ragazzo che fu Pinocchio, ora che di vita alle spalle se n’è accumulata tanta, che gli occhi hanno visto anche troppo e il pensiero ha saputo distinguere tra bene e male, tra giusto e ingiusto, offre una occasione di riflessione profonda, di apprezzamento ulteriore dell’opera di Collodi, insieme alla piacevolezza della lettura. Mario Bernardi Guardi lascia che il ragazzino che è stato Pinocchio, ora impegnato a curare e aiutare il padre Geppetto, riavvolga il filo guardando al passato in maniera oggettiva, con un atteggiamento critico ma comprensivo. Allora ci troviamo davanti un burattino nato da un pezzo di legno, che dentro quel tronco c’era già, un figlio della Natura a cui un falegname dà la libertà. Il burattino che ne esce è come un bambino che nasce, che non conosce ancora il freno della ragione, ma agisce d’istinto, che dovrebbe essere innocente e buono, ma non conosce il bene e il male, deve essere ancora educato: nei bambini “la ragione si sta formando con i suoi passi scompigliati. Ma finché questo processo non è avvenuto, è l’istinto a farla da padrone”. Così Collodi crea una storia sulla crescita, sulla formazione del burattino, lo fa sbagliare, pentirsi, promettere, sbagliare di nuovo, ma anche soffrire, fino all’impiccagione, fino alla sua trasformazione in ciuchino parlante. Compie marachelle ed è punito, ma intanto cresce; è un burattino che si fida, ingenuo perché non ha ancora gli strumenti per capire, sempre in fuga, che talvolta si comporta da bravo ragazzo, ma su cui vince la curiosità dell’avventura, e anche la tentazione. Collodi sviluppa le Avventure con “l’auctoritas di viaggiare nell’indeterminato”, avvicinando luoghi lontani in un batter d’occhio, dilatando o accorciando i tempi, avvicinando il surreale al reale, il magico all’umano, ma ammiccando sempre alla quotidianità: “tutto vago, dunque indeterminato e per ciò stesso credibile”. Ma le Avventure non volevano essere solo una storia per bambini e ragazzi, e Collodi lo dimostra attraverso la sua penna acuta quando si tratta di giustizia, di potere, di istituzioni: viene messo in carcere il falegname che non ha colpe, un giudice scimmione ascolta le valide ragioni del burattino poi non ne tiene conto e lo condanna, un pescatore vuole friggere il burattino - chiara allusione a potere e società - perché: “essere fritto in compagnia è sempre una consolazione”. E la giustizia? “Già, ma che cosa è la giustizia? Di sicuro quella dei tribunali lascia a desiderare, perché ti aspetteresti che il giudice sia non solo uno che conosce bene l’umanità, ma uno che sa anche valutarla. Dovrebbe essere il migliore tra gli uomini, capace in una sentenza di concentrare lo scibile, e di valutare con equità ed equilibrio”. Scrive Mario Bernardi Guardi che Collodi non credeva ai politicanti e a tutta la risma istituzionale e che, “Gatto e Volpe a parte - delinquenti di natura - le Avventure sono una rassegna di quel che, spesso e malvolentieri, dobbiamo aspettarci dal potere e dai delinquenti per vocazione, ottusità e/o viltà”. Una rilettura che ci fa sentire più vicini al burattino, ce lo fa comprendere pienamente nelle sue contraddizioni, e sottolinea il messaggio e la voce critica di Collodi, validi in ogni luogo e tempo. Marisa Cecchetti http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=57&cmd=v&id=25068 Alberto Figliolia. “Body of Evidence”|Al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano fino all’8 giugno 2025 Il bianco e nero a dominare con tutte le sue luci e ombre e sfumature. E i corpi nella separazione e nello straniamento o, di contro, in una sorta di affermazione muta, perciò di ancor maggior e potente impatto emozionale. Fra “appartenenza ed esilio”, concetti non solo fisici ovviamente, si muove Shirin Neshat (Qazvin, 1957), videomaker, artista visuale e intellettuale iraniana dalla feconda, densissima, intensissima e drammatica speculazione filosofica. “Body of Evidence” è la mostra, a cura di Diego Sileo e Beatrice Benedetti, che ne celebra il genio visionario, le incredibili suggestioni estetiche, il panorama mai smesso di critica sociale agli eventi, all’abbandono, all’arbitrio del potere, all’alienazione. La mostra è visitabile sino all’8 giugno al PAC-Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, e Shirin – Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1999 e Leone d’Argento per la Miglior Regia al Film Festival di Venezia nel 2009 – colpisce forte: immagini di bellezza congiunte a un senso (e non senso) di tragedia incombente, nel suo farsi e dispiegarsi. L’itinerario espositivo si apre con il duplice video Fervor (2000). Si tratta di un incontro-non incontro fra un uomo e una donna nel corso di una rappresentazione da parte di un cantastorie. Un lungo telo divide il pubblico maschile (in camicia bianca) da quello femminile (in nero e velato): eppure il e la protagonista si sentono, si cercano, si fiutano, si vedono senza vedersi. La percezione è più forte della separazione forzata e imposta. È uno svolgersi doloroso, d’impotenza che si trasmette implacabile allo spettatore. Nella seconda sala: Rapture (1999) – che “cattura il visitatore al centro di due schermi contrapposti per seguire il dialogo silenzioso tra un gruppo di uomini, che attraversa le strade acciottolate di un’antica città, e una schiera di donne, che emergono dal paesaggio desertico e si dirigono verso il mare, pronte a imbarcarsi” – e Turbulent (1998), il cui video “restituisce su due palchi opposti la voce maschile di Shoja Azari che intona un poema del mistico Rumi (1207-73) e la voce femminile della vocalist e compositrice iraniana Sussan Deyhim”. La terza galleria ospita la più recente opera video, Roja (2016), una pellicola carica di onirismo e di spaesamento, un vagare da un’identità all’altra, sino ad avvertire il rifiuto di entrambi gli universi esistenziali, quello di provenienza e quello di arrivo. Una inconciliabilità paurosa, in un “cortocircuito per cui, nelle fantasie di Neshat, sia la cultura statunitense sia quella iraniana possono trasformarsi da ambienti rassicuranti ad atmosfere inquietanti e ostili”. Nella Sala 4 è Land of Dreams (2019), una sequenza di 111 ritratti fotografici, d’incredibile forza evocativa, una galleria umana che lascia stupefatti per varietà e sentimento, oltre a “un video a due canali focalizzati sulla narrazione della dicotomia tra Oriente e Occidente, sogno e veglia, realtà e rappresentazione. Il video rintraccia i movimenti di una fotografa che sta apparentemente lavorando a un reportage sull’America rurale, ma che in realtà fa parte della Colonia (The Colony), una società segreta i cui membri ricevono, selezionano e analizzano i sogni dei cittadini statunitensi”. Il video della Sala 5 The Fury (2023) è il racconto sconvolgente del trauma inferto a una prigioniera politica, costretta a danzare per i persecutori in un ambiente asettico e torturante, gli sguardi fissi e tenebrosi, la trista e triste libido del potere, il lassismo morale delle divise, il fumo che impesta in volute/nebulose di terrore (elemento quasi preistorico/a-storico), la vasta sala in cui si muove il corpo della danzatrice disegnato da una spaventosa geografia di lividi... Veniamo al parterre che “accoglie The Book of Kings (2012), installazione concepita in seguito alla nascita del Green Movement iraniano” – movimento che contestava l’elezione, nelle presidenziali del 2009, di Ahmadinejad, candidato dei conservatori iraniani, a causa di presunti brogli elettorali; la protesta, inscenata soprattutto da una imponente folla di giovani, fu violentemente repressa. “L’opera include una selezione di ritratti i cui corpi riportano a inchiostro illustrazioni e testi calligrafici tratti sia dal poema epico Shahnameh (Il libro dei Re) scritto dal poeta persiano Ferdowsi (1000 d. C.) sia da composizioni poetiche di scrittori contemporanei e prigionieri in Iran, portando in luce parallelismi visivi e allegorici tra passato e presente dell’Iran, oltre a trattare la concezione iraniana di eroismo”. Sulla balconata è esposta la celeberrima serie Women of Allah (1993-1997). “Le iconiche opere vedono la sovrapposizione di versi poetici e motivi decorativi sui corpi velati delle donne, trascritti con inchiostro calligrafico sull’immagine fotografica. Alcune fotografie coinvolgono armi e riportano testi di scrittrici iraniane contemporanee che presentano visioni politico-ideologiche diametralmente opposte, da citazioni coraniche sul martirio, fino a riflessioni femministe o puramente poetiche.” Al termine di questo lungo, sofferente e pur fascinoso percorso due video a colori, un’eccezione rispetto al b/n sin qui dominante: “Soliloquy (1999), unico lavoro in cui Shirin Neshat appare come protagonista, vede l’artista compiere due viaggi paralleli in due contesti differenti, una città mediorientale e una metropoli occidentale, in una rappresentazione del proprio stato oscillante tra origini e nuova realtà nomadica; Passage (2001) esplora il tema della morte e della condizione ciclica che riavvolge il tempo a ogni evento di rinascita, ripercorrendo le diverse fasi di una sepoltura nel deserto”. Una mostra che scuote, come dev’essere. Un pugno di ferro in un guanto di velluto, che s’abbatte sulle nostre coscienze sovente, ahinoi!, attutite e piegate dall’inedia e dall’indifferenza. Una profonda meditazione politica, sulle strutture sociali e sull’oppressione, sulle scelte da compiere o non compiere, ma anche una riflessione che va oltre, sul senso del nostro essere e del passaggio in questo tormentato mondo. Alberto Figliolia Body of Evidence, a cura di Diego Sileo e Beatrice Benedetti. Mostra, promossa da Comune di Milano – Cultura e prodotta dal PAC e Silvana Editoriale. PAC-Padiglione di Arte Contemporanea, via Palestro 14, Milano (M1 Palestro). Sino all’8 giugno 2025. Info: tel. 0288446359, sito Internet pacmilano.it. Orari: 10-19:30; giovedì 10-22:30; chiuso lunedì. Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Festività: 25 aprile 10-19:30; 1 maggio 10-22:30; 2 giugno 10-19:30. Catalogo (in italiano e inglese): Silvana Editoriale. Il volume comprende i testi dei curatori e i contributi critici di Negar Azimi, Adam Geczy, Chrissie Iles, Venetia Porter. Shirin Neshat è un’artista e regista di origine iraniana che vive a New York. Neshat lavora e continua a sperimentare con diversi mezzi espressivi, tra cui fotografia, video, cinema e opera, che arricchisce con immagini e narrazioni altamente poetiche e politicamente cariche. Le sue opere affrontano questioni di potere, religione, razza, genere e il rapporto tra passato e presente, Oriente e Occidente, individuo e collettività, attraverso la lente della sua esperienza personale come donna iraniana in esilio. Nel 2017 ha debuttato come regista d’opera con Aida di Verdi al Festival di Salisburgo, riproposta nuovamente nel 2022 e che verrà messa in scena all’Opéra di Parigi nel 2025. – La ricerca di Shirin Neshat travalica il tema di genere e, partendo dal dualismo uomo-donna, indaga le tensioni tra appartenenza ed esilio, salute e disagio mentale, sogno e realtà. La mostra dedicata a Shirin Neshat rappresenta un’occasione unica per esplorare l’opera di un’artista che, attraverso un linguaggio visivo potente e stratificato, ha saputo raccontare le complesse tensioni tra identità, memoria e appartenenza. ci invita a riflettere sul rapporto tra individuo e collettività, tra storia e contemporaneità, offrendo una lettura puntuale delle sfide del nostro tempo – ha dichiarato Tommaso Sacchi, Assessore alla Cultura del Comune di Milano. – Con questo progetto, il PAC si conferma lo spazio privilegiato per il confronto sui grandi temi della contemporaneità e la mostra, tra gli eventi centrali dell’edizione 2025 di Milano Art Week, stimola una riflessione profonda sulle identità in trasformazione, sulle contraddizioni della modernità e sul potere dell’arte di farsi veicolo di cambiamento e consapevolezza. http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=58&cmd=v&id=25067 Alberto Figliolia. Susan Sarandon per “Breathtaking” di Fabrizio Ferri Madre, Attivista, Attore... è scritto sullo schermo accanto al nome. Volgiamo il terzo sostantivo dal genere maschile a quello femminile e avremo Madre, Attivista, Attrice. Così nell’ordine si definisce Susan Sarandon, presente martedì 1° aprile – e non è stato il classico pesce... – a Milano, nella sala conferenze del Museo di Storia Naturale in corso Venezia per presentazione della mostra BREATHTAKING di Fabrizio Ferri. “In questa bella città, con questo bellissimo tempo...” – esordisce il Premio Oscar per Dead Man Walking, l’indimenticabile Louise del cult & road movie del 1991, dell’immaginifico bizzarro The Rocky Horror Picture Show e di innumerevoli altre pellicole depositatesi nell’immaginario collettivo. Da The Rocky Horror è trascorso mezzo secolo, ma Susan, che vanta anche origini italiane per parte materna, con i suoi 78 anni è sempre bellissima, il fascino di una donna che non è solo una formidabile attrice, ma che vive con passione e partecipazione le cose del mondo, mettendoci sempre, con la forza degli ideali, la faccia. E qui, per la mostra in questione, l’ha fatto letteralmente... “La plastica... un problema che viene dal mare (non per colpa del mare, intende ovviamente dire - Nda)... il mare e gli oceani sono l’inizio dell’umanità. Se loro se ne vanno andiamo via anche noi. Il problema delle microplastiche ci potrà travolgere. Noi abbiamo il potere di domandare un cambiamento per evitare di finire in quella bara che vedete nella mostra”. Pacata, riflessiva, gentile e decisa è la Sarandon nella sua veste di attivista, ben lontana dallo stereotipo che si ha di una diva dello Star system. Nessun atteggiamento da red carpet. Con gli occhiali da vista e un eloquio lento e scandito, attento, senza sottrarsi; a domanda risponde, fra cui l’asserzione che... “Bisogna trovare un’alternativa al capitalismo, fare un censimento di quello che c’è da fare”. E per quanto riguarda gli USA, per il clima che vi si è instaurato? “C’è un clima di intimidazione. Proprio per questo occorre farsi sentire. Il prezzo da pagare è molto alto, ma non bisogna farsi paralizzare dalla paura. E tanti Paesi hanno affrontato difficoltà simili (in riferimento alle questione delle microplastiche che pare attagliarsi anche alle situazioni politiche, Nda). Non possiamo permetterci il lusso di arrenderci, di mollare. Dicevamo dunque che Susan è una che non si tira indietro nel suo impegno civile e sociale: ha manifestato a suo tempo contro la guerra in Vietnam e sempre a favore dei diritti civili, contro la pena di morte e contro la separazione forzata dei bambini da genitori clandestini, è ambasciatrice di buona volontà della FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), e ora ha prestato il suo volto a una delle immagini-shock di Fabrizio Ferri per questa mostra d’arte e autentico impegno che si prefissa lo scopo di denunciare all’opinione pubblica il problema rappresentato dai rifiuti di plastica e dalle microplastiche che infestano le acque del pianeta. “Ho visto alcune inquietanti fotografie di un delfino e di una foca soffocati da sacchetti di plastica. Guardando queste immagini ho acquisito una nuova consapevolezza: la forza letale della contaminazione dei mari e degli oceani che causiamo con la plastica e le microplastiche non uccide solo gli oceani, stiamo uccidendo noi stessi”, esplicita in tutta chiarezza Fabrizio Ferri. L’installazione, da lui ideata e realizzata, si compone di dodici immagini, cui si sono prestate, coi propri volti, Helena Christensen, Misty Copeland, Charlotte Gainsbourg, Gala Gonzalez, Julianne Moore, Bridget Moynahan, Carolyn Murphy, Isabella Rossellini (compare due volte), la nostra Susan, Naomi Watts, e, sul versante maschile, Willem Dafoe, già in collaborazione di recente con Marina Abramović. Dodici immagini e una bara di cristallo colma d’acqua di mare. BREATHTAKING... ci viene preso e tolto il respiro... impossibile non rimanere profondamente scossi osservando quei visi sofferenti e perché. Per quanto bellissimi e intensissimi siano i loro tratti, per come abbiamo imparato a conoscerli, il dolore è soffocante, si trasmette all’osservatore in quella circolarità che è un loop straniante, terribile, e con quella bara luminescente nel buio, apocalittico sigillo... “Per condividere questa consapevolezza – spiega Ferri, fotografo e non solo – ho scattato una serie di drammatici ritratti di famosi talenti internazionali come se fossero asfissiati dalla plastica. […] La loro adesione al progetto è stata immediata e sentita. Ciascuna delle stampe in grande formato sarà appesa su una parete nera, trafitta da due chiodi in ferro battuto forgiati a mano (strumenti di ulteriore dolore, una sorta di crocifissione pur senza sangue, Nda). Lo spettatore sarà immerso all’interno di questa installazione, al centro della quale sarà collocata una bara di vetro trasparente riempita d’acqua”. “BREATHTAKING – si aggiunge – trasporterà i visitatori nel silenzio assordante degli abissi […] Marina Abramović ha dato il suo prezioso contributo all’installazione proponendo di ricreare l’assenza di suono del silenzio degli abissi attraverso l’utilizzo di cuffie insonorizzanti”. Fra le altre dichiarazioni ecco, a seguire, quella di Tommaso Sacchi, assessore alla Cultura del Comune di Milano: “L’arte sa mettere a fuoco le grandi domande del nostro tempo con un linguaggio che arriva dritto all’intelligenza e alle emozioni. Con BREATHTAKING Fabrizio Ferri ci pone di fronte alla drammaticità dell’inquinamento marino, costringendoci a riconoscere che ogni gesto quotidiano ha un peso sulla sopravvivenza del nostro pianeta. Milano accoglie con orgoglio questa installazione, che fonde bellezza e denuncia in un messaggio di potente impatto visivo ed etico, capace di lasciare un segno profondo nella sensibilità di chi la osserva”. Gabriella Nobile, della Founder Nobile Agency: “Ho iniziato la mia carriera venticinque anni fa al fianco di Fabrizio Ferri, e ritrovarmi oggi a produrre questa sua installazione è un cerchio che si chiude. Fabrizio mi ha insegnato a guardare il mondo con occhi diversi, e ora, con questo progetto, ci chiede di guardare in faccia una crisi che riguarda tutti: l’inquinamento dei nostri mari. Questa mostra non è solo arte, è un messaggio potente che spero possa risvegliare consapevolezza e azione. Per me, è un onore dare vita a questa visione”. Chiudiamo con il commento del Professor Pier Sandro Cocconcelli, Preside della Facoltà di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali dell’Ateneo del Sacro Cuore. “L’Università Cattolica ha accompagnato fin dall’inizio l’iniziativa di Fabrizio Ferri valorizzando la ricerca dell’Ateneo sui temi delle plastiche e delle microplastiche secondo una prospettiva multidisciplinare che fa intersecare la dimensione ambientale del problema insieme a quella economica e a una terza che abbiamo definito antropologico-morale. L’obiettivo è andare oltre la denuncia, mirando a stimolare azioni concrete, dal livello individuale a quello di aziende e istituzioni, attraverso un approccio che unisca arte e scienza e sia catalizzatore di un cambiamento significativo nella consapevolezza e nei comportamenti”. Davvero indovinato definire questa mostra, attraverso un impatto potente, suggestivo e non edulcorante – ma di grandissima valenza e portata estetica – un “inno al cambiamento”. Un cambiamento, che, si sappia, parte dalle azioni virtuose e consapevoli di ciascuno di noi, membri responsabili di una più vasta comunità. BREATHTAKING sarà una mostra itinerante che si sposterà in tanti altri Paesi per denunciare, informare e trovare soluzioni sostenibili e condivise. Senza rinunciare, con l’importantissimo messaggio che veicola, alla bellezza. Alberto Figliolia BREATHTAKING. Mostra promossa da Comune di Milano-Cultura, prodotta a New York da Geraldina Polverelli Ferri e a Milano dal Museo di Storia Naturale e da Nobile Agency, in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Fino al 27 aprile. Museo di Storia Naturale, corso Venezia 55. Milano. Info: tel. +39 02.884.63337 (dalle ore 9 alle ore 13), sito Internet museodistorianaturalemilano.it. Orari: da martedì a domenica, 10-17:30 (ultimo ingresso 16:30). Accesso all’installazione con biglietto d’ingresso al Museo: 5 euro intero, 3 euro ridotto (esclusi 1° e 3° martedì del mese con ingresso gratuito dopo le ore 14). http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=58&cmd=v&id=25052 Il Premio “Sergio Arneodo” alla regista Maura Delpero e al ‘fo­to­gra­fo’ Gianpiero Mazzoni|Doppio appuntamento a Coumboscuro sabato 15 marzo Il Premio “Sergio Arneodo” si ripropone per la seconda edizione e pone ex aequo un lavoro cinematografico e un libro dedicato alle terre del bitto – Alpi Orobie. Nato dall’esperienza quarantennale del concorso letterario “Uno lengo, uno terro”, un pople, il Premio dedicato al Magistre di Coumboscuro, per la sua seconda edizione premia due opere importanti: il film Vermiglio della regista Maura Delpero ed il libro Una montagna di fotografie del valtellinese Gianpiero Mazzoni. Il cinema e la fotografie sono tecniche assai simili, in questo caso utilizzate con maestria dagli autori per narrare lo stesso mondo, la civiltà delle Alpi. Maura Delpero, nata a Bolzano con origini nel paese di Vermiglio in alta val di Sole, anche se giovane, non è un regista sconosciuta nel campo cinematografico, le sue opere sono state notate e premiate in importanti festival europei. Scoperta al Film Festival di Torino, la giovane viene premiata per il suo film d’esordio Maternal al 72° Festival di Locarno, che le vale anche il Kering Women Motion Young Talent Award al 73° Festival di Cannes. Vermiglio è il suo secondo film, che l’ha portata alla notorietà internazionale, vincendo al Film Festival di Venezia il Leone d’Argento 2024 e la candidatura agli Oscar in rappresentanza dell’Italia. La giuria del Premio “Sergio Arneodo”, ha selezionato il film Vermiglio, motivando “l’aderenza al contesto ancestrale della civiltà alpina, con una totale aderenza espressiva nella scelta di utilizzare la parlata naturale solandra, ponendola quale elemento linguistico e letterario universale”. L’opera è ambientata nel Trentino, nel comune di Vermiglio, da cui prende il nome, realtà viva, centro ancora ricco di tradizioni e vitalità culturale espressione autentica della montagna trentina. Gianpiero Mazzoni è natio di Albaredo per San Marco in Valtellina. La sua è una vita aderente agli ideali di affezione e difesa della propria terra. La sua ultima opera, Una montagna di fotografie, testimonia l’impegno di oltre sessant’anni di documentazione della vita quotidiana della sua valle. La motivazione del Premio Sergio Arneodo specifica che “il titolo del libro può sviare dal contenuto che l’autore propone, poiché la valle di Albaredo qui viene testimoniata, sì, da sessant’anni di straordinarie immagini, ma soprattutto da uno spaccato della civiltà alpina, prodotto dai testi realizzati dalla popolazione stessa. Un racconto emotivo ed ancestrale che fa scoprire nel profondo l’anima delle comunità delle Alpi”. L’evento del 15 marzo prossimo, con la consegna del Premio Sergio Arneodo, trasformerà per un giorno Coumboscuro capitale culturale delle Alpi abbinando subito dopo la proclamazione del palmares, la serata “Festin Trentino”, promossa in collaborazione con il Comune di Vermiglio, che prevede una cena con portate, formaggi, salumi e i vini della val di Sole. A queste saranno abbinate le specialità della Valtellina, tra cui non mancherà il celebre formaggio Bitto nella sua forma nobile d’alpeggio. La presenza già annunciata del coro I cantori di Vermei renderà unico questo di incontro della gente e della cultura delle Alpi. Osmosi di uomini e cultura autentica, che Sergio Arneodo ha difeso e promosso durante una vita di battaglie ed ideali. Coumboscuro Centre Prouvencal http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=58&cmd=v&id=25039 Arte, cultura e formazione nel Palazzo del Podestà di Caspano (1560). Un libro per continuare la ricerca|di Sandra Chistolini Il Progetto pedagogico di Arte e Cultura del 2022, inteso alla conoscenza e alla valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici della Valtellina, ha visto la partecipazione delle scuole e del territorio in una densa attività confluita nella Mostra espositiva di Morbegno del 19-21 aprile 2023. Le opere artistiche realizzate sono segno dell’impegno scolastico di dirigenti, insegnanti, alunne e alunni, genitori, operatori e costituiscono una testimonianza unica di un modello scientifico di formazione ripreso e divulgato anche in altri contesti educativi di scuole italiane ed estere. Il libro, in prossima distribuzione, è un contributo originale agli studi sulla cultura materiale in pedagogia. Si colloca all’interno di un itinerario di ricerca che muove da quella particolare concezione dell’educazione nata con il metodo sperimentale di Giuseppina Pizzigoni (1870-1947) e proseguita nella scuola della partecipazione, della convivenza democratica, dell’inclusione e della sostenibilità ambientale. L’architettura pedagogica di ispirazione si alimenta di nuovi percorsi educativi nei quali gli oggetti della cultura incentivano il dialogo tra scuola e territorio, e viceversa, fino a modellare una tipica forma mentis all’insegnamento e all’apprendimento. In coerenza con i principi sperimentali, posti alla base della progressione della conoscenza sociale, si presentano oltre duecento opere prodotte nel 2022-2023 nel corso della realizzazione del Progetto Cultura e Formazione nel Palazzo del Podestà di Caspano, sostenuto dal contributo della Fondazione Pro Valtellina, ente filantropico di Sondrio. Le scuole scelte, a Talamona e a Morbegno, dimostrano come un centro d’interesse culturale possa diventare motivo di educazione alla cittadinanza attiva, favorendo il risveglio dei talenti, l’incontro delle competenze e la identificazione delle tracce biografiche capaci di attraversare il tempo e lo spazio, concretizzando il discorso sulla nostra storia. La creazione di una situazione di empatia territoriale dona al Progetto una visibilità destinata a mantenere viva la memoria dell’esperienza maturata con convinzione condivisa. La passione della scoperta del valore profondo di quanto ci è più prossimo, eppure tanto sconosciuto, diventa messaggio di speranza per un futuro imminente da ben ridisegnare. La Mostra del 2023, visitata da molte persone, è ora presentata in un volume di oltre 850 pagine a colori. La distribuzione è curata dall’Editore Kappa di Roma e dai canali online al prezzo di 80 € a copia. In questa prima fase di divulgazione del volume, l’Editore offre la prevendita eccezionale di 50 copie al prezzo di 40 € a copia. L’Associazione per la diffusione del Fondo Pizzigoni E.T.S. raccoglie le prenotazioni. L’acquisto del libro include il beneficio dell’iscrizione annuale all’Associazione per la diffusione del Fondo Pizzigoni E.T.S., ente del terzo settore senza fini di lucro. La prevendita è fino ad esaurimento delle copie in offerta. Si aderisce alla prevendita versando la somma di 40 € all’Associazione per la diffusione del Fondo Pizzigoni E.T.S. tramite IBAN IT 45 K 02008 05247 000106369443 causale “Acquisto del volume Cultura e Formazione 2025”. A richiesta individuale e/o di gruppo, è possibile organizzare incontri online di presentazione del libro. Per contatti e informazioni rivolgersi a: san­dra.chi­sto­li­ni@uni­roma3.it - WhatsApp 3357310719. http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=57&cmd=v&id=25030 Marisa Cecchetti. “Filosofia minima del pendolare” di Björn Larsson Björn Larsson, Filosofia minima del pendolare Traduzione dallo svedese di Andrea Berardini Iperborea, 2025, pp. 222, € 18,00 Il viaggio di un pendolare secondo Björn Larsson corrisponde a “tre punti di sospensione tra parentesi”. Lui ne sa qualcosa, perché ha pendolato per quarant’anni tra Svezia, Danimarca e Italia, per lavoro e per amore: per amore di una italiana a Sedriano, una volta al mese, con scalo a Milano Malpensa partendo da Copenaghen, un viaggio di parecchie ore. Conosce bene il pendolarismo quotidiano per raggiungere Lund, perché ha avuto tanti trasferimenti e dunque tanti tragitti diversi, vivendo sia in Danimarca che in Svezia. Senza parlare degli anni che ha trascorso in barca, la sua Rustica, senza un porto di attracco fisso. Ha pendolato così tanto da non avere più una casa. Spirito libero, pronto ad accettare le conseguenze delle sue scelte controcorrente, ha insegnato a lungo letteratura francese all’università di Lund, filologo, traduttore, scrittore e appassionato velista, “la barca, insieme all’amicizia e alla letteratura, è il suo primo strumento per essere liberi”. Gran parte della vita trascorsa su treni regionali, aliscafi - i treni volanti -, catamarani, aerei, ritorna in Filosofia minima del pendolare, perché “In un mondo in cui ci è concessa un’unica possibilità di vivere - e per molti a stento anche quella - le tracce che restano del movimento sono la sola vita oltre questa cui possiamo aspirare […] una vita che non continui a esistere, in un modo o nell’altro, dopo la morte, nella scrittura, nei discorsi della gente o nei discorsi di qualcuno, è cacca di mosca. O rugiada che evapora”. Osservare, ascoltare, parlare poco, leggere, riflettere, questo fa “il testimone” durante i viaggi quotidiani, e in venti capitoli ci porta avanti e indietro attraverso il ponte di Øresund - la tratta mista stradale/ferroviaria che collega Danimarca e Svezia - o per mare e per terra, con tutta la vita che raccoglie intorno a sé. Non sono solo i compagni di viaggio, fissati nelle loro caratteristiche, nelle abitudini e manie, con i luoghi comuni delle conversazioni improvvisate per ammazzare la noia; o le burrasche sul mare che fanno volare alti gli aliscafi sulle onde, ma il “testimone” allarga le sue riflessioni alla vita, alla tecnologia, alla matematica, alla fisica, all’ambiente, al Covid, alla immigrazione, la guerra, il razzismo. Senza escludere le trasformazioni relative ai mezzi di trasporto pubblici avvenute in quarant’anni, in meglio e in peggio, soprattutto con le privatizzazioni. Con oggettività - ma si sente il sorriso divertito - fa il confronto tra il funzionamento dei treni e degli autobus in Svezia e Italia: noi risultiamo perdenti, ma ci rimane la consolazione di essere citati per la cucina salutare! Non manca il suo sorriso davanti al nostro proverbiale mammismo: “Sì, mamma, ho mangiato!” è la risposta al telefono, di una universitaria italiana diretta alla stazione di Lund. Le pagine di Larsson scorrono veloci e alimentano la curiosità, perché ognuno vi ritrova un po’ di sé, delle proprie esperienze, del proprio modo di intendere la vita, e aspetta qualche scambio di battute raccolte sul treno: “Secondo te pioverà oggi?” “Dipende dal tempo!” Il pendolarismo può essere una scelta o una necessità: Larsson conferma che i mezzi pubblici rimangono i più sicuri di quelli privati, ma ritiene che ai pendolari sia dedicata poca attenzione, infatti scrive “che chi lavora al Ministero dei Trasporti non ha la minima empatia per i viaggiatori e la loro sorte”. Che invece i pendolari meriterebbero di più, con tutto ciò che affrontano, con la loro pazienza, con il loro alzarsi all’alba, così importanti per la crescita economica di un paese. E continueranno a pendolare, nonostante gli ostacoli, le tempeste sul mare, i ghiacci, le eruzioni vulcaniche, la violenza che si allarga a macchia d’olio, i mendicanti che aumentano, la massa di gente in fuga dalle guerre: “Si continua a pendolare come sempre, magari con un nodo allo stomaco, e intanto si finge che il mondo non sia così disumano come è in realtà”. Marisa Cecchetti http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=57&cmd=v&id=25022 Lucilla Lazzarini. “Il Piccolo Principe e le sue Muse” di Patrice Avella Patrice Avella Il Piccolo Principe e le sue Muse Da Parigi a New York EIF, 2024, pp. 392, € 18,00 «Ogni donna racchiudeva un segreto: un accento, un gesto, un silenzio». Non si può dissociare la storia del Piccolo Principe dalla vita personale dell’autore e delle donne che l’autore ha amato e che pochi, in effetti, conoscono. Il tema di questo libro sarà di far conoscere meglio Antoine de St-Exupéry e, soprattutto, di rendere note le biografie delle donne ispiratrici e Muse che hanno contribuito a scrivere il famoso libro Le Petit Prince. Ritroverete così, nel testo, gli eventi e gli aneddoti sulla vita di ciascuna donna che ha ispirato l’autore a scrivere questo capolavoro di umanità conosciuto in tutto il mondo. Patrice Avella, scrittore gastronomade francese di origini italiane, si occupa di gastronomia e di letteratura. Tra le ultime cose che ha scritto per Il Foglio Letterario il noir politico Piazza Fontana, alcuni volumi su Modigliani, Prevert e Artusi, oltre a Piombino con gusto, A tavola con gli Appiani, Pasolini il cinema, gli amori e Roma, Pasta e cinema e La grande abbuffata (a quattro mani con Gordiano Lupi). Sta lavorando a un libro su Baudelaire. Per favore… addomesticami! e il valore dell’amicizia Se c’è un libro che mi ha accompagnato per tutto l’arco della vita questo è Il Piccolo Principe. Avevo cinque anni quando l’ho sfogliato per la prima volta e, benché non sapessi ancora leggere, capivo subito quando chi me lo leggeva saltava qualche frase o, addirittura, qualche parola: volevo che ritornasse indietro e ricominciasse da capo. Mi piaceva guardare i disegni e, su quei disegni, immaginavo altre storie che arricchivano la narrazione. Insomma, mi mettevo in competizione con lo stesso St-Exupery… Poi ho imparato a leggere, altri libri, altri racconti, ma Il Piccolo Principe era sempre sul mio comodino e, col passare degli anni, c’è rimasto. Da adulta, ho riletto ancora questa fiaba cosi delicata, a volte un po’ amara ma sempre carica di significati e di spunti di riflessione. E ho cominciato a comprare, ovunque andassi, una copia del libro nella lingua o nel dialetto del posto, un gadget, un’agenda, un quaderno, un calendario. Anche i miei amici, in giro per il mondo, me ne portavano, e continuano a farlo. È iniziata così la mia collezione che ad oggi conta una quarantina di versioni nelle più svariate lingue e dialetti, dal gaelico al vietnamita, al birmano, all’ebraico, al turco, all’arabo… per arrivare al dialetto della Val di Cornia! Ma quel piccolo libro bianco, in italiano, con il disegno di un ometto vestito di giallo, trascinato per il cielo da uno stormo di uccelli, è sempre sul mio comodino. Un po’ stropicciato, sottolineato a lapis in alcune parti, sta lì. Perché? Perché Il Piccolo Principe non è un libro che si legge una volta sola ma si rilegge infinite volte e ogni volta ci comunica qualcosa di nuovo. Non è solo una fiaba nata dalla fantasia di un qualsiasi Antoine, è una leggenda, un libro senza tempo, è una sintesi di emozioni e, usando un linguaggio universale, parla al cuore di tutti, bambini e adulti. Gli stessi personaggi che il Piccolo Principe incontra sui diversi pianeti che visita, il re, l’ubriacone, l’uomo d’affari, il geografo, il lampionaio, personaggi strani, a volte assurdi, insegnano qualcosa, ciascuno a modo suo, ciascuno con le sue caratteristiche. Il libro è impregnato di una simbologia che fornisce spunti continui su cui riflettere: la forza dell’immaginazione, l’infanzia, la capacita di stupirsi che hanno i bambini, la crescita, con la fatica e la sofferenza che ciascuno vive per diventare grande. Ci insegna a guardare il mondo con occhi diversi e da differenti punti di vista, che aprono orizzonti imprevedibili e inaspettati. Ci insegna a saper cambiare prospettiva, a vedere con gli occhi dell’altro e a comprendere. A cercare col cuore la nostra rosa tra le cinquemila dello stesso giardino e a dar valore a ciò che abbiamo intorno. Ci insegna la virtù dell’attesa: se tu vieni ogni pomeriggio alle quattro – disse la volpe – dalle tre io comincerò ad essere felice… ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora preparare il mio cuore… e il valore dell’impegno e della cura reciproca: tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Ci insegna a riflettere sull’importanza di guardare al di là delle apparenze e a vedere con il cuore Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante, sul senso della vita, sul significato dell’amore e dell’amicizia, sul rispetto, la tolleranza, il senso della morte: Capisci? Non posso portare con me il mio corpo. È troppo pesante. Ma trasmette anche un messaggio di speranza adatto ai lettori di ogni età e un invito a riscoprire l’innocenza dei bambini, che spesso noi adulti non abbiamo più, unendo il senso di meraviglia della scoperta alla saggezza degli anni: Ma so che è ritornato nel suo pianeta, perché quando è spuntato il giorno il suo corpo non c’era… Infine, insegna che amare vuol dire permettere all’altro di essere felice anche quando il suo cammino è diverso dal nostro: quando mi avrai addomesticato sarà magnifico. Il grano dorato mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano… Per favore… addomesticami. Cosa vuol dire “addomesticare”? chiede il Piccolo Principe alla volpe e la volpe gli risponde che significa creare legami: Tu, per me sei un ragazzo uguale a centomila altri ragazzi, io per te sono una volpe uguale a centomila altre volpi… ma se tu mi addomestichi tu sarai per me unico al mondo, io sarò per te unica al mondo. In un mondo come quello in cui oggi stiamo vivendo, abbiamo dimenticato, purtroppo che cosa vuol dire creare legami. Questa piccola fiaba ce lo ricorda. Lucilla Lazzarini http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=57&cmd=v&id=25005 EIF. “Le ultime ceneri dell’Avana” di Alessandro Zarlatti Alessandro Zarlatti Le ultime ceneri dell’Avana Edizioni Il Foglio, 2024, pp. 140, € 14,00 Un uomo gettato in un anno indescrivibile, il 2020 all’Avana - città che agonizza nel suo eterno tramonto, tra la pandemia e le ceneri dei suoi fuochi ormai spenti - trova il coraggio di narrare una volta ancora una realtà che si presenta come un interminabile giorno prima della fine. Alessandro Zarlatti torna, forse per l’ultima volta, a dialogare con la sua Cuba, con le sue strade senza uscita, con le sue persone, con le sue maschere, con i suoi ricordi. Questa volta lo fa attraverso una raccolta di racconti che sembrano uscire dall’occhio di un ciclone buio e persistente che si abbatte su un paese senza più risposte. Una cronaca, quasi un diario, di un tempo disfatto e terrificante dove diventa impossibile raccontare il presente se non attraverso le lenti deformanti di un monologo interiore. Raccontare ciò che accade fuori, raccontando ciò che accade dentro, in una continua rimonta tra la tragedia privata e quella collettiva che s’impone, quest’ultima, in crescendo, privando ognuno del diritto di cadere in dolori più intimi e smarrirsi. Sono lontani, ad una distanza incolmabile, i tempi e gli scenari delle prime raccolte di Alessandro Zarlatti, lontane e non più percorribili Alcune strade per Cuba che raccontavano un paese pieno di speranze diventate ben presto illusioni, lontani perfino gli echi malinconici e i residui di sogno di “Destino Cuba. Appaiono quelli dei libri scritti secoli fa, improvvisamente inattuali. Con Le ultime ceneri dell’Avana sembra approdare tutto, scenari, uomini, sogni, speranze, amori, nelle latitudini agitate della poesia. È quello che resta. L’unico bagliore di divinità che ancora ci abita. L’unico gioiello da portare in salvo dalla casa che va in fiamme. E il libro racconta di un incendio che raggiunge dimensioni e paesi che sono ben più vasti dei confini di una città. La pandemia come una tragedia collettiva che ha avvelenato e messo in crisi gli uomini nei luoghi più riparati della propria individualità. Resta la narrazione cruda di un paese e di un uomo che hanno perso tutte le coordinate e a cui sono rimaste solo le parole per non smettere di raccontarsi e, quindi, di esistere. Le ultime ceneri dell’Avana parla di Cuba come potrebbe parlare di ogni parte del mondo perché si interroga con ferocia, proprio quando sembrano cadere tutte le risposte, sul senso della nostra presenza e sul senso dei nostri amori. Le ultime ceneri dell’Avana è la settima pubblicazione di Alessandro Zarlatti e la prima nelle collane delle Edizioni Il Foglio. (Nota editoriale) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=57&cmd=v&id=24999 Alberto Figliolia. Marina Abramović, between breath and fire|A Bergamo fino al 16 febbraio Penso che prima di capire il concetto delle mie opere, si abbia una reazione emotiva ad esse. Per me è questa la giusta risposta all’arte. Deve emozionarti in un certo modo. (Marina Abramović) Lo spazio è decisamente attrezzato e spettacolare nella sua commistione di archeologia industriale e idee di apertura a manifestazioni ed esposizioni artistiche. gres art 671 il suo nome, un nuovo polo culturale e per l’arte contemporanea a Bergamo... “mostre ed eventi, installazioni e workshop. Per una nuova visione dell’interazione tra arte e città, a favore di una cultura di comunità”. Perciò è una scelta oltremodo indovinata che siano la figura e le invenzioni-installazioni-performances-opere di Marina Abramović a inaugurare gres art 671. L’itinerario consta di lavori storici dell’artista belgradese chiudendosi con il suo ultimo film operistico, Seven Deaths, un autentico capolavoro per l’immaginativa e la fusione dei più disparati elementi, fra pittura, scenografie, musica, presenza attoriale, concettualità, visioni. “Seven Deaths è un’esperienza cinematografica immersiva che esplora sette morti premature che Marina Abramović subisce sullo schermo, accompagnate dagli assoli di Maria Callas”, che la Abramović ha sempre amato sin dal primo incontro con la voce della divina cantante lirica statunitense-ellenica: Non capivo le parole – erano in italiano – ricordo che mi alzai in piedi, sentendo della scariche elettriche attraversare il mio corpo, e con questa incredibile sensazione di emozioni che mi attraversavano. Ho iniziato a piangere in modo incontrollabile, ed è stata un’emozione così potente che non l’ho mai dimenticata. Invero non si tratta di un mero omaggio in questo questi sette “spezzoni”, ciascuno compiuto e autoconclusivo, sono una riflessione estetica ed esistenziale, sino alle estreme conseguenze, che riguardino l’individuo o il genere umano. Marina Abramović, come sempre non si risparmia. Non risparmia il proprio corpo (qui è affiancata da uno splendido sofferente intensissimo Willem Dafoe) che sia in stanze metafisiche o ai confini fra vita e morte o in un panorama apocalittico o nell’indagine sul concetto di identità, sul conflitto fra l’interiore e l’apparenza, sul doppio. Seven Deaths è alla fine del percorso. Prima di arrivarvi il visitatore deve passare attraverso le altre “prove fisiche e psicologiche estreme”, di cui Marina è protagonista: e non da sola, ma con il pubblico, in un’interazione visiva e, per l’appunto, fisica. Come in Lips of Thomas, in cui “il suo corpo si trasforma in oggetto dell’atto artistico, sottoponendosi a un dolore fisico interrotto dall’intervento del pubblico presente […] L’arte di Marina Abramović non è solo un riflesso delle sue lotte interiori, ma un impegno diretto e viscerale con il mondo che la circonda, che fa emergere tematiche quali la vulnerabilità, la resistenza e la condizione umana”. Non è facile approcciarsi all’arte della Abramović, tanto forte, sovente ai limiti: scuote, anche brutalmente; costringe a pensare. La mostra si suddivide in quattro “capitoli”: The Breath-Il respiro, The Body-Il corpo, The Other-L’Altro e The Death-La morte, quasi un percorso iniziatico per una catarsi finale. Il concettuale, l’intento “ideologico”, convive, nell’arte di Marina, con una sorta di elevatissimo “sciamanesimo” spirituale, in una ricerca che va oltre il comune senso (anche del pudore, in senso lato), oltre le catene del pregiudizio e della superficialità. In una connessione con la Natura e i suoi più intimi segreti. Quaderno di dolore e sangue. Meditazione sul tema della violenza che (s)popola l’anima e il mondo. Spirit House-Dissolution (1997) “cattura la natura effimera del corpo e i processi di decadimento e trasformazione, invitando così il pubblico a riflettere sulla transitorietà dell’esistenza fisica e sulla misura spirituale della dissoluzione”. Scomoda, urticante, cruda, e invasa di purezza al tempo stesso, è l’opera-soma di Marina Abramović. Tornando a Lips of Thomas (1975-1993)... “La performance prevedeva una serie di azioni intense e rituali che includevano il consumo di miele e vino, la rottura di un bicchiere, la fustigazione di sé stessa, l’incisione di un pentagramma sul ventre e il distendersi su una croce di blocchi di ghiaccio con una stufa puntata sullo stomaco. Dopo 30 minuti sul ghiaccio parte del pubblico, incapace di sopportare l’evolversi della situazione, decise di intervenire e metterla in salvo”. E ancora: il pettinarsi aggressivo di Art Must Be Beautiful (1975), in cui angoscia e dolore si mescolano indissolubilmente con la ricerca della bellezza nell’arte; il modello scala 1 a 10 di House wiith Ocean View, riproduzione in miniatura dell’ambiente in cui l’artista digiunò per ben dodici giorni di fila abitando tre stanze dentro una galleria: stanze non invisibili al pubblico, ma nel contempo totalmente isolate, quindi con l’impossibilità di qualsivoglia comunicazione/interazione; Imponderabilia (1977-2017), dal geniale presupposto, in cui Marina e il suo compagno Ulay “si trovavano in piedi e nudi l’uno di fronte all’altra, costringendo i visitatori a infilarsi nello stretto spazio tra di loro per poter accedere alla mostra, entrando così inevitabilmente in contatto fisico con i loro corpi”. In sostanza il pubblico è parte integrante dell’opera, sviscerando tutte le dinamiche psichiche che si possono generare con l’altro: comprensione o conflitto, disagio o appartenenza, ma sempre, in ogni caso, nell’essere con. Dal Sonetto 18 di Shakespeare: finché ci sarà un respiro od occhi per vedere,/ questi versi avranno luce e ti daranno vita. Un’esperienza indimenticabile è poi quella di Seven Deaths (sette cortometraggi di sette minuti l’uno in riproduzione continua): un trionfo emozionale, fra dramma/tragedia/morte e, grazie all’arte, resurrezione. Fuori dalle pareti nere del cinema sei rilievi in alabastro e una foto rispecchiano e anticipano le situazioni delle proiezioni (ciascuna accompagnata, come detto, da un assolo della Callas). Una mostra che non si spiega, ma si dispiega potente, penetrando ogni fibra, sollecitando moti dell’anima e ricreando vibrazioni emotive dimenticate, castrate dalla burocrazia dell’esistere che spesso ci è imposta. Per rivivere sempre. Alberto Figliolia Marina Abramović, between breath and fire. Fino al 16 febbraio 2025. Mostra e testi a cura di Karol Winiarczyk. gres art 671, via San Bernardino 141, Bergamo. Orari: da mercoledì a domenica 10-20 (ultimo ingresso 19:30). Info: https://gresart671.org/it. Biglietti: intero 13 euro, ridotto 10 euro (no pagamento in contanti). http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=58&cmd=v&id=24995 Dipingere senza regole. L’arte di Helen Frankenthaler|di Anna Lanzetta Firenze – Ogni mostra di Palazzo Strozzi è una scoperta di stili, di forme, di colori e di figure. Ogni mostra è un percorso che si arricchisce di sala in sala di artisti che offrono una visione della realtà e del cosmo del tutto soggettiva, ma non scevra di curiosità e di arricchimento per il visitatore. Nel caso di Hellen Frankenthaler, la mostra è un viatico all’interno dell’artista stessa, un viaggio dove l’artista tra spazio e tempo, gioca con i colori e li veste di percezioni, di emozioni, di un vissuto nel quale la natura prende vita tra aria, acqua e terra, in un visione fantasmagorica che accende la fantasia, spingendo la mente al di là di orizzonti infiniti dove basta una linea per interrompere l’omogeneità di un azzurro che ti entra dentro come un lavacro di pensieri in una purezza di stile, obbligando il visitatore a meditare, a riflettere, a leggere l’opera per coglierne l’essenza. Nel cortile, il gioco di elementi in saliscendo accende la fantasia che connessa all’immaginazione riporta ricordi e memorie di un’infanzia felice. La mostra offre una vasta panoramica di opere su carta e sculture, interessanti da scoprire e analizzare. L’uso del colore, usato “senza regole” come l’artista stessa spiega nel video, diventa protagonista e crea impianti scenografici dove la fantasia definisce figure, personaggi, animali, come quando si rincorrono le nuvole che prefigurano realtà contingenti, mentre altrove un infinito degradante in gradazioni materiali o un muro che si apre verso l’immenso danno la percezione di una realtà illimitata senza luogo e senza tempo. L’arte di Hellen è originale e sperimentale e forte è l’influsso di Paul Cézanne che tanto la colpì. I colori sono i veri protagonisti che riflettono in ogni opera i pensieri dell’artista, magnetici con quelli del visitatore, creando un muto dialogo. Il suo intercalare sinergico con artisti di calibro quali: Jackson Pollock, Robert Motherwell, Mark Rothko e altri, apre le sale ad una panoramica dove Helen Frankenthaler in connessione sinergica con stili contrapposti e convergenti diventa un punto di riferimento fondamentale per l’arte contemporanea e per le nuove generazioni di artisti. http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=58&cmd=v&id=24996 Piombino. “Il Foglio Letterario”|Una piccola festa per una piccola grande storia Venerdì 20 dicembre alle 17 nella sala consiliare del Comune di Piombino la celebrazione di 25 anni di attività del Foglio Letterario Una piccola grande festa per celebrare un traguardo importante, quello dei primi 25 anni della casa editrice piombinese “Il Foglio Letterario”. Lo scenario sarà quello nobile della sala consiliare del Comune di Piombino; l’appuntamento è per venerdì 20 dicembre alle ore 17, con il patrocinio dell’amministrazione comunale. Dopo i saluti istituzionali, sarà il giornalista e scrittore piombinese Stefano Tamburini a introdurre la serata che si aprirà con la presentazione di un volumetto dedicato alla ricorrenza, il Secondo almanacco del Foglio Letterario, curato da Gordiano Lupi, Vincenzo Trama, Fabio Izzo e Andra Borla, quattro pilastri di questo universo molto variegato di pensatori e scrittori che quotidianamente lavorano alla selezione delle opere. E saranno proprio Lupi e Trama a proseguire la narrazione nella sala consiliare. In 25 anni la Casa Editrice piombinese ha mandato nelle librerie fisiche e in quelle digitali, con l’avvento delle versioni ebook, più di mille libri, molti dei quali di notevole successo. Tutto nacque nel 1999 con la rivista Il Foglio Letterario che nel 2003 si è strutturata definitivamente in Casa Editrice, grazie a una felice intuizione di Gordiano Lupi – che ancora oggi ne è il direttore e il motore di idee e di ispirazioni – con Maurizio Maggioni, compagno di viaggio e autore di libri esoterici, e con Andrea Panerini che oggi ha preso altre strade. Il Foglio seleziona saggi che parlano di dark, black metal, rock, gruppi alternativi, ma anche di traduzione, letteratura e musica popolare. Stefano Loparco dirige una collana di cinema, si occupa di horror, pellicole d’autore, film asiatici, lavori italiani del passato. Fabio Strinati pensa a non far dimenticare che la letteratura nasce con la lirica. Poi ci sono le tradizioni e la storia locale, le leggende su Piombino e la memoria storica della Val di Cornia, che parte da Aldo Zelli e Maribruna Toni, passando da Franco Micheletti per arrivare ai bravi autori dei giorni nostri, fino alla raccolta degli scritti di Gianfranco Benedettini. Questo è Il Foglio Letterario, un coacervo di passioni che va dalla letteratura al fumetto. Nel corso degli anni ha partecipato per ben dieci volte allo Strega e ha lanciato autori di successo. Lorenza Ghinelli ha scritto Il divoratore, è passata a Newton & Compton, ha venduto un sacco di copie ma non si è dimenticata del Foglio. Altrettanto si può dire di Sacha Naspini che ha pubblicato con Rizzoli Il gran diavolo, un bel romanzo storico su Giovanni dalle bande nere; adesso è affermato autore E/O (Le case del malcontento è il suo capolavoro), ma conserva ancora nel nostro catalogo i primi romanzi (I sassi e L’ingrato). In ordine sparso, altre firme importanti: Alessandro Del Gaudio, Alessandro Dezi, Filippo Ferrucci (si sono succeduti nel tempo alla guida del settore Fumetto), Carlo Gambescia (Biblioteca di Scienze Sociali), William Navarrete (Letteratura Cubana), Andrea Borla (curatore di ottime antologie), Patrizio Avella (scrittore di cucina, gialli e uomo marketing), Antonio Messina (poeta, scrittore e ufficio stampa), Vincenzo Trama (Rivista Il Foglio Letterario), Stefano Tamburini, giornalista e direttore di quotidiani che ha pubblicato con Il Foglio due grandi libri dedicati ai diritti umani e sociali che hanno partecipato al Bancarella Sport e il romanzo-verità “L’uomo e il mare”, dedicato alla storia di un sub ucciso da uno squalo e ai tentativi (falliti) di ucciderlo ancora con le menzogne. In sostanza, 25 anni di passione al servizio della valorizzazione delle idee e anche della cultura locale legandola alla storia e alle tradizioni del territorio. Anche per questo la scelta di celebrare la ricorrenza nella sala dell’Istituzione locale non è certo casuale. (EIF) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=57&cmd=v&id=24982