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Gianfranco Cercone. “Sole, cuore, amore” di Daniele Vicari
07 Maggio 2017
 

Il rapporto tra i personaggi e l'ambiente in cui vivono, può essere impostato, in un film come in qualsiasi racconto, secondo due principi alternativi tra loro.

Se, allo sguardo dell'autore, in primo piano balza l'ambiente, i personaggi sono visti come plasmati o determinati da esso. Se i personaggi prevalgono invece sull'ambiente, la loro vita interiore sarà certo influenzata dal mondo intorno a loro, ma godrà (o soffrirà) di una più larga autonomia. I loro problemi saranno, insomma, in parte diversi, più complessi, di quelli indotti dalle pressioni sociali.

L'ultimo film di Daniele Vicari – Sole, cuore, amore – adotta la prima impostazione. Il tema del film è un fenomeno che appartiene alla società dei nostri giorni: e cioè quello sfruttamento illegale del lavoro dipendente per il quale il lavoratore è pagato “sottocosto” “in nero”, non gli sono riconosciuti giorni di ferie o di malattia, i turni di lavoro sono esorbitanti, è sottoposto alla minaccia costante di essere licenziato in tronco dal datore di lavoro.

Che si tratti di un fenomeno tristemente diffuso, lo si può constatare quotidianamente. Il film di Vicari lo comprova scegliendo come protagonista, un personaggio medio, la cui vita si indovina simile a quella di tanti altri.

Si tratta di una ragazza, italiana, madre di quattro figli piccoli, che ogni mattina di tutti i santi giorni della settimana, domeniche comprese, si alza alle 4 e mezzo, prende il pullman che da un paese fuori Roma la porta in città, e si reca al bar di via Tuscolana dove lavora come barista, e da dove rientra a casa soltanto quando è sera. Tutto questo per uno stipendio di 800 euro al mese, pagate appunto “in nero”, dal quale il gestore del bar si sente in diritto di scalarle delle multe se arriva in ritardo anche per cause indipendenti dalla sua volontà, come un guasto del pullman o un malore.

Si capisce bene come in un regime di vita tanto opprimente, lo spazio per la vita privata sia quasi azzerato, cosicché quando la notte il marito, che pure lei ama, la accarezza mentre è distesa sul letto, lei, giocoforza, si addormenta.

Eppure, certi momenti che passa con lui, come quando, in cucina, trovano il tempo per bersi insieme un caffè, o quando, la sera, sul balconcino del palazzo popolare in cui vivono, conversano spensieratamente, sono tra i rari momenti di pace che il racconto contiene; di una felicità struggente, perché ridotta a poche briciole di tempo.

Dicevo che nel film l'ambiente, il contesto sociale, prevalgono sul personaggio. Ma ciò che non significa che il personaggio non sia ben delineato.

Avvolta da un cappotto rosso che sembra un'affermazione di individualità, mentre è tanto simile a tanti altri lavoratori ugualmente sfruttati (quelli, per esempio, che prendono il pullman con lei la mattina presto); disperata eppure quasi sempre sorridente; cosciente delle ingiustizie di cui è vittima, ma rassegnata, perché deve tirare avanti la famiglia, compreso il marito che è un disoccupato cronico, che si lascia mantenere da lei; è un personaggio che trova in Isabella Ragonese un'interprete ideale, capace di rendere anche la variazioni più sottili dei suoi stati d'animo.

È un personaggio che trova una forma paradossale, terribile, di libertà nella malattia, come se il suo corpo stesso si ribellasse a quella vita.

La sua vicenda è in effetti un esempio di un principio che Marco Pannella non si stancava mai di ripetere: che dove c'è strage di legalità, c'è anche strage di vita.

Dunque, un film, oltreché bello, urgente, necessario, per il suo contenuto.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 6 maggio 2017
»» QUI la scheda audio)


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