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Orlando Luis Pardo Lazo. Jesús in memoriam 
Chucho e la fine della classe operaia
19 Settembre 2010
 

Non sono stati Fidel e Raúl a licenziarlo dal suo posto di lavoro. È stata la vita a farlo e senza bisogno di aiuto.

Chucho è morto oggi.

Erano mesi che orinava troppo. Era anemico. Aveva poco appetito. Era dimagrito.

I dottori scoprirono una bolla compatta nella sua prostata. Fecero un prelievo, ma il campione non bastava in laboratorio. Fecero un altro prelievo. Sanguinò. Bestie di studenti che risparmiano anestesia, Dio solo sa il motivo. Chucho disse che non avrebbe sopportato un altro esperimento selvaggio. Continuò a sanguinare nelle feci. Vomitò. Lividi sul corpo. Ebbe uno scompenso. La lingua aggrovigliata in meno di mezz’ora. La vista alla fine del mondo. Morto nel Calixto García senza dare tempo a nessuno (non gli avrebbe fatto niente neppure la claque giovanile bolivariana). Vegliato questa notte tra giovedì e venerdì presso l’impresa di pompe funebri di Infanta, La Nacional.

Mia madre è rimasta lì tutta la notte. Io me ne sono andato. Non sopporto la luce fioca e la mediocrità istituzionale che ci ostacola persino dopo morti.

Chucho è stato un lottatore. Aveva più di settant’anni. Senza figli. Senza moglie. Per puro caso ha avuto vicino mia madre.

Si erano conosciuti nella fabbrica di bambole Lilí, proprio quando mia madre si stava innamorando di mio padre, l’onesto impiegato del Dipartimento Personale che aveva quasi vent’anni più di lei.

Io nacqui nel 1971. Mia madre si mise a fare la casalinga. Chucho attese, proprio come uno di quei personaggi di García Marquez che lui non ha mai letto. Passò un secolo o un millennio.

Quando tutti furono invecchiati, Chucho cominciò a frequentare la nostra casa di Lawton. Arrivava prima dell’alba. Aiutava a fare quel che poteva. Vecchietto arzillo con più energia e onestà della maggior parte dei giovani, incluso me stesso.

In quel momento mio padre sembrava il padre di mia madre. Chucho e lui giocavano a scacchi sotto un porticato degli anni Novanta. Mio padre aveva ancora la forza per sconfiggerlo. Aveva il vantaggio storico di chi ha avuto le mani libere per dedicarsi a lavori di tipo intellettuale.

Chucho, il tuo è stato un lavoro manuale. La lotta. Da gestore della Lotteria negli anni Cinquanta a Segretario di Sezione in un Partito Comunista di Cuba già stanco del comunismo cubano.

Sono le tre del mattino a Cuba. Scrivo nudo nella mia stanza, mentre lui riposa nei locali de La Nacional di Infanta, sala A (terzo piano), non molto lontano dalla sua casetta in un labirinto di calle Manglar. La notte ci unisce nella desolazione per il vecchio Chucho e per l’adolescente tardivo Landy.

Qualche volta, quando mio padre era già morto, lui avrebbe voluto dettarmi le sue memorie, ma con delicatezza ho sempre rifiutato. Non me ne pento. La sua vita non meritava l’inganno d’un racconto. La sua vita era una cosa oltremodo concreta. Un enigma. Come la parola “chucho”, per esempio, anche se tra i suoi amici quasi nessuno conosceva il suo nome e ancor meno il suo cognome (sempre che l’abbia avuto).

Chucho, ci mancherai.

Chucho, che avresti potuto essere mio padre nel vortice proletario dei lavori volontari degli anni Sessanta.

Chucho, che non ci credevi più però confidavi ancora nella Rivoluzione.

Con la tua grafia da cavallo che io mettevo in bella copia con la macchina da scrivere Underwood che era stata di mio padre. Verbali di riunioni e inviti a riunioni. Questo mi dava Chucho da dattiloscrivere.

Tac tac.

Tic tac.

È finito il tempo della nostra classe sociale.

Con te muore lo spirito del sottoproletariato. Povero, ma onesto. Trovavi soluzioni senza mettere di mezzo gli altri. Avevi un sorriso da personaggio cittadino uscito da un racconto di Lino Novás Calvo. Gridavi al telefono come un contadinotto montanaro. Questo eri. Un guerrigliero titubante in una reggia abbandonata che i suoi padroni originali chiamarono L’Avana.

L’organo ufficiale del Partito Comunista di Cuba di sicuro non si renderà conto della “perdita rilevante di un compagno di strada”, ma con Chucho è caduto il capo d’un tempo che nessun cubano rimpiazzerà. In un certo senso, per me è come se fosse morto Fidel (si assomigliavano molto nell’aspetto fisico quando si approssimava la fine).

Chucho, non voglio continuare a parlare di te usando la seconda persona singolare, quel vizio vuoto di chi dispensa dolori.

Arrivano le prime ore del mattino e presto albeggerà su questa Avana post rivoluzionaria. Mia madre è rimasta ancora più sola. Il tuo amore per lei è un poco più vicino a realizzarsi in un luogo che forse non esiste.

Chucho, mi dispiace. Addio.

 

Orlando Luis Pardo Lazo

(da Lunes de post-revolución, 17 settembre 2010)

Traduzione di Gordiano Lupi


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