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Da Cimabue a Morandi. Felsina Pittrice 
A Bologna fino al 17 maggio
11 Marzo 2015
 

Genus Bononiae. Musei nella Città ha ideato una grande mostra per valorizzare i tesori, troppo spesso poco conosciuti, della città e del suo territorio, a Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni, fino al 17 maggio 2015.

A ottanta anni dalla celebre prolusione di Roberto Longhi sulla grande tradizione artistica di Bologna, fino ad allora subordinata dalla critica a Firenze e a Venezia, la mostra Da Cimabue a Morandi. Felsina pittrice”, curata da Vittorio Sgarbi, intende riproporre i principi e il metodo dell’illustre studioso e ripercorrere, attraverso il filo conduttore delle opere e degli artisti bolognesi, la storia dell’arte e della pittura italiana tra fine del Duecento e l’inizio del Novecento.

La mostra si svolge nelle sale dove i tre giovani cugini Ludovico, Agostino e Annibale Carracci, nel 1584, ricevettero dal conte Filippo Fava l’incarico di realizzare la decorazione ad affresco della sala principale del nuovo palazzo di famiglia.

Nella magistrale lezione del 1934, Longhi approfondì il nodo fondamentale della loro riforma naturalistica, rifondando di fatto, con le sue argomentate riflessioni, anche gli studi sull’altra metà del Seicento pittorico italiano, quello non caravaggesco.

«Qui, insomma, io avverto che è il segreto dei Carracci: in questa epoca, in questo romanzo storico, immaginato sulla grande pittura precedente, la quale viene riassunta non già come obbligazione metodica, ma come costume insostituibile, quasi come soggetto di grado più profondo per la propria pittura nuova e diversa; di affettuoso timbro lombardo. Ecco l’errore di voler sceverare e spuntare, ecletticamente, i frammenti di Tiziano, di Raffaello, di Correggio, di Michelangelo e dell’antico nelle opere dei Carracci; mentre è l’antica, ormai olimpica, cultura pittorica italiana, che, fusa e impastata come costume civile, latino ed italico, transita, rivive, si atteggia nella tenera illusiva moderna epidemide dei Carracci».

La mostra è dunque dedicata all’illustre studioso, come il suo stesso titolo evidenzia, citando quell’antologia in cui Gianfranco Contini scelse e ordinò alcuni saggi che Roberto Longhi aveva dedicato alla pittura italiana, da Cimabue a Giorgio Morandi. Il titolo rende omaggio al contempo a Carlo Cesare Malvasia e alla sua Felsina pittrice, la fonte più autorevole per la storia della pittura bolognese dal medioevo all’età barocca, uscita nel 1678.

Nelle sale affrescate dai Carracci e dalla loro scuola è possibile seguire lo svolgimento della storia dell’arte a Bologna attraverso una ricca selezione di oltre centosessanta opere, tra dipinti e sculture, provenienti da chiese, musei comunali, istituzioni e importanti collezioni private. Per la prima volta vengono esposti insieme capolavori quali la Madonna in trono con il Bambino e i due angeli di Cimabue, conservata nella chiesa di Santa Maria dei Servi, la celebre Estasi di santa Cecilia, dipinta da Raffaello per la cappella funeraria di Elena Buglioli Dall’Olio nella chiesa di San Giovanni dal Monte (oggi nella Pinacoteca Nazionale), e la tavola di San Rocco e il donatore del Parmigianino, custodita nella basilica di San Petronio.

Nel percorso iniziale la grande tavola dipinta da Cenni di Pepe detto Cimabue, raffigura il gruppo della Madonna col Bambino seduti su un trono ligneo con schienale a lira d’ispirazione bizantina, dotato di suppedaneo, e due angeli ai lati dietro lo schienale. La Vergine è rappresentata di tre quarti, come nel tipo bizantino dell’Odigitria. In maniera altrettanto tradizionale il Bambino ha in mano un rotolo spiegato e la Vergine tiene con la destra il piede del Figlio. Appare invece come un motivo senza precedenti nella pittura italiana il Bambino in piedi sul ginocchio della Madre che fa un passo aggrappandosi con la mano destra alla spalla di lei.

Sempre nel percorso iniziale segue l’affresco staccato di Vitale di Aimo degli Equi detto Vitale da Bologna che rappresenta la Madonna del ricamo (1330-1340), l’opera presenta un’iconografia, rara in Occidente, quella della Madonna operosa. La Vergine è raffigurata seduta su un cuscino rosso d’ispirazione imperiale bizantina, mentre sta ricamando una veste, su cui è seduto il Bambino, che sembra richiamare l’attenzione della madre rivolgendole lo sguardo e posandole la mano destra sulla spalla, per indicarle con la mano sinistra un devoto, che doveva essere dipinto nella parte inferiore dell’immagine, purtroppo perduta.

Assai curiosa per l’intreccio compositivo, la tavola ad olio, che rappresenta Matrimonio mistico di santa Caterina con i santi Giuseppe, Elisabetta e Giovannino (1540) di Amico Aspertini.

Capriccioso e pazzo cervello”, “fuor di squadra” (Vasari), “umor bisbetico”, “stravagante”, “bizzarro” (Malvasia). Nelle definizioni dei più celebri scrittori d’arte, la posizione di Aspertini nel panorama bolognese tra Quattro e Cinquecento si delinea in modo chiaro. A lui spetta il ruolo di antagonista polemico, di oppositore ostinato e isolato al proto-classicismo predicato da Francesco Francia, che aveva fatto presa nell’ambito cittadino. Nell’oratorio di Santa Cecilia (1506) Francia, Lorenzo Costa e gli altri anonimi pittori tendono a convergere su una posizione comune, della quale Amico si discosta nettamente esibendo i suoi riferimenti culturali: le grottesche, l’archeologia, le incisioni di Albrecht Dûrer. La tavola esposta in mostra riassume perfettamente quanto detto finora, a cominciare dall’insofferenza per la classicità.

I volti dei personaggi, tipici dell’artista, sono animati da un fremito di vitalità che Aspertini non soffocherà mai sotto la coltre di una grazia ideale. Il parapetto senza prospettiva, il turbinio delle mani intorno all’anello, lo sfondo disseminato di edifici dalle proporzioni variabili: tutto cospira contro l’equilibrio del Rinascimento maturo.

Il percorso conclusivo della mostra con Giorgio Morandi, inizia con una sconosciuta Nevicata nella quale si agitano pensieri e turbamenti e una vita spirituale che accompagnerà ogni suo gesto pittorico, alla ricerca di un’anima nascosta delle cose.

Densa e cupa appare la Natura morta del 1920, archetipo di “Valori Plastici”; rembrandtiana, per drammaticità dello stesso anno è la Natura morta che segue; per poi schiarirsi in forma cristallina e pierfrancescana nella grande Natura Morta del 1924 e di nuovo scomporsi nelle nature morte, desolate e polverose, degli anni Quranta e Cinquanta, fino al limite dell’astrazione. L’aveva capito, con sorprendente anticipo, esemplare modello di critica militante, nei confronti di un pittore a lui assolutamente contemporaneo, Roberto Longhi: «e finisco col non trovare del tutto casuale che, ancora oggi, uno dei migliori pittori viventi d’Italia, Giorgio Morandi, pur navigando tra le secche più perigliose della pittura moderna, abbia, però, saputo sempre orientare il suo viaggio con una leggerezza meditata, con un’affettuosa studiosità, da parer quelle di un nuovo “incamminato”».

 

Maria Paola Forlani


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