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Valter Vecellio. Le vene aperte del delitto Moro
25 Luglio 2009
 

Ancora un libro sulla vicenda Moro? C’è ancora altro che non sia stato detto, scritto, insinuato, gridato, sussurrato, evocato? Evidentemente sì, se è vero quanto scrive il curatore di Le vene aperte del delitto Moro (Mauro Pagliai editore, pagg. 357, 23 euro), «se dal capitolo dei delitti e delle pene si passa all’analisi di ciò che hanno significato i 55 giorni trascorsi tra il sequestro e l’uccisione di Moro, si può parlare di vene aperte…Sono domande ancora appese, quasi conficcate, ai punti interrogativi, smarrimento delle interpretazioni, particolari grandi o piccoli che, ognuno animato da una logica interna quasi sempre assoluta si infoltiscono sulla filiera. Randagi o malinconicamente muti…» (pag. 7).

Ecco dunque squadernati nove saggi di altrettanti studiosi o testimoni di quei giorni: dal professor Richard Drake al professor Marco Clementi; dal magistrato Luigi Carli al professor Roberto Bartali; da Fernando Orlandi, esperto di guerra fredda, a Gabriele Paradisi, da Franco Mazzola a Vladimiro Satta e lo stesso Salvatore Sechi. Tutto nasce da un convegno sul delitto Moro organizzato dal comune di Cento, due giornate di studio in occasione della morte del trentennale della morte del leader democristiano.

 

Di misteri, di vene aperte, la vicenda Moro è piena. Per dire: le incredibili protezioni di cui gode uno dei componenti del commando brigatista, Alessio Casimirri, fuggito in Nicaragua. In un’intervista al settimanale L’Espresso raccontò il mirabolante e assai poco credibile percorso effettuato: da Parigi a Mosca, e di lì finalmente nel Nicaragua sandinista, dove acquisisce, caso più unico che raro, la cittadinanza pur non avendo alcun titolo per farlo, e da allora è un intoccabile. Ancora più incredibile la storia della famosa seduta spiritica nel corso della quale emerge il nome di Gradoli. Qui ammirevolmente abbiamo tre professori, Romano Prodi, Mario Baldassarri e Alberto Clò, che – in una sorta di patto di sangue – ancora dopo anni accreditano la stessa incredibile versione, pur sapendo che nessuno crede alla seduta spiritica, e che un po’ tutti sanno essere, quello, l’artificio per coprire la fonte di autonomia che aveva fatto filtrare il nome di Gradoli. Ma a distanza di tanto tempo, che senso ha ancora “coprire” quella fonte? Altri misteri poi aleggiano sulla figura di Mario Moretti: il capo brigatista è stato sospettato d’essere in realtà un infiltrato, un doppiogiochista. Per qualche tempo lo sospettarono anche i capi storici delle BR, Renato Curcio e Alberto Franceschini: fecero una sorta di inchiesta interna, poi si convinsero che Moretti era “pulito”. In effetti riesce difficile credere che una persona sia disposta a farsi il lungo periodo di carcerazione che Moretti ha fatto, e non si comprende quale possa essere il “premio” per il suo doppiogioco e la sua lunga detenzione, niente affatto di comodo; di più: se Moretti è davvero detentore di qualche innominabile segreto, quale luogo migliore del carcere per simulare un “incidente” ed eliminare un personaggio scomodo? Che non sia accaduto, evidentemente, è un elemento a suo favore.

 

Meglio lasciar perdere la dietrologia. In questa vicenda se n’è fatta parecchia, e, per esempio, inseguendo la pista del direttore d’orchestra di fama internazionale Igor Markevitch c’è chi si è trovato dalle parti dei Rosacroce. Però, peccato, al convegno c’era Franco Mazzola, uno dei protagonisti di quei 55 giorni: aveva la delega ai servizi di informazione e sicurezza, partecipava alle riunioni di quel comitato di crisi, è autore di un libro, I giorni del diluvio, pubblicato inizialmente da Rusconi, e solo recentemente da Aragno. Un romanzo, con personaggi da decrittare; che “racconta” episodi e retroscena che – nel momento in cui furono scritti – apparivano letteralmente incredibili, un “segretissimo” scadente; e che invece, i fatti si sono incaricati di rivelare in moltissimi casi fondati. Richiesto di qualche spiegazione, Mazzola se la cavò dicendo di aver attinto dagli appunti presi giorno dopo giorno, in agende che riposavano da qualche parte, in cantina. Piuttosto incredibile, ma tant’è.

 

Nel suo intervento Mazzola invita a guardare a Est, in quello che era, in quegli anni, l’Est comunista: la Cecoslovacchia, la Germania dell’Est, l’URSS. E sillaba tre righe: «Ho sempre creduto, e continuo a credere, che Mario Moretti sia l’unica persona in grado di dire la verità su questo aspetto fondamentale della storia delle BR. Moretti però, fino a oggi, non ha mai voluto parlare…». E in conclusione del suo intervento accredita la teoria che ci fu un intervento esterno «che fece precipitare la situazione, portando alla tragica decisione di porre fine alla vita di Moro… Non si tratta di una ipotesi ‘fantapolitica’, come molti ritengono, ma di un’ipotesi ‘logica’. Mi pare l’unica possibile alla luce di tutto lo svolgimento della vicenda e soprattutto delle circostanze che hanno accompagnato la sua tragica conclusione» (pag. 202).

 

Chissà. A leggere “A Praga, a Praga”, l’intervento di Fernando Orlandi, si ricava esattamente l’opposto di quello che sostiene Mazzola (e non solo Mazzola, beninteso); qualcosa però, dalle parti di Praga (e di Mosca) dovevano sapere e devono aver fatto. Ne fanno fede lo stranissimo attentato di cui fu vittima Enrico Berlinguer; e la ferocissima polemica che oppose lo stesso Berlinguer a Leonardo Sciascia, e che determinò la fine traumatica della storica amicizia dello scrittore con Renato Guttuso. Questo a prescindere dal fatto che appare naturale, logico, che i servizi segreti di mezzo mondo, di fronte al fenomeno brigatista e al rapimento di Moro, abbiano cercato di capire che cosa accadeva, chi lo faceva accadere, e di ricavarne un’utilità. Non stupisce dunque che affiorino di volta in volta presenze del Mossad israeliano o dei mukhabarat arabi, del KGB o della CIA… Quello che però non sta in piedi è l’accreditato risentimento americano (di Henry Kissinger, nella fattispecie), sopravvissuto per anni, originato da un contrasto vecchio di una decina d’anni e che trova nelle BR lo strumento per la vendetta. Plausibile, dunque, l’osservazione di Sechi: «Perché tacere che, in linea teorica, possa essere stato interesse di Tel Aviv togliere di mezzo, o vedere sparire dalla scena politica, l’artefice di questa tortuosa e rischiosissima diplomazia (ndr: una linea politica estera parallela a quella ufficiale, creata da Moro per favorire l’OLP). Il desiderio di farla finire mi pare il solido motivo per cui Israele sin dall’inizio alle BR sembra abbia offerto armi, soldi e soprattutto informazioni preziosissime. E probabilmente qualcosa di più, cioè il ‘controllo’ del capo delle nuove BR, Mario Moretti…» (pag. 281).

 

C’è poi una notazione che Sechi riprende da uno studioso, Giuseppe De Lutiis, relativo al ruolo di Giovanni Senzani, definito “oscuro e centrale”; e davvero meglio non lo si potrebbe definire. A un prossimo convegno, ci si permette di suggerire a Sechi di invitare Marco Pannella: che da anni, su Senzani dice cose molto interessanti, che non vengono smentite, e che si finge di non sentire. Cose dette, per esempio, nel corso di un paio di audizioni alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi presieduta da Giovanni Pellegrino. Quelle audizioni meriterebbero ancora oggi di essere lette: a preziosa integrazione di quanto gli studiosi che Sechi ha chiamato a Cento hanno detto, e che ora possiamo finalmente leggere grazie a un libro che opportunamente quegli interventi raccoglie.

 

Valter Vecellio

(da Notizie radicali, 22 luglio 2009)


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